di Ivano Mugnaini
Incerto Confine, Edizioni disegnodiverso, 2019
Viviamo un’epoca di incertezza. È sempre stato così. L’uomo è autolesionista per eccellenza, lassista verso se stesso e spietato nei confronti dei propri simili. “False–hearted judges dying in the webs that they spin / Only a matter of time ‘til night comes steppin‘ in”, canta Bob Dylan con un giro inesorabile di note. Sì, restiamo impigliati nelle ragnatele che noi stessi tessiamo. E la notte fa il suo ingresso, puntuale. Lo fa ora, lo ha sempre fatto, e lo farà. Oppure, meglio ancora, si può ricorrere alle parole di Einstein, alla sua osservazione oggettiva: “L’uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi”. Di bombe per far saltare in aria la terra che ci nutre e la convivenza civile ne abbiamo ideate e realizzate numerose, nel corso dei secoli. Siamo stati genialmente creativi nell’inventare espedienti per distruggere e annientare, generando occasioni di conflitto. Una di queste mirabili trovate sono i confini geografici. Tra stato e stato, spesso tra regione e regione, a volte tra villaggio e villaggio. Delimitazioni puramente fittizie, politiche, ideologiche, non giustificate da nessuna ripartizione effettiva, geografica o antropologica. Dall’incontro tra i due termini sopra citati, l’incertezza e il conflitto, ha origine il titolo del libro e la vasta gamma di risvolti, fertilmente complessi, che ne deriva.
All’incertezza si può rispondere in vari modi. Alcuni tentano di farlo proponendo certezze grevi, strumentali o di maniera. Alla fine hanno effetti ancora più deleteri. Abbozzi di chiavi rafforzano ancora di più le mura della galera, parafrasando un noto verso di Eliot. Altri si affidano invece all’atteggiamento opposto: una leggerezza ricca di sostanza, di tenacia, di fiducia (al di là di tutto) in quello sprazzo di luce e di colore che contrasta l’acciaio e il piombo. Questi sprazzi possono anche essere tangibili. È possibile aprirli, guardarli, sfogliarli. Sono di carta, ma, ce lo insegnano gli orientali, con la carta si possono costruire oggetti estremamente solidi, in grado di resistere all’acqua, al vento, al tempo.
Parlando di Incerto confine, una delle parole chiave non può che essere “oggetto”. Un vocabolo nobile. Grazie agli oggetti ci nutriamo, ci spostiamo, attraversiamo colli e pianure e compiamo mille altre azioni che fanno parte di noi, costituiscono ciò che davvero siamo, al di là di mille maschere, antiche e contemporanee. Il libro nato dal connubio tra Stefano Vitale e Albertina Bollati, è, prima di ogni altra considerazione, un bell’oggetto. Questa potrebbe sembrare una considerazione secondaria, avulsa dalle caratteristiche e dalle valutazioni letterarie eartistiche. Io credo invece che non sia così. Nel caso specifico di questo volume (e non solo) ritengo invece che l’aspetto “esteriore” si intersechi al contenuto, lo integri, lo determini, o meglio dia luogo ad un’interazione costante di segni e di suggestionisu cui si innesta un ulteriore livello, quello della “ricezione”, la cooperazione del lettore che legge, vede, osserva, agisce, a livello estetico e semantico, razionalmente o in chiave onirica e immaginifica.
Incerto confine fa parte della collana “disegnodiverso” nata trent’anni fa. L’idea di accostare poesia e disegni non è nuova, viene in qualche modo naturale. Va tuttavia riconosciuta all’editore della collana di cui fa parte questo libro una particolare dedizione al progetto e la capacità di rendere il connubio notevolmente efficace.
