Western Stars

Il cinema è da sempre stato costellato da film musicali, e badate bene non parliamo del cinema di Cantando sotto la pioggia (1952), Mamma Mia (2008), La La Land (2016) e il recentissimo Blinded by the light (2019) – che a modo loro son comunque tre opere abbastanza diverse – piuttosto di quando il cinema prende di petto la musica, diventando il mezzo ideale attraverso il quale raccontare un artista, un’opera dello stesso o semplicemente un periodo musicale. Western Stars (2019) di Bruce Springsteen e Thom Zimmy, in tal senso, è un film-documentario musicale dai canoni abbastanza generici a livello strutturale, ma capace di fare la differenza sul piano emozionale grazie al Boss Springsteen.

Western Stars è un film-documentario sull’album omonimo di Bruce Springsteen nel quale il Boss esegue tutti i tredici brani che lo compongono accompagnato, oltre che dalla sua band, da un’intera orchestra, attraversando tematiche che vanno dall’amore alla perdita fino alla famiglia, il tutto sostenuto da filmati d’archivio e il racconto in prima persona di Springsteen. Elementi che rendono la pellicola un’interessante prodotto cinematografico con cui spaziare su tematiche di ogni genere, andando ben oltre la presentazione del semplice album discografico in una cornice suggestiva; piuttosto un’opera introspettiva su tutta la vita di Bruce da New Jersey.

A fronte di una struttura semplicistica basata sulla riflessione in voiceover di Springsteen, per poi procedere con la registrazione dell’esibizione – processo ripetuto per tredici volte come tredici sono le canzoni dell’album omonimo – risulta tuttavia funzionale nel delineare un racconto nel quale i personaggi delle canzoni dell’album prendono vita – in quello che forse è l’opera più riuscita del compositore del New Jersey degli ultimi vent’anni di carriera.

Una narrazione incastonata in una cornice di chiaroscuri in cui Springsteen – alla sua prima effettiva regia cinematografica in quarantasette di carriera costellati da diciannove album studio –  è più introspettivo che mai. Per una scelta di brani che partono da sonorità più vivaci che parlano di libertà e nuovi inizi come in Tucson Train, per poi procedere verso brani più cupi che denotano una maggiore profondità come nel caso di Drive Fast/The Stuntman sui sacrifici d’amore di uomini già condannati.

Tra il sempre presente fantasma della depressione che ha aleggiato per anni nella sua vita, e la figura allegorica ben presente nell’immaginario collettivo del cowboy solitario, Springsteen ci parla di dolori che non vanno via, di amori perduti e ritrovati, riflettendo anche sulle difficoltà sempre presenti di un lungo matrimonio come quello suo con Patti Scialfa, e dei primi momenti del corteggiamento.

C’è poco da fare, Western Stars conferma quanto di buono è capace di poter ancora fare un signore di 70 anni che mangia, respira e vive di musica – Bruce Springsteen si mette in gioco con la sua prima regia, mostrandoci lati inediti ai fan meno attenti, ma anche facendo riscoprire lati di sé che solo i testi della sua musica sono stati in grado di trasporre.

L’opera in questione va a confermare  lo status del Boss di autentico portavoce della middle-class americana e dei problemi dell’uomo comune che fu la pietra narrativa di quel piccolo gioiello di Blinded by the light (2019) di Gurinder Chadha –  ma è anche e soprattutto un grandioso spettacolo emozionale tutto da scoprire e da cantare a squarciagola.

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