di natàlia castaldi
Nell’aria si respirava il canto di una guerra antica, Europa era una fanciulla vecchia con occhi avidi come la fame e labbra strette sul silenzio dei suoi errori. Se ne stava seduta all’attracco numero zero del porto di una Patrasso in rovina, presidiata agli angoli delle strade. I gomiti poggiati sulle ginocchia reggevano avambracci e mani, su cui dondolava un viso mesto che osservava l’abisso dei colori del suo mare. Le si avvicinò un uomo sulla sessantina, aveva un’anca offesa, secca e corta e un bastone per equilibrare l’andatura claudicante; era vestito bene: doppiopetto scuro, camicia celeste, cravatta scura come il pantalone appaiato alla giacca. Lasciava una scia di profumo forte, che a primo impatto prometteva qualcosa di buono, da contrapporre al pessimo retrogusto che la lingua percepiva nell’aria di terrore e protesta che avvolgeva la città intera, per poi sostituirsi al sapore osceno dell’imposizione della sua presenza nel quadro di desolazione da cui Europa si nascondeva, in attesa di una scappatoia per sottrarsi alle sue responsabilità.
L’uomo si fermò proprio dinanzi alle sue ginocchia scoperte da una gonna leggera che si ritraeva scivolando indietro fino a svelare il biancore tornito delle cosce. L’uomo avanzò fino a pressare le sue gambe contro quella nudità fresca e chiusa nelle ginocchia di una proporzione opulenta e antica, fuori moda; poi infilò il bastone con prepotenza fino ad aprirsi un varco tra le cosce della ragazza. Europa non si mosse, sollevò lo sguardo lasciandolo scorrere lentamente dal bastone alla mano, fino a risalire su per il composto vestito dell’uomo che chiedeva la sua attenzione. Lo fissò diritto in faccia fino a scolorirne i contorni, cogliendone più che il tratto fisico e distintivo, l’espressione e il significato dello sguardo, della postura, della salivazione, che dichiaravano l’esplicita intenzione di corrompere il suo corpo.
Europa non fiatò, non disse una parola, tese la mano come una zingara dai denti d’oro all’uscita della messa. L’uomo frugò in tasca e tirò fuori un mazzetto di carta rilegato da una fascetta bianca che poggiò sulla mano di Europa senza abbandonarne la presa, mentre col bastone faceva gioco con veemenza tra le cosce della ragazza, che man mano abbandonava la tensione muscolare, allentando un varco all’avanzare di quel corpo deciso e zoppicante nella sua immagine di presuntuosa eleganza e solidità.
Europa prese la fascetta di soldi e la lasciò scivolare nella borsa di stoffa pezzata che teneva riversata in terra, accanto alla caviglia destra. Dunque lasciò che l’uomo avanzasse, assecondando ogni sua richiesta. Quando l’uomo andò via, Europa ingoiò il boccone amaro della sua troica scelta, asciugandosi gli angoli della bocca, sfregando forte le labbra contro la camicetta aperta. Poi si chinò sulla borsa, prese la fascetta, una penna e iniziò a firmare le cambiali per i paramenti funebri dei figli che avrebbe lasciato morire d’indigenza.
Quando il vaporetto attraccò per poi sbuffare la sua ripartenza, la vidi salire camminando lenta, con una freddezza oscena nel voltare le spalle alla città che salutava, mentre mi risvegliavo nel letto bagnato di urina in una clinica convenzionata, con sopra il mio viso gli occhi sgranati di due giovani medici che ripetevano il mio nome: “si svegli, signore, ci sente? forza, si svegli, perdio!”.
Le scariche dei defibrillatori sul mio petto mi fecero sussultare, ripresi coscienza, con un filo di voce chiesi di Europa, se stava bene.
I due risero scaricando la tensione: “lo sentirà stasera al telegiornale, ma forse è meglio che riposi, cerchi di non pensare” disse uno dei due, mentre alle loro spalle gli infermieri si agitavano a rigirare e sollevare il mio bacino per cambiarmi le traverse.
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Grazie, Natalia.