Nel volume Incerto confine i confini non ci sono. Questa affermazione può apparire eccessiva ma è piacevole motivarla, sotto vari aspetti. Manca la linea di demarcazione tra il libro come “contenitore” e il suo contenuto, innanzitutto. Si può rigirare il libro da tutte le angolazioni, sopra-sotto, fronte-retro, e si troverà sempre un’immagine, un colore proprio dell’artista ospitato, o una frase del poeta, o, entrambe, adeguatamente accostate, senza attriti o stridori. Tutto lo spazio grafico e tipografico comunica. Con una coerenza che non contiene vuoti, stacchi o ostacoli. Questo risultato ritengo si possa ottenere solo abbinando l’efficienza delle tecniche e degli strumenti ad una dedizione di stampo artigianale. Ossia, per dirla in modo semplice, con l’amore per ciò che si fa, con la deliberata consapevolezza che alcuni tipi di lavoro richiedono tempo e non concedono la produzione di un elevato numero di esemplari. Pochi libri, curati in ogni dettaglio. Anche in questo caso il confine cronologico, la fretta, la foga del produrre saltano. Resta, per fortuna, il gusto antico di poter esplorare con la giusta calma l’eleganza e la sostanza del tratto pittorico e l’attenzione con cui incontra e si innesta con la parola e sulla parola.
Lo spazio grafico “comunica”; non è mai neutro, non è barriera né terra di nessuno. Se tra la poesia e la pittura c’è sintonia, la fantasia diventa “visibile”, osservabile, confrontabile con l’universo generato dal moto e dal contatto tra le liriche, i versi, le sillabe. “È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. L’essenziale è invisibile agli occhi, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. La citazione è notissima ed è un punto di riferimento per molti. Qui ed ora vale la pena affiancarla ad un concetto fondamentale: tutto il bello è inutile. Immanuel Kant, sostiene che la Bellezza è ciò che piace precisando che si tratta di qualcosa “senza concetto, e senza scopo”.Ebbene, se abbiniamo alla bellezza la connotazione di essenzialità, abbattendo in tal modo i muri del razionale, del pragmatismo, della logica utilitaristica, allora potremmo forse dire al piccolo principe che, a volte, almeno nel regno della fantasia, l’essenziale è visibile. Si tratta in sostanza di farsi bambini, di tornare bambini, o forse di accorgerci che non abbiamo mai smesso di esserlo. Per abbattere i muri e i confini, bisogna dare loro corpo nella nostra fantasia, unendo la dimensione reale a quella onirica. In quell’ambito è possibile aggirarli, saltare con un sorriso da una parte all’altra e abbatterli con una mano o con un sorriso.
Coerente, in quest’ottica, è la scelta dell’artista Albertina Bollati, e, di concerto, del poeta Stefano Vitale, di affidarsi alla linearità del tratto e alla sintesi espressiva. Sarebbe stato fuori luogo, e altresì contraddittorio, fare ricorso a colori eccessivi o a lunghe e intricate metafore. Sarebbe stato come utilizzare filo spinato in un libro che parla della volontà e della necessità di abbattere i confini. Qui il filo è quello degli aquiloni, percepibili perfino nel blu della copertina. L’uomo stesso, stilizzato, rappresentato da esilissimi tratti, cerca nel cielo quell’aquilone. Per accorgersi forse che l’aquilone è lui stesso, la sua tenace capacità di sognare.
Nel paragrafo precedente ho utilizzato, per descrivere il connubio artistico tra Vitale e Bollati, l’espressione “di concerto”. Con una piccola forzatura, o forse con un deliberato salto al di là di un’altra demarcazione, mi viene in mente l’ambito musicale. Stefano Vitale mi ha inviato via mail e sui social alcuni messaggi e video degli Amici dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Ascoltare quelle note trasporta in una dimensione altra. Non c’è bisogno anche in questo caso di biglietti da vidimare o di passaporti in corso di validità. Ci si rende conto che siamo parte, nonostante tutte le nostre misere contingenze, di qualcosa che va oltre il nostro tempo e il nostro spazio, e soprattutto, oltre noi stessi. Sempre seguendo il flusso di libere associazioni, mi viene in mente un episodio a cui ho assistito anni fa: una domenica un anziano signore ascoltava musica con uno stereo nel suo recintatissimo giardino. La gente che camminava lungo la strada sentendo quelle note le canticchiava. Il padrone dello stereo si arrabbiava, non gradiva quella condivisione indebita. La considerava un furto. Prima imprecò, poi abbassò gradualmente il volume, ma la persone che passavano la sentivano lo stesso. Alla fine spense tutto e si rinchiuse in casa. Mi venne da riflettere sulla proprietà dell’invisibile, sulla barriera della bellezza. Credo che l’arte sia come quella musica. Lo è la pittura e lo è anche la poesia. Il furto è inevitabile. Anzi, è ricchezza ulteriore.
