TRITTICO sulla PITTURA + appendice desultoria – Vladimir D’Amora

1. Munch – un grido
In storie segnate dalle crisi rimediate non altrimenti che criticamente, gli intellettuali per lo più giungono a un rifiuto, scavano in sottosuoli certi, esprimono omeopatie stringenti, qualsivoglia rappresentazione è della problematica emergenza, in un ostacolo anche nella presenza. Talora l’intellettuale è, esso stesso, riproposizione, a un tempo critica e lacerata, di radicali disorientamenti, e superfici sovvertite, che si incartano – così impiegandosi, in pena e indifferenza non capace ancora… Come se la vista non precedesse l’occhio, né questo presupponesse funzioni – quasi che fossero entrambi presi da rinuncia, costretti a limiti tanto cogenti, da liberare solo catene e vincoli di niente.
Qui, in terra nullius rei, è anche il caso di un figuratore prossimo all’Espressionismo tedesco, la corrente della polemica intenzionata a separarsi dalla cultura, dalla pantomima ufficiale – sebbene ancora per l’Arte, per una tecnica che sappia non copiarlo, il mondo, ma scoprire dell’Uomo un’interiorità come situazione di una certa rivolta. O, meglio, una figurazione che risenta della frantumata oggettività del reale al punto da cogliere, come nelle tele del norvegese Edvard Munch, l’uomo in termini di dramma, anche come messa nella scena, esistenziale: solitudine e paura, riconoscibili spartibili, ancora reificate e rappresentabili nei termini della distanza e di una dialettica che scoppi.
L’opera più famosa, ormai tipica, di questo dipintore è Il grido, una tempera su tavola risalente al 1893.
Già una pagina del suo diario ne dà la lettura forse più appropriata, interpretandosi nella possibilità di una reductio, di una volatilità significativa (arbitrio e referenza) – ammesso che questa scompaginazione del senso, non basti già a sé stessa… Di fronte a un paesaggio tipico, alla sera norvegese, al tramonto del sole, Edvard sente, e ode, un urlo attraversare la natura… La scena dipinta è, così, impregnata di rosso sangue: al centro una persona, o solo forse una sopravvivenza d’identità, che si copre le orecchie con le mani come per evitare di sentire un terribile grido – che pure soltanto lui percepisce, e deve sostenere – in un indecidibile di azione e passione. Il grido, quanto più proviene dall’abisso della più insondabile interiorità dell’anima più straniera, tanto maggiore è l’ingiunzione da esso liberata: la costrizione, qui, va per lasciarsi in un bando, a urlare una presenza. Drammatizzata forte puntuta alterazione, resa da, anzi, in colori violenti e irreali: tutto lo spazio, ancora circostante, è investito da una tragicità spenta di lacerazione, tappata nella scissione – perché l’umano presente si riduce a due figurine che camminano in un aldilà della direzione, anche solo all’opposto, se sono insensibili a tale situazione del tremendo, rimarcandola solo e, insieme, ricreandola sempre la solitudine dell’unico Uomo…
Ma, quale condizione, per questa tensione d’anima?
Munch fa fluidi mossi rigorosi tanto l’uomo, quanto i suoi dintorni: lo specchio d’acqua sullo sfondo, il profilo delle montagne, il cielo del rosso di un certo sangue. Ma la sospensione e l’inquietudine di questo mondo, in cui realtà esterna e umana inconscia interiorità si mescolano, significano? A cosa danno il segno? S’intendono in una polarità ancora dell’umano? Come se l’uomo con la sua irrazionalità partecipasse dei ritmi vitali della natura, a loro volta sentiti come razionalmente incontrollabili? Mentre solo la precisa linearità della staccionata, posta diagonalmente al centro, farebbe da contrappeso – pur semplice allusione a una razionalità umana quasi artificiosa e apparente in un mondo deprivato dell’indefinitezza dei suoi sensi?
