I totalitarismi non sono tutti uguali

Pubblico qui un articolo di Ennio Abate, comparso sul sito www.poliscritture.it

 

di Ennio Abate

La Risoluzione del Parlamento Europeo Sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa (qui) continua ad essere commentata e discussa. Ho riportato in POLISCRITTURE SU FB l’analisi (condivisibile per me) dello storico Claudio Vercelli (qui) e segnalo altre discussioni in corso: sulla pagina FB della storica Maria Grazia Meriggi (qui) e l’intervento di Anna Foa sul sito della Fondazione Feltrinelli (qui). Per invitare ad un ripasso di storia, riporto quattro schede che preparai per il volume sul Novecento “Di fronte alla storia” (Palumbo ed. 2009) per ribadire che quelle vicende non vanno cancellate dalla mente ma ripensate e studiate. (Come avevamo scritto nel n. zero della rivista cartacea (maggio 2005), Poliscritture  « pur memore della sconfitta delle esperienze di emancipazione o rivoluzione del Novecento e del fallimento delle dissidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire samizdat di critica elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da«senso comune» ».) Ma anche per capire – e lo dico con un po’ di sarcasmo – quali scoperte di altri documenti o riflessioni nuove abbiano messo in forse interpretazioni come queste riportate nelle mie schede, che paiono ancora oggi più chiare ed equilibrate di quelle prese da molti politici e studiosi odierni o addirittura del Parlamento Europeo [E. A.]

1.
Pietro Scoppola – I totalitarismi non sono “la stessa cosa”

Pietro Scoppola (1926-2007) è stato professore di Storia  contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e membro  della Commissione Nazionale dell’Unesco. Tra le sue  opere: La “nuova cristianità” perduta (1985), La Repubblica  dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1991  e 1997), La Costituzione contesa (1998), La democrazia  dei cristiani (2005), La coscienza e il potere (2007).

In questo brano tratto da una conversazione con studenti di un liceo, anche lo storico Pietro Scoppola sostiene l’esigenza di tenere distinti i totalitarismi del Novecento, pur sottolineandone le somiglianze o persino gli aspetti di piena coincidenza. I loro obiettivi storici non erano gli stessi.

Noi Italiani abbiamo conosciuto il totalitarismo fascista, che è stato un totalitarismo un po’ a scartamento ridotto rispetto al totalitarismo di destra nazista, che è stato, sicuramente, il più feroce mai conosciuto. Ma è esistito il totalitarismo di sinistra, il totalitarismo realizzato dal comunismo stalinista, che giustamente, va detto e sottolineato, ha contraddetto alla base gli ideali stessi di libertà ed eguaglianza. E questo – è difficile spiegarlo, mi rendo conto – ci permette di introdurre la necessità di una distinzione tra regimi di varia natura. I totalitarismi, dal punto di vista della struttura centralizzata di cui si valgono, sono tutti simili, così come dal punto di vista della organizzazione della società, poiché tutti i regimi tendono a mobilitare la massa, tutti reprimono il dissenso, tutti conoscono il fenomeno del confino, del gulag, ossia dei campi di concentramento, delle carceri per gli oppositori. Il gulag è un fenomeno che è esistito nell’Unione Sovietica. In Italia è esistito il confino, in Germania c’è stato quel che c’è stato con i campi di concentramento. E questi fenomeni tendono a rendere analoghi, simili, uguali, se volete, tra loro, i totalitarismi. Però i fini, gli obiettivi, che i diversi totalitarismi si sono proposti, sono stati tutti diversi tra loro. I fini che si è proposto il fascismo, che si è proposto il nazismo, non sono gli stessi che si è proposto il comunismo. Il comunismo è nato sull’onda di questa grande utopia dell’uguaglianza, della emancipazione totale dell’uomo, basata sul presupposto che il regime di produzione capitalistico fosse quello che aveva sempre reso impossibile la piena liberazione dell’uomo. Quindi il Comunismo ha sempre avuto al proprio interno, perlomeno ai suoi inizi, questa potente carica utopica, che è stata quella che poi, in qualche modo, ha reso spiegabile un fenomeno altrimenti inspiegabile: la durata di questa ideologia nel Ventesimo secolo e il coinvolgimento di centinaia di milioni, anzi, di miliardi di uomini alla sua proliferazione storica. Non solo, ma il comunismo è stata l’unica forma di totalitarismo che è “caduta” senza troppa violenza, perché il 1989 ha visto il crollo del comunismo avvenire soprattutto all’interno delle sue stesse strutture di regime. Quindi c’è stata, da parte di tutti questi regimi, una forte analogia nei mezzi, negli strumenti per il perseguimento del potere. Ma c’è stata, viceversa, una profonda diversità nei fini, negli scopi, che, oggi, non ci permette di dire, (come spesso si tende a fare): “Tutti i totalitarismi
sono uguali storicamente”. Capite? Siamo d’accordo sull’incontestabile fatto che i totalitarismi siano stati tutti quanti dei regimi negatori della libertà, negatori del pluralismo. Ma va sottolineato come essi abbiano, spesso, perseguito obiettivi storicamente (e profondamente) diversi. Scopi che oggi ci obbligano a fornire giudizi più articolati sulla realtà storica del totalitarismo. Io non mi sentirei di dire: “Il comunismo è uguale al nazismo, può essere messo sullo stesso piano, anche se il comunismo ha fatto più vittime”. Apprendiamo dal Libro nero, che è uscito in Francia, un libro molto discusso, discutibile per certe parti, che le vittime umane del comunismo nel mondo, nel corso del XX secolo sono state probabilmente molte di più delle vittime del nazismo. Quindi non voglio proporre nessuna difesa per il comunismo. Però va detto che il comunismo è riuscito a mobilitare delle speranze verso il futuro, mentre il nazismo è sempre stato rivolto ai tipici archetipi della “cultura ariana”, della superiorità della razza, che non avevano nessuna apertura verso il futuro dell’umanità intera, essendo rivolti ad un passato mitologico […].