“Ci sono giorni felici / in cui salta il confine protetto / che scioglie il dubbio di pretese verità / e il battere quieto di un pensiero / ricuce la tela delle ore”, scrive Vitale nella lirica utilizzata come “esergo” del libro. Battere e levare, sul legno e sull’ottone oppure sul materiale in apparenza impalpabile dei pensieri. La protezione del confine è un’azione il cui esito non di rado è opposto a quello auspicato. Scavare un fossato, o una trincea, genera l’idea del conflitto, nutre aggressività e dissidi. Ritrovare la naturalezza della condivisione è la sola strada che ci può ricondurre alla “primordiale carezza / della luce dei passi”.
Nella prefazione al libro, a cura di Vittorio Bo, si trovano, assieme ad un’analisi lucida e partecipata del testo, anche due emblematiche citazioni. “Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori”, ci ammonisce Calvino. Gli fa eco Giorgio Caproni: “Confine diceva il cartello / cercai la dogana, non c’era / non vidi dietro il cancello / ombra di terra straniera”.
La lirica d’esordio ha per titolo “Chiudere i porti”. La collocazione in apertura non appare casuale. Conferma sia la coesistenza tra leggerezza e sostanza di cui si è detto in precedenza, sia, in termini più ampi, la capacità della poesia di parlare di un tempo in apparenza “astratto”, scevro da coordinate, che, tuttavia, finisce per risultare attuale, urgente. La poesia parla all’uomo, a quella parte del nostro essere che è identica in ogni epoca, al di là delle diverse condizioni e situazioni politiche e sociali. Cito qui di seguito vari versi della lirica in questione, raccomandando però, per la completezza della visione d’insieme, la lettura completa, sia del compimento che della raccolta. “Chiudere i porti e lasciar riposare / le nere coscienze marce di rabbia / merce di scambio di triste rancore / mentre grasse risate bruciano l’aria / nelle sudice piazze deragliate ragioni. / Chiudere i porti per non incontrare / l’orrore di occhi naufraghi in mare / di corpi salvati piagati dal sole / stremati da guerre monete sonanti / del nostro silenzio di barbari stolti. […]
Chiudere i porti del mare che un tempo / fu Nostro onda di luce / ora muro che cresce abisso di sale / specchio scheggiato dal pianto di pietre / posate sul fondo del cielo d’estate”.
L’accostamento, non solo fonoprosodico, tra “marce” e “merce”, rafforzato dalla sequenza “guerre monete sonanti” in grado di creare quasi un conio, un vocabolo unico in cui i tre termini si fondono come in una scultura orrifica, vengono a confermare quanto espresso in precedenza: il dettato poetico di Vitale è sobrio ma mai asettico. C’è attenzione ad ogni sillaba, ogni accento. C’è il rifiuto di espressioni roboanti ma vuote. L’emozione nasce dalla constatazione dell’esattezza, dalla cura con cui il senso viene reso, descritto e interiorizzato. Non è un caso (vale la pena ribadire anche questo aspetto fondamentale del libro), che il disegno posto a fianco della lirica sia del tutto congruo, sia come stile che come moduli espressivi. La descrizione visiva della tragedia dei naufragi è affidata ad un azzurro che di per sé richiamerebbe sensazioni di benessere, di serenità sconfinata. Ma c’è, ineludibile, un varco, uno squarcio. Quella ferita triangolare, quasi una lama di coltello, un bianco inumano in cui mani stilizzate cercano vanamente un appiglio, una presenza. Trovano solamente “il silenzio di barbari stolti”.
