Jackie e il mito mediatico

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Archiviati gli Oscar, si può continuare ad apprezzare il buon cinema al riparo da competizioni e gaffe in mondovisione. Tre le nominations, senza alcuna statuetta, per “Jackie”, settimo film del talentuoso regista cileno Pablo Larraín, qui in una produzione Usa con Cile e Francia. Dopo “No – I giorni dell’arcobaleno” e “Neruda”, Larraín continua la sua indagine sul rapporto tra politica e media, mito e realtà. L’invenzione di un immaginario appare decisiva per far entrare un personaggio nella Storia e cambiare il processo di formazione delle idee. Un’occasione, questa innescata dall’autore cileno, per riflettere pure sulla potenza creativa del cinema, con la sua capacità di produrre miti e di interpretare ciò che è accaduto nel passato.

Presentato alla Mostra cinematografica di Venezia, e premio Osella per la sceneggiatura di Noah Oppenheim, “Jackie” racconta la reazione di Jacqueline Lee Bouvier Kennedy all’assassinio a Dallas (accanto a lei, nella berlina) del presidente degli Stati Uniti, marito e padre dei suoi figli. Il punto di partenza è l’intervista con Theodore H. White, giornalista  di “Life”.

Nella prima sequenza, la macchina da presa esalta il passo nervoso di Jackie, scandito dalla musica dissonante di Mica Levi. Il montaggio di Sebastian Sepulveda alterna più piani narrativi: l’intervista; le televisione che riprende la first lady mentre apre per la prima volta le porte della Casa Bianca ai telespettatori; il momento convulso degli spari; la protagonista che assiste in aereo al giuramento del vicepresidente Lyndon B. Johnson e decide di mostrare alle telecamere l’abito sporco di sangue; le lacerazioni private e le scelte pubbliche; la vedova in ospedale e il confronto con Robert Kennedy; la Jacqueline privata a colloquio con un prete; lo scenografico funerale di John Fitzgerald Kennedy, da lei ideato, e il suo ruolo di icona per lo stile.

Notevole l’adesione al personaggio, estetica e in profondità, da parte di Natalie Portman. Rispetto al dirompente “Neruda”, Larraín sceglie uno stile più controllato, con la fotografia di Stéphane Fontaine: primi piani e campi/controcampi rigorosi, tra realismo e reinvenzione romanzesca, squarci sull’interiorità e riflessioni sul potere e sul suo impatto nel tempo sull’opinione pubblica. Il regista si esprime al meglio nelle riprese con piano fisso, come quando la protagonista appare inquadrata di spalle, e poi di fronte, mentre pezzi di specchio riflettono le varie parti di lei, nell’impossibilità di giungere a un ritratto compiuto e definitivo.

Solo di rado i movimenti della cinepresa risultano dinamici, nelle stanze del potere, oltre a una rielaborazione dei filmati televisivi in bianco e nero. Con i costumi curatissimi di Madeline Funtaine e le scenografie di Jean Rabasse, si toccano temi come l’impossibilità di raggiungere la verità, nella sfera intima e nella dimensione storica, il senso della vita e quello della Storia. Nel cast Peter Sarsgaard, Billy Cudrup, John Hurt (ultima interpretazione) e Greta Gerwig.

Marco Olivieri

Buona parte della recensione è tratta dalla rubrica “Visioni” del settimanale “100nove Press” del 2 marzo 2017.

Immagini tratte dalla pagina Facebook del film.

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