(da  http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=133. Nota 6.10. 2019 – Mi accorgo che il link non è più accessibile.)

2.
Zygmunt Bauman – L’assunto di fondo dei totalitarismi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne»

Zygmunt Bauman (1925) è un sociologo che insegna nelle Università di Leeds e di Varsavia. Nato in Polonia, fuggito nel 1939 con la famiglia in Urss in seguito all’invasione nazista per sfuggire alla persecuzione contro gli ebrei, ha combattuto in un corpo di volontari polacchi contro i nazisti. Oggi è considerato uno dei principali teorici della postmodernità. Tre le sue numerose opere: Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto (1987),  Modernità e olocausto (1999), La società dell’incertezza (1999), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (2000), La solitudine del cittadino globale (2000), Modernità liquida (2002).

Anche Bauman insiste sulle radici del tutto europee del nazismo («L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea») e mette a confronto il totalitarismo nazista con quello comunista. Una stessa ambizione modernizzatrice si manifestò per lui sia nel Centro (l’Europa) che alla sua periferia (l’Urss). L’attenzione del sociologo è tutta rivolta al lato oscuro di questi esperimenti, alle vittime: gli «inferiori». La loro distruzione, pur con motivazioni diverse (i nazisti uccidevano gli ebrei per quel che erano, i comunisti di Stalin eliminavano gli “inaffidabili” «per ciò che facevano o pensavano»), aveva in fondo un medesimo assunto in entrambi i casi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne».