2. La pietas di Caravaggio
Al culmine del manierismo pre-barocco troviamo una pittura sì realistica, ma non tale da ridursi a mera contestazione di opzioni classicistiche, e sempre lavoranti idealità e idealizzazioni, quali il terso nitore della tavolozza di un Annibale Carracci, anche contenutisticamente allineato a temi e motivi riconducibili a una norma riconosciuta e condivisa (e che pure, quando si apre alla realtà, rischia immancabile il bozzettismo, anche fumettistico). Si tratta del naturalismo di Caravaggio, cioè di un dipintore che nel produrre le storie mitiche della tradizione iconografica tanto classico-pagana quanto biblico-cristiana, e cattolica, le depura di ogni investimento soggettivistico, ogni sovrasenso d’interpretazione – sicché solo l’appropriazione più intima e indeducibile, affatto consegnabile alla biografia come prius, quanto piuttosto in una concomitanza essa stessa viva con il fare pittorico, riduce le storie al grado zero della loro possibilità di accadimento, la ferialità e temporalità attimale e pure tale, da capacitarsi della relazione come fosse polarità: comprendente e, insieme, escludente l’eterno e il transitorio, il divino e l’umano. Accanto ed entro tale naturalismo feriale, Caravaggio espone – nelle sue costruzioni di vita, sulla situazione dei suoi blocchi di tempo rappreso a fuga – non altro che il farsi stesso della fruizione dell’artefatto – in una continuità senza sbocchi pro-ponendo prospettive né naturali né simboliche, ma tanto artificiali da dischiudere proprio la circolazione degli sguardi innescatisi tra il piano dell’inscenarsi pittorico e l’evenire riguardante. E ciò immettendo non personaggi, degli estranei ospitati dalla situazione ripresa nel tempo stesso, dipinta per una certa complicità d’oblio, di reciproco allentarsi… Grado zero, letteralmente traccia di una distanza: nel distanziarsi di artificio e darsi-di-vita: tra il soggetto dipinto e il soggetto fruente soggiace proprio una forza, lo scorrimento di sguardo. Naturalismo visionale, non più manieristico e non già barocco; per cui se possiamo abusare di un certo rinvio ad una certa negatività, si tratterà di comprendere la modernità pittorica italiana ed europea come segnata caravaggescamente perché duplicemente negativistica: una rappresentazione della realtà che, nel suo stesso farsi, non si neghi come rappresentazione e finzione, e ciò è una certa idea del tragico, alquanto tradizionale e rinnovabile perché disponibile come conversarsi del rapporto di arte e vita, di finzione e politica; ma anzi tutto una idea di pittura, nell’arte, che sappia rinunciare alla sua stessa ideatività: sottraendosi alla nuda progettualità, alla risorsa disegnativa. Caravaggio realizza la naturalità negando la realtà e rappresenta la finzione negando la sua idea?
3. Da Bacon Francis, a Noi
Quando entrava nella scena, l’aveva spalmata di grigio sangue, per un caso tutto bastardo di linee piovute grasse, che gocciolavano urli. Perché desiderava romperle le superfici, fagocitate a vim & soda. E poi gli piacevano le pose, dove la storia si segmentava cristiana ancora, senza lume di natura, senza salsa di speranza. Gli capitarono pazzi calcolatori che puntavano alle macerie delle bombe, di città sporcate da sangui minoici, era un genio da ludi clinici!
Ma lui si tenne duro, femmina pagante e sotto una coperta di flaccidi richiami, colle e acidi a lurido balsamo. Per occhi chiusi nei futuri più spensati. Senza piacere, montato a giostra. Nostra.
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La balbuzie della pittura
Non c’è niente di così disperatamente mitico: tutto è unito alla realtà.
Jannis Kounellis.
Soutine, Casorati, Sironi. E poi Washimps, Longobardi e Emblema. Afro, Vedova, non c’è luce. Giacometti, Maiorino, Cy Twombly e Klee. Un grumo se la mangia, la luce, una posizione di retroguardia, una specie di assalto inesorabile.
I classici, tutti primitivi, sono sporchi. La loro biacca indovinata.
Quando s’aprono le porte alla natura, allo spontaneo che immerge le misure nella prossimità dell’alito, della memoria schiacciata dalla pietra, la pietra della sicurezza, blocchi di cromatica potenza oscurano i vuoti, che lampeggiano. Ma lontani: Monica Ferrando, come un mito riattivato per attimi che spaccano l’occhio in due, come trasfigurazione. Mentre il mito sarà la sua interruzione, l’interinalità delle nostre facce anche celate, coll’innaturalezza.
Klee, Licini. Qui si cela, si deporta anzi, la ragione dell’assenza, della carne esposta alla luce irrimediabile della modernità più calcolata, persino il caso e il sogno, l’armamentario d’ogni surrealismo messo a lavoro, come sponda. Quando l’arte si interpreti, e il dipintore stia lì in uno studio matto, a farsi parlare. E scrivere, nella domanda ch’è sempre più cavernosa delle sue risposte.
Piero Pizzi Cannella. Ecco perché non c’è Bacon, Francis Bacon. La modernità è modularità, ripetizione, lo scarto entro un nuovo campionario di vite tolte dal flusso. Un nascondiglio forse, una prospettiva di poco a lato.
Le carni appese.
Il rosso incistato nella potenza vivida. Adagiato in sé, ripiegato in una strepitosa evidenza di sfumature accessibili, irrilevanti anche. L’anticamera della storia. Il dopo di ogni storia.
La tragedia nella letteralità dell’osceno. L’urlo mancato, e le carne sbriciolate fino alla polvere che si regge, lasciando agio al corpo striminzito del folle, del giocoliere, del bimbo che suona come un mago appartato. Glenn Gould, la miopia dell’atto, la potenza sbrindellata e acefala, secondo una certa direzione, un certo fenomeno di strada rinascimentale, colle truppe papali, il mecenatismo del cuore, come il calcolo dell’arte invisibile. L’arte che si può non mostrare.
