Autori estinti, n. 2: Henri Barbusse (seconda e ultima parte)

Henri Barbusse, l’Innominato, lo stalinista sparito dalle librerie. Di lui e della sua opera ne ho parlato nel precedente articolo su questo Autore estinto, soffermandomi su L’Inferno. Sull’altro suo capolavoro, Il fuoco, questo articolo trovato in rete ha il pregio di inquadrare perfettamente dal punto di vista storico l’opera e riportarne uno stralcio di ampie dimensioni. Da leggere, lo stralcio e il libro, edito da Booksystem e Castelvecchi. Lorenzo Galbiati

IL FUOCO: LA GRANDE GUERRA IN PRESA DIRETTA

di Michele Micheletti –

Nelle trincee del fronte occidentale insieme a Henri Barbusse, lo scrittore-soldato che denunciò le inumane condizioni in cui si combatteva la guerra di posizione.

Ggr2043È di queste settimane il lancio della collana Grande Guerra in formato digitale per e-book, un’iniziativa di Booksystem Editore in collaborazione con Storia in Network e Amazon. Un’occasione unica per riportare all’attenzione dei lettori libri ingiustamente dimenticati. Da una parte narrativa e poesia, con alcuni titoli che, al momento della loro uscita, fecero letteralmente scalpore e furono premiati dal pubblico al pari di opere oggi considerate dei classici. Dall’altra parte, saggi e memoriali per rivivere le vicende belliche e i retroscena politici e diplomatici attraverso gli occhi di chi ne fu testimone e talvolta protagonista. Uno dei primi titoli della collana è Il Fuoco di Henri Barbusse, uno dei più grandi romanzi sulla grande guerra, l’opera che ha ispirato il Viaggio al termine della notte di Céline e La Grande Guerra di Monicelli. Nel 1914 Barbusse (1873-1935), scrittore, giornalista e attivista politico francese, chiese di essere arruolato nonostante i 41 anni di età e venne assegnato al 231° Reggimento di Fanteria, con il quale partecipò ai combattimenti in prima linea per 17 mesi, fino alla fine del 1915, quando venne congedato per gravi problemi polmonari. Durante la convalescenza traspose la sua esperienza della vita in trincea nel romanzo Le Feu, journal d’une escuade, pubblicato nel 1916. È una sorta di instant-book, una storia di soldati raccontata in presa diretta, una storia di fango, di neve, di gelo, di sangue e di fuoco che documenta con crudo realismo la discesa all’inferno di un drappello di fanti francesi costretti a combattere una guerra che appare loro come un insensato gioco al massacro: «Un soldato – o anche molti soldati – è un niente, meno che niente nella moltitudine. E quando ci si pensa ci sentiamo completamente persi, sommersi, da quelle poche gocce di sangue che siamo, in questo diluvio di uomini e di cose». L’aspetto più rilevante de Il Fuoco – e anche il più scandaloso per l’epoca in cui il romanzo fu pubblicato – è che questo gioco al massacro è raccontato dalla parte delle comparse: combattenti estranei alla retorica dell’eroismo e della bella morte, uomini che non sono anonima carne da macello ma che hanno un viso, un nome, un passato e spesso nessun futuro davanti a loro.
L’edizione proposta da Booksystem, ripresa dalla versione italiana pubblicata da Sonzogno nel 1918, è stata sottoposta a un accurato lavoro di revisione che, senza intaccare lo stile dell’autore e il linguaggio colloquiale dei personaggi, ne ha aggiornato la terminologia e introdotto una nutrita serie di note per illuminare il lettore su termini tecnici e gergali comuni tra i
poilus, come venivano chiamati i soldati francesi durante la Grande Guerra. Il volume può essere acquistato cliccando sull’immagine di copertina qui sopra.
In esclusiva per i nostri lettori, offriamo un estratto del romanzo: si tratta di uno dei passaggi più drammatici, quello dell’assalto alle trincee nemiche, narrato con stile incalzante e impietoso realismo.