Gli stermini di massa del XX secolo erano esercizi di creativa; concepiti come salutari operazioni chirurgiche e perpetrati nel corso della pavimentazione di una strada verso una società perfetta, armoniosa, libera da conflitti. L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea, dentro la serra della scienza e dell’arte europee, nel luogo
che più d’ogni altro si avvicinava al perenne sogno moderno della “Casa di Salomone” di Francis Bacon. Nel frattempo, alla periferia della Modernità europea, era in atto un altro esperimento, quello comunista, che osservava il centro con un misto di soggezione e
invidia e sperava di “raggiungere e superare” qualsiasi cosa l’Europa avesse raggiunto nella sua storia moderna. Qui il sentimento umiliante dell’“essere lasciati indietro” aggiunse urgenza alle ambizioni modernizzatrici. Erano necessarie scorciatoie, si dovevano condensare i costi altrove distribuiti per decenni e secoli: solo una generazione doveva soffrire ciò che in altri luoghi avevano sopportato molte generazioni, ma la diminuzione della miseria doveva essere pagata con un incremento della sofferenza. Per i giardini fiorenti del futuro, la generazione presente non era nient’altro che concime. Nessun sacrificio era troppo per un fine così nobile. Si dovevano spaccare le montagne con la dinamite o costruirle artificialmente, disboscare vecchie foreste per piantarne di nuove, deviare i fiumi o fermare il loro corso, e la gente doveva venir trasportata dai luoghi in cui per caso abitava verso i luoghi assegnati dal progetto del giardiniere. E a ogni modo gli “inferiori” (nedobrokacestvennie), dovevano essere resi inoffensivi o completamente distrutti, o perché inadatti all’immagine del futuro, o perché covavano idee diverse di una buona società, o infine perché non affidabili nel sottomettere i propri desideri alle regole del nuovo ordine. La formula di legittimazione della distruzione portata avanti dai comunisti differiva dal massacro gestito dai nazisti. Se il piano nazista prevedeva che certuni venissero uccisi per ciò che erano e non potevano fare a meno di essere, il modello
comunista di costruzione del nuovo ordine richiedeva che le persone venissero assassinate per ciò che facevano o pensavano (la gente destinata al massacro era neblagonadeznie, inaffidabile, di cui non ci si può fidare). Ma l’assunto di fondo era lo stesso in entrambi i casi: alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne; l’idoneità o l’inidoneità al mondo in costruzione costituiva la differenza tra le due categorie. entrambi i casi si addice la descrizione dei governanti totalitari fatta da Hannah Arendt: «La loro fiducia nell’onnipotenza umana, la loro convinzione che tutto si può fare attraverso l’organizzazione, li spinge a esperimenti che l’immaginazione umana può aver descritto ma che mai l’attività umana ha certamente realizzato»

(da Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, in Nazismo, fascismo,
comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondadori, Milano 1998.)

3.
Francesco M. Cataluccio – La posizione di Primo Levi su Lager e Gulag

Francesco M. Cataluccio, studioso e traduttore della lettera letteratura dell’Europa dell’est, ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Genova.

Questo brano di Cataluccio – un intervento al già citato convegno di Siena del 1997 – riassume la posizione di Primo Levi, che misura sulla base della sua esperienza di deportato le testimonianze di Solženicyn e Šalamov. Levi non sfugge al confronto (per alcuni in quegli anni ancora inammissibile) tra Lager e Gulag, ma si attesta sulla posizione che esisteva una «differenza fondamentale» tra le due esperienze concentrazionarie: nei Gulag «la gente ci moriva egualmente», ma non erano fatti, come i Lager, con l’intenzione calcolata di «uccidere la gente».