Le carni che stanno stirate senza stridore, non senti sangue solerte e sincero spruzzarsi santo scandito dalle logiche della sigla della Storia. Non c’è Bacon. Francis Bacon o dell’ostentazione dell’esplosione mitica, i miti che ci incatenano al centro dell’ascolto, dei musei privati e oggidiani, stupefacenti le linee che si segnano in faccia, per manciate d’attimi che invocano occhi, accrediti, competenze ammiccate. C’è Lucian Freud.
Intorno. C’è il mito, Bacon. Intorno Licini e Klee e gl’angeli decisi dalle forme e dalla vita, quasi a distanza pari. Come angeli destinati a rendere evasione. Inintenzionata, si badi. Kafkiana.
Eppure manco Kafka si può immaginare, perché davanti alla porta aperta si muore perché la porta si chiuda, perché il vicolo messianico lo si riconosce tale, lo si esalti pure, come Croce che ne lamentava il letame irrespirabile e tipico, condito col sole. Come Benjamin. Napoli d’una porosità speranzosa, bastarda e marxianamente.
Quando si sfracellano i miti, pure i solari che paiono amicizie di cui degustare gli scintillanti bordi, senz’affondare alla cerca di nuclei di materia umida, appena scossa, sempre sono miti inessenziali. Il mito che si sbricioli a colpi di esibite maciullazioni e epocali, il mito sempre riproducibile nel quasi vuoto da esso stesso esigito, come una vacanza destinata a spegnersi: in spugne di grondante capacità. Il mito del mito, colla realtà riserva ironica, riserva avara, uno schema da pazienti dilettanti del vivere. E’ invece la misurata arroganza dei volumi, le faci lì per spegnersi, la facce addormentate e vigili i figuri di Sironi, imprigionate genìe nelle città da poco messe a nuovo, da poco apparecchiate tra segni di altro e castrati, meri significanti imbambolati. E’ la ossessione di certo coprimento, Piero Pizzi Cannella, un oblio della figura e della scena e del volume, dell’aggettato che fa, già in ogni classico della consistenza, la minima piega di storicità. Come se in questo interim in cui ci si scambia saluto né di pace né di guerra, acefalo, finalmente ogni volta l’espropriazione venga alla vista come tale, e oblio appena nominato, destituito quasi del suo invincibile deposito d’insignificanza, e l’umano ridotto all’evidenza centrale d’una sembianza, un rosso trafitto, il bianco incastonato in sé, su carta che sa di lavoro, sulle carte dello studio della vita immobile. La vita che differisce il suo messianico stesso.
Piero Pizzi Cannella, non è che manchi ogni commozione, ma solo un tremito ch’è un gioiello senza mare, senza sole, niuno appiglio. Quasi il semplice che rifugge pure il ma della poesia, l’ultimo verso dell’occidente vigilia di balbuzie. Quel Celan il cui stilo gira e gira e dai grovigli questa insalvabilità. Che tu la bevi, ti disseta, verde ghiaccio.
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Potenza di Tiziano
All’estremo di un’epoca, quando il lavoro stinge nei dintorni più prossimi applicandosi a basi risaputissime, le opere sbocciano singolarmente sfumate, e però tese, nell’incompiutezza accasate come cenni, distensioni materiche e durezza. Sicché il paesaggio, prima invisitabile, un cielo e una terra ora essenziali, tratteggiati nella parte loro, mentre uno che suona il flauto, una femmina figurano supremamente.
Non è realizzata, questa pittura, è forma che sbozzi una località, il dar luogo del pittorico alla possibilità inessenziata, nell’essenziale scenico, assumendosi la pittura la sua padronanza, trattenendosi presso se stessa: conoscere il limite, mostrarsi.
La purezza dell’atto. Ciascuno di questi atti somiglia — solo. E presenta la fuga del toccare, dalla sua restanza: una figura sempre richiede una purezza, la partecipazione al preterito, come giacciono rappresentazioni di carni e di zone separate dall’esclusione, femminili, riposte, e competenze, capacità, comprensioni disinteressate, inapprensivamente.
La figura non è una questione, pure non è una cosa: non realizza ciò che vuole avere figura. Questa non esiste per un’interiorità di fede, affidabile, probabile: non è nulla che compia e inveri un’essenza.
L’atto puro, nell’atto la potenza si riconduce a sé, si salva, e la purezza così è figura di figurale privazione: ecco, così…esiste un difetto d’essere — originariamente autoprivazione.
Qualcosa è tale stagliandosi sullo sfondo di un nulla.
Il nulla è difetto di essere esterno.
Il magico.

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