***

Fanti francesi a Verdun, 1916

Fanti francesi a Verdun, 1916

Un colpo di silenzio. Poi, alcune esclamazioni.
– Lo sapevo bene – borbotta tra i denti Paradis e si trascina sulle ginocchia, verso l’orifizio della topaia nella quale giaciamo.
Poi non si sente più parlare. Tutti muti. Ci raddrizziamo in fretta. Agitazione di persone, curve e inginocchiate: si fissano i cinturini, si cacciano oggetti in tasca – delle ombre di braccia balzano in qua e in là. E usciamo alla rinfusa trascinandoci dietro per le cinghie gli zaini, le coperte, i tascapane. Una volta fuori si rimane assorditi. Il fragore della fucileria è centuplicato e ci avvolge; sulla sinistra, sulla destra, di fronte.
Le nostre batterie tuonano senza tregua.
– Credi che attacchino? – azzarda una voce.
– Cosa so io! – risponde un’ altra voce, brevemente, con irritazione.
Mascelle serrate. Si manda giù, senza riflettere. Ci spicciamo, urtandoci, cozzando l’uno contro l’altro, borbottando senza parlare.
Un ordine si propaga:
– Zaino a spalla!
– C’è un contrordine… – grida un ufficiale che percorre la trincea a gran passi, lavorando di gomiti.
Il resto della frase scompare con lui.
Contrordine! Un brivido evidente è corso per ranghi, un colpo al cuore risolleva le teste, inchioda tutti in un’attesa straordinaria. Ma no, è un contrordine soltanto per gli zaini. Niente zaino; coperta arrotolata attorno al corpo, tagliafili alla cintola. Sfibbiamo le coperte, le tiriamo giù, le arrotoliamo. Sempre silenzio e tutti a occhi fissi, con la bocca come chiusa con impeto.
I caporali e i sergenti, un po’ febbrili, vanno in qua e in là, scompigliano la fretta muta in cui gli uomini si curvano:
– Andiamo, spicciatevi! Andiamo, andiamo, cos’è che fate? Volete spicciarvi, si o no?
Un distaccamento di soldati che hanno per insegna delle scuri incrociate sulla manica: si aprono il passo e rapidamente scavano dei buchi nella parete della trincea. Li guardiamo di traverso finendo di equipaggiarci.
– Cosa fanno, quelli lì?
– È per salire.
Siamo pronti. Gli uomini si allineano, sempre in silenzio, la coperta ad armacollo, il sottogola dell’elmetto abbassato, appoggiati ai fucili. Guardo i volti contratti, impalliditi, profondi. Non sono dei soldati, sono degli uomini. Non sono degli avventurieri, dei guerrieri, fatti per il macello umano – macellai o bestiame. Sono contadini e operai riconoscibili nelle loro uniformi. Sono dei borghesi sradicati. Sono pronti. Aspettano il segnale della morte e dell’omicidio; ma si vede, contemplandone i volti fra i raggi verticali delle baionette, che sono semplicemente degli uomini. Ognuno sa che sta per portare la propria testa, il proprio petto, il proprio ventre, il proprio corpo tutt’intero, tutto nudo, ai fucili già puntati, agli obici, alle granate accumulate e pronte, e sopratutto alla metodica e quasi infallibile mitragliatrice – a tutto quello che aspetta e tace spaventosamente laggiù – prima di trovare gli altri soldati che bisognerà uccidere. Non sono incuranti della loro vita come banditi, né ciechi di collera come selvaggi. Malgrado la propaganda con cui li lavorano, non sono eccitati. Sono al di sopra di qualsiasi impeto istintivo. Non sono ebbri, né materialmente né moralmente. È in piena coscienza, come in piena forza e in piena salute, che si ammassano lì, per gettarsi ancora una volta in questa specie di recita insensata che la follia del genere umano ha imposto a tutti. Si vede quel che vi è di sogno e di paura, e di addio, nel loro silenzio, nella loro immobilità, nella maschera di calma che serra loro sovrumanamente il volto. Non sono il genere di eroi che si crede, ma il loro sacrificio ha più valore di quanto possano comprendere coloro che non li hanno mai visti.
Aspettano. L’attesa si protrae, si eternizza. Di tanto in tanto, nel rango, questo o quello sussulta un poco se una pallottola, tirata di fronte, rasentando la scarpata anteriore che ci protegge, viene a conficcarsi nella carne floscia della scarpata posteriore.
Il finire del giorno diffonde una fosca luce grandiosa su questa massa forte e intatta di viventi della quale una parte soltanto vivrà fino a notte. Piove – è sempre della pioggia che nei miei ricordi s’incolla a tutte le tragedie della grande guerra. La sera, indistinta minaccia gelida, si approssima, sta per stendere davanti agli uomini il suo tranello grande come il mondo.