Levi definisce il gulag descritto da Solženicyn «schiavitù simile e diversa», con un’origine comune: «Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra» (1). Levi, però, ribadisce che c’è una differenza di “qualità”, di scopi. Nei lager tedeschi si cerca la morte del prigioniero, nei gulag essa sarebbe una sorta di “accidente”
il primo libro di Solženicyn, per vedere le affinità e le differenze tra i lager russi e quelli tedeschi e posso dire una cosa: nei lager russi la morte è un sottoprodotto, non è lo scopo. E fa una bella differenza» (2). Questa convinzione è rafforzata in lui dalla lettura del
libro di racconti di Varlam Šalamov (3): «Ho letto il libro di Šalamov sulla Kolyma: è impressionante e nello stesso tempo sorprendente; perché non è così totale il disfacimento dell’uomo, la speranza di poter uscire ce l’hanno pure, hanno pure una parvenza di vita legale per cui possono fare delle proteste collettive. E sono curati
quando si ammalano» (4). Levi coglie una “terribile debolezza” in Šalamov e paragona la sua posizione a quella dei reduci dai lager tedeschi: «Duole dirlo, e non è una scoperta: il terrore e l’isolazionismo staliniani trasmettono la loro infezione paralizzante anche ai loro
testimoni e ai loro contestatori. Uomini quali Šalamov meritano comunque il nostro rispetto, ma la loro statura è inferiore a quella dei loro corrispettivi che hanno combattuto il terrore hitleriano, o che oggi denunciano i delitti compiuti in Asia e in Africa dalla civiltà
occidentale. Le pagine di Šalamov destano commozione e simpatia per le cose che dicono, non per il modo in cui le dicono e tantomeno per le prese di posizione dell’Autore. Šalamov, in qualche modo, testimonia più di quanto vorrebbe, più di quanto sa di testimoniare, proprio grazie alle sue insufficienze e frustrazioni». Nonostante le sue resistenze personali, il tema del confronto tra lager e gulag era diventato ineludibile. Levi
sembra prenderne atto, nel 1985, durante la conversazione radiofonica Lo specchio del cielo, con Alberto Gozzi: «Non parlo dei lager sovietici perché non ci sono stato. Se ci fossi stato ne parlerei e ne parlo, anzi, fa parte della mia “droga” l’occuparmi di queste cose;
ho letto quanto ho potuto anche dei lager russi di allora di adesso. Sono stato in grado di fare un confronto, ho letto un libro che spererei fosse tradotto in italiano [lo è stato, nel 1994, col titolo di Prigioniera di Stalin e Hitler] di Margarethe Buber-Neumann, nuora
di Martin Buber, comunista, che era stata scaraventata in un lager da Stalin perché era un’attivista comunista al tempo delle grandi purghe, stava in Spagna col marito. È stata internata in Siberia a lungo e poi col patto Ribbentrop-Molotov ceduta ai tedeschi che
l’hanno rinchiusa nel lager […]. Credo che sia una delle cinque-dieci persone che abbiano potuto fare quest’esperimento, comparare il regime carcerario di internamento sovietico con quello hitleriano. Sarebbe stupido e ottuso dire che nei lager della Siberia si stesse
bene, non si stava bene affatto, però c’era una differenza fondamentale, che non erano fatti per uccidere la gente. La gente ci moriva ugualmente, anche molto, anche con quote di mortalità terrificanti, del 10-20-25 per cento, con tempi folli di detenzione, ne parla anche Solženicyn, in cui però la morte era in qualche modo accidentale, avveniva per il freddo, per la fame, per la fatica, ma non era l’obbiettivo. Mentre la novità finora unica, perché non credo che si sia ripetuta mai, salvo forse in Cambogia, lo scopo dello strumento lager nella Germania di Hitler era proprio quello di uccidere. Erano macchine per uccidere in cui invece si capovolgeva il lavoro servile, che era un sottoprodotto. Il prodotto principale era la morte e questo mi pare vada ripetuto, non per scagionare Stalin né i suoi successori, ma solo per segnare una differenza che ha la sua importanza».

(da Francesco M. Cataluccio, Lager e gulag in Primo Levi, in Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondadori, Milano 1998.)

(1) P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
(2)P. Levi, Mago Merlino e l’uomo fabbro, intervista di S. Giacomoni,
«la Repubblica» 24 gennaio 1979. 
(3) V. Šalamov, I racconti della Kolyma, Adelphi, Milano 1995. 
(4) Levi, Tornare, mangiare, raccontare…, intervista di V. Lo  Presti,     «Lottta continua» 18 giugno 1979.

4.
Tzvetan Todorov – La «tentazione del bene»

Tzvetan Todorov (1939), Critico letterario francese di origine bulgara. Tra le sue opere maggiori: I formalisti russi (1965), Michail Bachtin, il principio dialogico (1981), La conquista dell’America. La questione dell’altro (1982), Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989), Di fronte all’estremo (1991), L’uomo spaesato (1996), Memoria del bene, tentazione del male (2000).

In Memoria del male, tentazione del bene (2000), Tzvetan Todorov ha svolto un’approfondita indagine sul Novecento, un secolo per lui «tragico», proprio per «la nascita, lo sviluppo e la fine del totalitarismo». Pur richiamando i molti regimi autoritari e dispotici dei secoli passati, Todorov vede nei totalitarismi novecenteschi alcuni aspetti in comune del tutto particolari: essi nascono da «utopie che aspirano a realizzare il paradiso in terra, qui e ora, sfruttando un’ideologia scientista, per la quale il mondo è conoscibile in toto». In questo stralcio da un’intervista, lo studioso, muovendosi su tutt’altro piano rispetto alle tesi che tendono a mettere sullo stesso piano i vari totalitarismi, rivendica sì l’importanza di paragonare i due totalitarismi più importanti (comunismo e nazismo) per «vederne le differenze», ma, ricordando Hiroshima e la più recente guerra in Kosovo, accenna anche alle “tentazioni” totalitarie delle democrazie.

