Michela Murgia intervistata da Laura Di Corcia

Non provate a tirare fuori la faccenda che i nomi delle professioni dovrebbero essere declinati anche al femminile; non provateci se non volete diventare oggetto di scherno, attrarre su di voi sorrisini di compatimento. Oppure provateci e cercate di abbattere il muro di diffidenza che si materia ogni volta che si cerchi di far passare l’idea che, come si dice commessa e non commesso, di fronte a una professionista di sesso femminile, si dovrebbe dire anche avvocata, ingegnera, architetta. Michela Murgia, scrittrice da sempre attiva anche a livello politico, lo fa. Proprio per questo l’abbiamo intervistata, a ridosso di una conferenza da lei tenuta sul tema del corpo e delle ragazze.

(A cura di Laura Di Corcia)


Sono anni che si parla di mercificazione del corpo femminile, eppure sembra che non se ne arrivi mai a una.
Manca una volontà politica. Bisognerebbe partire dal tema del linguaggio e dal tema del simbolico, che però non vengono mai percepiti come temi centrali. Penso alla Presidente Boldrini, che soprattutto negli ultimi mesi continua a porre la questione anche in senato, dicendo a chiare lettere che vuole essere chiamata la Presidente. Nonostante ciò, i deputati sfrontatamente la chiamano signor Presidente. L’altro giorno a uno di questi che le aveva detto “la ringrazio, signor Presidente”, ha risposto “la ringrazio io, deputata”. Fino a quando i lavori di prestigio, le conquiste sociali non verranno declinate al femminile, sarà sempre possibile dire cameriera o cassiera, ma non sarà mai possibile dire ingegnera, dottora o la Presidente.

Perché tutta questa resistenza?
La frase che si sente più spesso è che le priorità sono altre. Il fatto è che le priorità non sono altre. Se non si riconosce che dall’impianto simbolico deriva l’azione, non ne arriveremo mai a una. Pensiamo al femminicidio. Quante volte sentiamo dire che l’uomo è cacciatore? Quante volte questa espressione viene usata con leggerezza, col sorriso sulle labbra? Il problema è che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla. Abbiamo talmente inculcato nel nostro immaginario l’idea che la seduzione e la morte siano contigue, se non strettamente imparentate, che se mentre siamo al bar vediamo un uomo buttare l’occhio sul sedere di una ragazza, subito ce ne usciamo con un’espressione che non è per nulla leggera, ma reitera un immaginario di morte; mortificante nel quotidiano e a volte mortifero, quando si esprime nelle sue estreme conseguenze. È dal linguaggio che nasce tutto, perché esprime la chiave con cui noi vediamo il mondo.

Nella vita quotidiana, che per fortuna non sempre è attraversata da fatti gravi come il femminicidio, che conseguenze ha il declassamento della donna ad oggetto?
Con il termine femminicidio non s’intende soltanto la donna morta, ma tutta quella gamma di annichilimenti, cancellazioni e morti civili e sociali che caratterizzano la vita delle donne. Centocinquanta sono le morte, ma migliaia sono le donne che vengono pagate meno dell’uomo a parità di mansioni. Sono morti che passano per la negazione di un tempo di lavoro che permetta di scegliere anche la maternità, quindi non il lavoro o la maternità, annichilendo la pienezza di alcune donne che vorrebbero essere e madri e professioniste. Aggiungo ancora che è molto facile che una donna all’università abbia i voti più alti del 30 per cento del suo compagno, ma è altrettanto probabile che cinque anni lei lavorerà per il suo compagno. Questo riproduce una società maschilizzata dove il potere è soltanto degli uomini e le donne per accedervi devono adeguarsi a regole che non hanno stabilito. È molto difficile dire, io cambio quelle regole. È molto più facile adeguarvisi e per questo molte donne si ritrovano a ragionare dentro l’idea di potere maschile. È un femminicidio anche quello, perché si impedisce a metà della società di esprimere un’altra idea di potere, oltre che di realizzare le sue aspettative, di essere retribuita per quel che lavora, di poter accedere a luoghi di prestigio, eccetera. Il femminicidio è ritenere che le donne siano cittadine di serie B.