***

Henri Barbusse

Henri Barbusse

Nuovi ordini si trasmettono di bocca in bocca. Vengono distribuite delle granate infilate in cerchi di filo di ferro.
«Ogni uomo prenda due granate!».
Passa il comandante. Sobrio di gesti, in bassa tenuta, stringato, semplificato. Lo sentiamo dire:
– Non va male, ragazzi miei. I boches cedono terreno. Marcerete bene, vero?
Delle notizie, come vento, passano attraverso il rango.
– Davanti a noi ci sono i Marocchini e la 21a Compagnia. L’assalto è stato sferrato alla nostra destra.
Chiamano i caporali dal capitano. Poi i caporali tornano con delle bracciate di ferraglia. Bertrand mi palpa e mi aggancia qualcosa a un bottone del pastrano. È un coltello da cucina.
– Ti attacco questo al pastrano – mi dice.
Mi guarda, poi se ne va, cercando altri uomini.
– Io! – dice Pépin.
– No – dice Bertrand. – È proibito prendere i volontari per questo.
– Vai a farti fottere – borbotta Pépin.
Aspettiamo in fondo allo spazio piovoso, martellato di colpi e senza altri limiti che l’immenso tuono lontano del cannone. Bertrand ha finito la sua distribuzione e ritorna. Alcuni soldati si sono seduti e ce ne sono che sbadigliano.

Il ciclista Billette passa via davanti a noi, portando sul braccio l’impermeabile di un ufficiale e voltando la testa altrove.
– Com’è, non marci tu? – gli grida Cocon.
– No, non marcio – dice l’altro. – Sono della 17ª. Il quinto battaglione non attacca.
– Ah! Gli va sempre bene, al 5° Battaglione. Mai che lavori come noi!
Billette è già lontano e le facce sogghignano un poco guardandolo scomparire.
Giunge un uomo correndo e parla a Bertrand. Bertrand allora si volta verso di noi.
– Andiamo – dice – tocca a noi.
Ci muoviamo tutti contemporaneamente. Poggiato il piede sui gradini preparati degli zappatori, gomito a gomito, ci innalziamo fuori dal riparo della trincea e montiamo sul parapetto.

***

Bertrand è dritto sul campo in discesa. Ci abbraccia tutti con una rapida occhiata. Quando ci siamo tutti dice:
– Andiamo, avanti!
Le voci hanno una risonanza strana. La partenza è avvenuta rapidissima; inopinatamente, si direbbe, come in un sogno. Nessun sibilo nell’aria. In mezzo al rumore enorme del cannone, si distingue benissimo questo straordinario silenzio delle pallottole attorno a noi…
Discendiamo sul terreno sdrucciolevole e disuguale, con gesti automatici, aiutandoci a volte con il fucile ingrandito dalla baionetta. Lo sguardo si fissa macchinalmente a qualche particolare del pendio, al terreno sconvolto, a quei rari picchetti scarniti e appuntiti, a quelle cose disperse nei buchi. Non par vero di trovarsi in piedi di pieno giorno su questa distesa lungo la quale alcuni superstiti rammentano di essersi calati nell’ombra con tante precauzioni, sulla quale gli altri non hanno azzardato che occhiate furtive attraverso le feritoie. No… niente fucileria contro di noi.
L’ampia emersione dalla terra del battaglione sembra passare inosservata! Questa tregua è colma di una minaccia crescente, crescente. Il chiarore pallido ci abbacina.

