di Giovanni Graziano Manca
Nel 1979 a chi gli chiedeva di riferire come immaginasse la propria vecchiaia il regista tedesco Rainer Werner Fassbinder rispose candidamente che alla vecchiaia non contava affatto di arrivarci. Il punto di vista dell’uomo di cinema su questo peculiare argomento sembra oggi collocarsi perfettamente all’interno delle coordinate che ne hanno delimitato la filosofia, il ben noto stile di vita, la particolare estetica e, più in generale, l’opera cinematografica e quella teatrale. Non è mai esistito un artista ‘maledetto’ su cui dopo la morte il silenzio sia calato in maniera così arrogante e definitiva, nessun cineasta o uomo di teatro (tranne il Fassbinder dei primi film, naturalmente, che era, in modo viscerale, entrambe le cose) che si sia finora contraddistinto per aver realizzato e proposto al mondo opere cinematografiche che testimoniano di uno stile crudo e totalmente privo di edulcorazioni, essenziale dal punto di vista dell’estetica e del linguaggio utilizzati, tragicamente verosimile nei fatti rappresentati, accusatorio nei confronti del potere costituito e della stessa società. Nel cinema di Fassbinder, quello da ascrivere al finale della sua carriera, tecnica cinematografica e modalità espressive diventeranno più raffinate, ma certamente nessuno (neppure Almodovar, checché se ne dica), fino ad oggi, è mai riuscito a far proprio un linguaggio così dirompente, diretto e ‘indigesto’, nessuno tranne forse, per alcuni aspetti, Pasolini (non a caso, tra i primi dieci film in assoluto preferiti dal bavarese uomo di cinema, figura il Salò pasoliniano), ma in modo meno disarmante e immediato. Certamente nessuno, verrebbe ancora da dire guardandosi un po’ intorno, ha raccolto, come si dice, la cospicua ‘eredità’ artistica lasciata dal regista tedesco.
Definito corrucciato, irritante, aggressivo e luminoso (Di Giammatteo), la macchina più veloce del giovane cinema tedesco, radicale esponente di un nuovo ‘sturm und drang’ novecentesco (Fabio Bo), il santo martire della diversità, ineffabile e anestetizzato (Davide Ferrario), Fassbinder era certamente tutto questo ma anche, molto più banalmente, artista che sta dalla parte degli emarginati (immigrati, sbandati, drogati, omosessuali) e delle donne nonché osservatore attento e spietato cronista della evoluzione storica della Germania e del modo di vivere dei tedeschi a partire dagli anni del Nazismo e da quelli del dopoguerra fino alle più recenti vicende storiche del terrorismo germanico raccontato secondo il suo personale punto di vista, quest’ultimo, in uno dei suoi ultimi lavori, il primo degli episodi del film collettivo Germania in autunno (1978). A far da contesto ambientale di una umanità spesso disperata sono sovente squallide periferie cittadine, quartieri urbani degradati e interni di povere e disadorne, poco accoglienti e/o fatiscenti abitazioni popolari. Sul piano delle scelte tecniche e stilistiche, soprattutto nei primi film, il bianco e nero, le inquadrature e le pause volte a catturare la riflessione attenta dello spettatore e l’essenzialità godardiana pongono ulteriore enfasi sullo squallore delle vicende e delle situazioni rappresentate. E’ un dato di fatto: a partire dal 1982, anno della sua tragica scomparsa, il cinema di Fassbinder sembra essere diventato oggetto, da una parte, di una censura senza quartiere attuata da chi il cinema del regista tedesco lo conosce, dall’altra di una ‘censura a priori’ impercettibile e impalpabile, una censura che proviene dal ‘distratto’ potenziale spettatore dei suoi film. Il cinema del regista tedesco non è certo alla portata di tutti né può essere definito cinema d’evasione. Gli epiloghi sono spesso talmente brutali da non offrire spiragli e da non lasciare speranze allo spettatore. E’ cinema politico, scomodo e urticante, quello di Rainer Werner Fassbinder. E’ cinema che fruga la coscienza delle classi dirigenti tedesche mettendone di volta in volta a nudo l’inadeguatezza, gli appetiti economici, le miserie morali, la profonda disonestà e l’agghiacciante cinismo. E’ espressione artistica che vede e mostra anche l’uomo della strada e l’uomo della borghesia entrambi schiavi magari inconsapevoli delle proprie debolezze e del proprio egoismo. Le opere della nutritissima filmografia fassbinderiana, preziosa testimonianza della rara onestà intellettuale e della sensibilità civile del loro autore (sono oltre quaranta i film di Fassbinder, realizzati in poco più di venticinque anni di attività cinematografica), sono ricche di elementi stilistici variegati, di spunti di riflessione, di richiami a tematiche sociali, politiche, storiche, sessuali e psicologico – esistenziali. Un cinema anche, per certi versi, profondamente frainteso, quello di Rainer Werner Fassbinder. Di ciò il cineasta tedesco era consapevole al punto da dichiarare in una intervista rilasciata negli anni Settanta che
‘la gente critica i miei film perché sono pessimisti. Ci sono un sacco di ragioni per essere pessimisti, ma non considero tali i miei film. Essi si fondano sull’opinione che la rivoluzione non avviene sullo schermo del cinema ma fuori, nel mondo. Quando sullo schermo io mostro alla gente il modo in cui le cose peggiorano, il mio scopo è di avvertirli che così andranno le cose se non cambiano la loro esistenza. Non importa se un film finisce in modo pessimistico; se espone abbastanza chiaramente certi meccanismi così da mostrare alla gente come funzionano esattamente, allora l’effetto finale non è pessimistico. Non cerco mai di riprodurre la realtà in un film’ ;
[Fassbinder intervistato da C.B.Thomsen, intervista selezionata da Davide Ferrario per il ‘Castorino’ dedicato al cineasta tedesco, Milano 1978].
Merita in conclusione una considerazione particolare l‘attenzione fassbinderiana per la donna: il regista è particolarmente abile nel mettere in evidenza le contraddizioni che ne contraddistinguono l’essere al mondo, l’incrollabile forza d’animo che spesso fa a gara con il più sfrenato cinismo, il suo essere molto brava ad ‘arrangiarsi’ ma sempre vulnerabilissima a causa delle regole imposte dal vivere in società e dalla cultura predominante. Sarà un caso, ma tra le opere di più di più alto spessore dell’intera filmografia fassbinderiana, quelli più riusciti e più interessanti anche nel contenuto solitamente portano nel titolo o per titolo un nome di donna (Le lacrime amare di Petra Von Kant (1972), Effi Briest (1972 – 1974), Martha (1973), Il matrimonio di Maria Braun (1978), Lili Marlene (1980), Veronika Voss (1981).
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