Quando si parla di questi temi si fa sempre riferimento alla vita professionale, ma oltre ad essa c’è anche una vita relazionale ed emozionale. Relativamente a questa sfera, che influenza hanno i discorsi che abbiamo fatto fino ad ora?
L’anno scorso alla fine dell’anno l’Istat ha fatto un sondaggio di settore nelle scuole, per capire la portata del fenomeno della violenza di genere. Cinque maschi su dieci hanno affermato di non trovare del tutto strano in alcune circostanze l’alzar le mani sulla loro fidanzata, quando per esempio ci sia di mezzo un tradimento. Per due ragazze su cinque questa può essere una delle modalità espressive dell’amore: appare chiaro che già da giovanissime le donne non distinguono il conflitto di coppia dalla violenza di genere. Questo aspetto è difficile da sradicare, perché l’hanno visto in casa e anche perché ne sono nutrite dal punto di vista delle storie. Pensiamo a Twilight, che è un libro che ha spaccato le classifiche, molto letto dalle giovanissime. Lì c’è una ragazza non particolarmente intelligente o brillante né particolarmente bella, ma che fa girare la testa al più bello della scuola, che – sventura per lei – ha una natura pericolosissima. È un vampiro, ma va vista come una metafora: ha un istinto divorante nei suoi confronti, che qualche volta le causa dei danni. Quando fanno l’amore per la prima volta, lei esce dal letto piena di lividi. Lui rimane scioccato e dice, non ti toccherò mai più, al che lei risponde, no, non preoccuparti, so che per te questo è amore. Mettiamoci nei panni delle ragazze che leggono quel libro e che vivono situazioni in cui il fidanzato ogni tanto fa partire uno schiaffo: capiscono che quello è amore, che quella sberla è una carezza ad alta velocità. Andiamo con la mente anche alle ragazze che qualche anno fa leggevano Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia: che idea di amore è quella che passa per i simboli della catena e del lucchetto? Strumenti che si usano in tre casi: quando devi legare un cane, quando devi assicurare la bicicletta al palo perché non te la rubino (quindi un oggetto di tua proprietà) e quando devi chiudere qualcuno in carcere. Quali di questi tre significati attiene all’amore? C’è da disinnescare un immaginario e noi che ci occupiamo di linguaggio siamo chiamati a farlo.

Perché è meglio parlare di donne invece che di donna?
Una delle cose che ci compromette in questa battaglia è l’idea di essere rispettabili in quanto appartenenti a un ordine superiore. Io non voglio essere rispettata perché appartengo a un genere debole. Non voglio essere rispettata in quanto madre, sorella, creatura fragile, in quanto rappresentatrice di tutto il simbolico femminile. Io non ho figli, devo essere quindi rispettata meno? È il discorso della santa e della puttana. La donna è donna secondo i canoni sociali; se esci da quelli, non sei più rispettabile.

Tu hai studiato teologia, quanto sta facendo la Chiesa cattolica per distaccarsi da questo immaginario?
Praticamente nulla. Pensiamo alla santificazione: quali donne sceglie di beatificare la Chiesa? Suore o madri morte di parto. Se guardi il calendario di uomini santi, ci trovi banchieri, carabinieri, frati certamente, ma non solo, benefattori a vario titolo, politici… Nessun uomo è vincolato a un ruolo, le donne sì, lo sono sempre.

In copertina: Michela Murgia, © BASSO CANNARSA (2009).


Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972. Nel 2006 ha pubblicato con Isbn Il mondo deve sapere, il diario tragicomico di un mese di lavoro che ha ispirato il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti.
Per Einaudi ha pubblicato nel 2008 Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, nel 2009 il romanzo Accabadora, vincitore del Premio Campiello 2010, nel 2011 Ave Mary (ripubblicato nei Super ET nel 2012), nel 2012 Presente (con Andrea Bajani, Paolo Nori e Giorgio Vasta) e L’incontro. È fra gli autori dell’antologia benefica Sei per la Sardegna (Einaudi 2014, con Francesco Abate, Alessandro De Roma, Marcello Fois, Salvatore Mannuzzu e Paola Soriga), i cui proventi sono stati destinati alla comunità di Bitti, un paese gravemente danneggiato dall’alluvione.

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