La scarpata, da tutte le parti, si è coperta di uomini che si mettono a discendere contemporaneamente a noi. A destra si profila la linea di una compagnia che si porta al burrone dal camminamento 97, vecchia fortificazione tedesca in rovina.
Attraversiamo per i passaggi i nostri fili di ferro. Su di noi non tirano ancora. Qualche inetto mette un piede in fallo, poi si riprende. Ci allineiamo nuovamente dall’altra parte del reticolato e cominciamo ad andar giù per la china un po’ più rapidamente: si è prodotta un’accelerazione istintiva nel movimento. Allora arrivano fra di noi alcune pallottole. Bertrand ci grida di risparmiare le bombe a mano, di aspettare all’ultimo momento. Ma il suono della sua voce si disperde: bruscamente davanti a noi, su tutta la larghezza del pendio, losche fiamme balzano su urlando l’aria con detonazioni spaventose. In linea, da sinistra a destra, spolette che escono dal cielo, esplosivi che escono dalla terra. È un terribile sipario che ci separa dal mondo, ci separa dal passato e dall’avvenire. Ci fermiamo, inchiodati al suolo, stupefatti dall’improvvisa nube tonante da tutte le parti; poi uno sforzo simultaneo solleva la nostra massa e la ricaccia avanti, rapidissimamente. Barcolliamo, ci sosteniamo l’un l’altro in mezzo a grandi fiotti di fumo. Verso il fondo dove ci precipitiamo, alla rinfusa, si vedono aprirsi dei crateri con fracassi striduli e cicloni di terra polverizzata; qua e là, crateri vicino a crateri, crateri dentro crateri. Poi non si sai più dove cadano le scariche. Si scatenano delle raffiche così mostruosamente rimbombanti che ci si sente annichiliti dal solo rumore di questo imperversare di tuono, da questi grandi astri di rottami che si formano in aria. Vediamo, sentiamo delle schegge passarci vicino alla testa con uno stridio di ferro rovente nell’acqua. D’un tratto abbandono il fucile – tanto la ventata di un’esplosione mi ha scottato le mani. Lo raccatto barcollando e riparto a testa bassa nella tempesta di bagliori fulvi, nella pioggia schiacciante di lave, sferzato da getti di polvere e fuliggine. Gli stridori delle schegge che passano ti fanno male alle orecchie, ti picchiano sulla nuca, ti traversano le tempie; e non puoi trattenere un grido quando le subisci. Ci si sente rivoltare lo stomaco, attanagliato dall’odore solfureo. Le ventate della morte ci spingono, ci sollevano, ci librano. Si va a balzelloni, non si sa dove si marcia. Le palpebre sbattono, gli occhi si accecano e piangono. Davanti a noi la vista è intercettata da una valanga folgorante che copre tutto.
È lo sbarramento. Bisogna passare in quel turbine di fiamme e in quelle orribili nuvole verticali. Passiamo. Siamo passati, a caso; ho visto, qua e là, delle forme roteare, sollevarsi e coricarsi folgorate da un rapido riflesso di al di là. Ho intravisto delle facce strane che lanciavano qualcosa come gridi visibili e non percettibili nell’annientamento del frastuono. Un braciere con immense e furiose masse rosse e nere mi cadeva intorno, scavando la terra, togliendomela da sotto i piedi, e scartandomi via come un giocattolo che rimbalza. Mi ricordo di avere scavalcato un cadavere che ardeva, tutto nero, con una fascia di sangue vermiglio che gli si increspava sopra; e ricordo anche che le falde del suo pastrano che mi si spostava accanto avevano preso fuoco e lasciavano una striscia di fumo. Alla nostra destra, lungo tutto il camminamento 97, lo sguardo era attratto e abbagliato da una fila di terrificanti illuminazioni, serrate l’una contro l’altra come uomini.
– Avanti!
Adesso quasi corriamo. Se ne vedono che cadono tutti in un pezzo, a faccia avanti; altri che cedono, umilmente, come se si sedessero per terra. Si fanno degli scarti bruschi per evitare i morti allungati, composti e rigidi, oppure inalberati, o anche – le trappole più pericolose – feriti che si dibattono e si aggrappano.
Il Camminamento Internazionale!
Ci siamo. I fili di ferro sono stati dissotterrati con le loro lunghe radici a succhiello, sbattuti via e avviluppati, spazzati, cacciati in ampi accumuli dal cannone. Fra quei grandi cespugli di ferro umidi di pioggia, il terreno è aperto, libero. Il camminamento è indifeso. I tedeschi lo hanno abbandonato oppure una prima ondata è già passata… L’interno è irto di fucili poggiati lungo la scarpate. Nel fondo, dei cadaveri sparsi qua e là. Dal fitto di quella fossa lunga emergono delle mani tese fuori dalle maniche a paramani rossi e delle gambe che indossano stivali. In certi punti la scarpata è rovesciata, l’intavolato schiantato; tutto il fianco della trincea è crepato, sommerso in un miscuglio indescrivibile. In altri punti si spalancano dei pozzi rotondi. Di quel momento mi è rimasta sopratutto la visione di una trincea bizzarramente a brandelli, coperta di cenci multicolori: per confezionare i loro sacchi a terra, i tedeschi si erano serviti di stoffe, cotonami e lanerie a disegni screziati, predati in qualche magazzino di tessuti da tappezziere. Tutto quel guazzabuglio di lacerti di colori, frastagliati, sfilacciati, mi ciondola e schiocca e fluttua e balla ancora davanti agli occhi. Ci siamo sparsi per il camminamento. Il tenente, che è saltato dall’altra parte, si china e ci chiama gridando e facendo dei segni.
– Non restiamo qui. Avanti! Sempre avanti!
Scaliamo la scarpata della trincea montando sui sacchi, sulle armi, sulle schiene che sono lì ammucchiati. Nel fondo del burrone il terreno è martoriato di colpi, colmo di rottami, formicolante di corpi coricati. Taluni hanno l’immobilità delle cose, altri sono percorsi da movimenti calmi o convulsivi. Il tiro di sbarramento continua ad accumulare le sue scariche infernali alle nostre spalle, là dove lo abbiamo superato. Ma qui dove siamo, ai piedi del monticello, è un angolo morto per l’artiglieria.
Vaga e breve tregua. Si smette un poco di essere sordi. Ci si guarda. C’è della febbre negli occhi, del sangue nei pomelli. Respiri ansanti e cuori che picchiano forte in petto.