Viene fatto allora di osservare, come accade a Vitale nella lirica di pagina 12, che “Non muore il linguaggio dei muri”, resta “tra coltelli e martelli / fiori di luce e sangue straziato / nel ricordo degli anni / passati a tracciare i confini / tra i giorni di piombo / e le parole di vetro / resta l’ombra di noi”.
L’istinto della resa c’è, è possente. Ma interviene ancora una volta, a tracciare la rotta e indicare la realtà della fantasia, la verità del sogno di una terra diversa, l’essenzialità salvifica a cui si è più volte fatto cenno. “Solo i bambini conoscono il vero / passaggio che porta oltre quel nero / ombra che trema nel bianco di luce […] /Chi coglierà lo sguardo puro / senza pianto, inganno o ricompensa?”.
I cardini sono il concetto di passaggio e di sguardo. Il pensiero e la visione. Li salveremo, forse, quei bambini, se sapremo vedere. Se sapremo cogliere il tratto esile ma profondo in cui riconosciamo la loro umanità. Ci salveremo se sapremo ritrovare la loro umanità e la nostra. Se sapremo abbattere la barriera della paura della gioia. Quella di essere vivi, parte di un tutto, come una musica che se ne infischia delle siepi e del cemento e vola, libera. Come un mare che bagna allo stesso modo, con la stessa passione, la sabbia e i lidi di tutti i continenti.
Ecco perché è bella la lentezza con cui il poeta cerca la parola esatta, quella vera, quella semplice ed essenziale. Ed è bello il tratto senza forzature né sbavature della pittrice. “Non siamo dentro e neppure fuori / in questo incerto confine mobile / che cambia nei giorni di vento / quando incespica il passo / nel filo dell’ombra impassibile / oltre il lembo di luce morente / è insondabile quel che / fa la differenza”. Ciò che è determinante è insondabile.
Si giunge allora alla sintesi. Al punto di convergenza di tutti gli estremi e tutte le pressioni contenute in questo interessante libro, nella sua capacità di comunicare senza gridare, senza pontificare. “Stare fermi, non fare un passo oltre / l’Altro è il confine, attimo che s’inarca / nella comune trama segreta / tregua della perfetta imperfezione.” L’immobilità attiva, quella con la mente e con il cuore che corrono verso un luogo altro, uno spazio aperto al cambiamento. Quel posto in cui “il profumo dei tigli sul viale / è il solo felice confine / da attraversare”.
Stefano Vitale, e con lui l’arte pittorica di Albertina Bollati, non ci indicano soluzioni miracolose e non pretendono di porgerci pietre filosofali. Ci additano semmai, senza strepiti, le pietre dei confini che abbiamo eretto tra terra e terra, tra uomo e uomo. Senza accorgerci che in realtà quei macigni li abbiamo posti attorno al nostro collo mentre camminavamo sui sottili terreni che sovrastano i nostri baratri. Il libro di Vitale e Bollati non pretende metamorfosi immediate. Non cede neppure al gusto agro della sconfitta senza alternativa. “La chiave è nella Parola”, ci dice Vitale, nella parola, nella musica, nell’arte. In quel “suono che resta accanto / colore della pazienza / distesa sul paesaggio delle ore / passione e destino senza nome.” Siamo perfetta-imperfezione, ci dice questo libro. Siamo topi che realizzano trappole per topi e costruttori di muri che restano imprigionati nei loro labirinti. Ma la nostra follia contiene anche un’ancora potenziale di salvezza: sappiamo immaginare, sappiamo tornare bambini, sappiamo guardare e sognare. Anche la nostra stessa umanità. Quella che possiamo ritrovare, forse, se sapremo farci leggeri, come vento. “Perché non essere come le nuvole? / Poter cambiare forma / luce, colore e direzione / nel disordine del vento / imparare il controcanto / segreto delle cose […] imprevedibile necessità / che […] dobbiamo sopportare, / liberare.”
Un pensiero su “Ivano Mugnaini su “Incerto Confine” di Stefano Vitale, illustrazioni di Albertina Bollati”