Frammezzo- come uno scherzo

di Vladimir D’Amora

Per il punto come vero: come cruciale – forse

Si tratta sempre di confrontarsi, oggi ch’è oggi, con una stantia e ingenua e datata concezione della poesia, del poetico, della scrittura, dell’arte, della narrativa – della Cultura… – ch’è una maiuscola tanto ingombrante, quanto ridicola… L’artistico e il poetico: il letterario come autenticità scevra di impurità… E molti so’ convinti di questo, si illudono di questo… E in Fb e nella Rete, e nella quasi totalità dei luogi esterni alla rete che pure oggi non possono che somigliarle, crescono come funghi né edibili né velenosi, costoro: come attecchissero qual morbo ed edera maligna e degna di valere come ornamento… Perché ci si illude che, di fronte al nichilismo imperante sempre e dilagante ormai, l’ancora, essa stessa nichilistica però, cui ci si aggrappa, e aggrappi, come a un isolotto salvo e salvifico nel gran mare della confusione non caotica, nel nichilismo, in cui versiamo – che questo isolotto, questa linea di fuga e questo sito di riparo, sia la poeticità, e la scrittura e la posa distaccata e, insieme, coinvolta dell’intellettuale che oggi crede di potersi, finanche disinvolto e leggero, staccare dalla postura di riflessività e di narratività che assume e in cui insiste… Così che si sfornano testi, e si assumono posture, che si vogliono e pretendono poetici e impegnati, anche impegnativi o solo lievi lievi, perché generati da e in una pulizia formale: da e in una nettezza di contenuti… – comunque in una tensione, non essa stessa elettrica però ma solo riconoscibile come tesa e sensata… Gli stereotipi, insomma – non si tratta del male da cui fuggire: del male da ridurre al bene – al bene della poesia e della scrittura e della socializzazione autentica e vera… Piuttosto, la lingua stereotipata, la lingua standardizzata, la lingua fatta di immagini e che non fa, essa stessa, immagine, è il destino proprio di ogni lingua: è lo stadio storico in cui non solo versa criticamente, in crisi, oggi la lingua, ma in cui, da sempre a sempre, la lingua sorge e finisce… Se la poesia e il poetico e il poeta e il narratore e l’intellettuale e l’artista non vogliono risolversi nel ridicolo e nell’assurdo di chi, proprio denunciando la crisi permanente in cui (oggi) versano il pensiero e la parola, nichilisticamente ormai come crocifissi, presume di poter dettare e quasi imporre il proprio pensiero sentire e il proprio scrivere parlare come, chissà per qual forza di miracolo, immuni e salvi da questo stato di crisi dell’esperienza e della vita da cui pure muovono: che appunto pongono come presupposto quasi del bisogno di poesia e di arte e di letteratura e d’impegno intellettuale e culturale: come giustificazione del loro pensare e scrivere… Ecco perché la scrittura ha da incaricarsi di essere una messa nella scena proprio di questa crisi della parola e del pensiero: la crisi della lingua-immagine in cui la poesia e il poetico e lo scrittore e l’artista e il poeta cadono come istantanei barlumi di senso e di sacro quasi: di una santità tanto più credibile e salda, quanto più risicata e quasi rosicata e dal suo stesso interno e dai suoi dintorni così stereotipati e mercificati…

Oggi, quello che di un discorso critico-poetico, pratico-teorico, non s’intende, si ripercuote poi, inevitabilmente, nel modo stesso in cui ci si rapporta al riferitore di un tale discorso, lasciandosi preda di umoralità e di incontrollate reazioni e sconclusionate conclusioni… Perché? Perché, nella crisi attuale in cui nichilisticamente versiamo, si vorrebbe sempre elevare l’amore e l’amicizia e la poeticità, la immaginosità, la visionarietà e la paticità e la verità di un verso come di una prosa, a oasi di senso e di sanità… Ma, perché questo è un atteggiamento ingenuo quanto contraddittorio? Perché non riesce a perseguire proprio quell’unità, quell’organicità vivente e vitale, di forma e di vita, di esperienza personale, di vissuto, e di scrittura, di forma (poetica), che ci si propone di toccare e praticare… Questo fascistico e borghesissimo tenere come distinti il privato del cuore e il pubblico del cervello: la scrittura e il sentimento: il personale e l’impersonale… – questo tenerli distinti solo per poterli, di volta in volta, secondo il bisogno del momento e secondo la convenienza dell’ora, mettere in una congiunzione e unità che finisce per essere non vera e autentica ma solo stucchevole e ingenua… L’alternativa? Come fare altro, senza imporre un’opinione come fosse il proprio punto di vista, ma piuttosto aderendo alla cosa stessa qui in questione? Cos’altro fare per cercare di evitare di tenere la forma e la vita, il pubblico e il privato ora come inesorabilmente staccati, ora come altrettanto inesorabilmente uniti e coincidenti? Ecco… L’alternativa è e sarebbe il provarsi nel mezzo, nella soglia interstiziale: nel limen e limes: nel luogo-non-luogo tra la forma e la vita: tra il pubblico e il privato… – provare sempre la parola, saggiarla sempre nella messa in tensione di pubblico e di privato, di forma e di vita…: tra la ginnastica del cuore e la palestra del cervello… E questo proprio perché quella che è invece l’acquiescente coesistenza di pubblico e di privato non è altro che l’oscenità, nichilsitico-psicopubblicitario-capitalistica, in cui irreparabilmente versiamo… – in cui appunto ci dibattiamo così contraddittoriamente e ciecamente anche, da illuderci che quelle oasi di senso e di salvo, che il potere e il capitale, che la nostra ora storica e che i dispositivi ci mettono a disposizione di consumo e di pratica, allevandoci e allenandoci così spietatamente e, insieme, giocosamente, siano come scelte che possiamo ancora concederci e in cui possiamo ancora incappare con libertà e consapevolezza… Si tratta, invece di patire sempre costrizioni e necessità e di tanto in tanto illudersi di spazi evanescenti o apparecchiatissimi di libertà e di contingenza, si tratta di saper abitare il frammezzo sempre.

… frammezzo che è, proprio esso, lo spazio dell’arte e dell’impegno della forma nella vita e della vita nella forma: frammezzo che è il gioco di spazio e di tempo del fantasma: è, esso, lo spettro… Che non è solo ritorno del rimosso, del passato escluso e sintomatologicamente presente solo nelle inconsapevolezze e nei cedimenti… Lo spettro è il ritorno-del-futuro: è l’irrompere dell’avvenire e nell’avvenire.

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