Negli ultimi anni il parallelo tra comunismo e nazismo è stato all’origine di molte polemiche. Qual è la sua posizione?

Questo parallelo era corrente negli anni Trenta, ma è diventato un tabù dopo la seconda guerra mondiale, per via del ruolo giocato dall’Unione Sovietica durante il conflitto e per il carattere eccezionale dello sterminio degli ebrei. Oggi questo tabù è caduto, e secondo
me ciò è un bene, perché solo paragonando i due totalitarismi è possibile vederne le differenze. Sul piano strutturale le somiglianze sono evidenti, mentre sono diversi i rispettivi atteggiamenti nei confronti dello sterminio dei prigionieri. Per i nazisti coloro che devono morire sono dei sottouomini e la loro morte diventa un fine. Nei Gulag dello stalinismo, invece, iprigionieri sono degli schiavi da spremere fino all’ultima forza. La loro morte, quindi, non è un fine in sé. Questa differenza tra i due totalitarismi mi sembra essenziale.

Analizzando il male presente nel secolo passato, a più riprese lei denuncia la “tentazione del bene”. Perché?

I pensatori cristiani si sono sbagliati mettendoci in guardia contro la tentazione del male, perché in realtà sono molto pochi gli individui tentati dal male. In compenso tutte le grandi sofferenze dell’umanità nascono dalla tentazione del bene, che ci si ostina a cercare con
tutti i mezzi disponibili, e perfino con la violenza e la morte degli altri. I totalitarismi hanno sterminato con la scusa di imporre un mondo perfetto. Ma la realtà umana, come diceva Montaigne, è un giardino imperfetto, destinato a restare tale. Il male in nome del bene
però non è una specialità esclusiva dei regimi totalitari. Anche le democrazie cadono a volte in questa tentazione, come è accaduto a Hiroshima o anche di recente con la controversa guerra del Kossovo.

L’eredità del Novecento da lei indagato è tutta negativa?

Nel secolo delle tenebre, per fortuna, esiste anche un versante luminoso dell’umanità, che spesso si manifesta nei singoli individui. Vasilij Grossman, Primo Levi, David Rousset ne sono un esempio, come pure Germaine Tillion o Margarete Buber Neumann, la quale ha conosciuto sia i gulag di Stalin che i campi di concentramento nazisti. Tutti costoro hanno saputo affrontare il male senza considerarsi un’incarnazione del bene. Si sono battuti, hanno resistito, hanno rifiutato la passività di chi si volta dall’altra parte e non vuole vedere, non dimenticando però che noi uomini saremo sempre un giardino imperfetto.

Erano animati da quello che lei chiama “l’umanesimo critico”?

L’umanesimo è il pensiero che soggiace alla democrazia, perché, affermando l’universalità del genere umano, rifiuta ogni discriminazione e sancisce l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge. L’umanesimo difende anche la libertà di pensiero e la responsabilità del
soggetto, come pure la sovranità popolare, non dimenticando che il benessere dell’uomo è il solo fine dell’uomo, senza altri fini superiori. L’umanesimo però deve essere critico, per evitare le derive del passato, quando è stato utilizzato in maniera distorta e al servizio di altre finalità. E’ ad esempio con l’universalismo che furono giustificati il colonialismo e l’imperialismo. Come pure non bisogna cadere in un ingenuo culto dell’uomo, ma occorre sempre avere coscienza del male che gli uomini sono capaci di fare.

(da Fabio Gambaro, Un bilancio del Novecento secolo dei totalitarismi, in «la Repubblica», 8 settembre 2001)

 

Da qui: http://www.poliscritture.it/2019/10/06/socialismo-e-o-comunismo-storie-morte-parole-morte/#more-8780

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