Ci riconosciamo, confusamente, in fretta, come se ci si ritrovasse in un incubo, un giorno, faccia a faccia, in fondo ai lidi della morte.
Brevi parole precipitose che ci scambiamo in questa radura d’inferno:
– Sei tu!
– Oh, la là! che musica!
– Dov’è Cocon?
– Non so.
– Hai visto il capitano?
– No…
– Tutto bene?
– Sì…
Attraversato il fondo del burrone, ecco l’altro versante.
Lo scaliamo in fila indiana, per una scala sbozzata nella terra.
– Attenzione!
È un soldato che arrivato a metà della scala, colpito alle reni da una scheggia di granata venuta di laggiù, cade come un nuotatore, scapigliato, con le braccia tese avanti. Si distingue l’informe sagoma di quella massa che si tuffa nell’abisso; intravedo quel particolare dei capelli sparsi al di sopra del profilo nero del volto.
Sbocchiamo sulla cima.
Un gran vuoto incolore si stende davanti a noi. In principio non si vede altro che una steppa gessosa e pietrosa, gialla e grigia a perdita d’occhio. Nessuna ondata umana precede la nostra. Davanti a noi nessun vivente, ma il suolo è popolato di morti: cadaveri recenti ancora atteggiati alla sofferenza o al sonno, vecchi resti già scoloriti e dispersi al vento e quasi digeriti dalla terra.
Sento che da quando la nostra fila, lanciata, sballottata, è allo scoperto sulla cima, due uomini mi sono caduti vicino: due ombre sono precipitate a terra e ci ruzzolano sotto i piedi, l’una con un grido acuto, l’altra in silenzio come un bue. Un altro scompare con un gesto da folle, come se fosse stato portato via. Ci si ricongiunge istintivamente, spingendosi in avanti, sempre in avanti; la piaga, nella nostra massa, si rimargina da sé. L’aiutante si ferma, alza la sciabola, l’abbandona e s’inginocchia; il corpo inginocchiato si piega indietro a scosse, l’elmetto gli cade sui talloni, e resta lì, a capo scoperto, il viso volto al cielo. La fila si è aperta precipitosamente, nel suo slancio, per rispettare quell’immobilità.
Ma non si vede più il tenente. Più nessun capo, allora… Un’esitazione trattiene l’ondata umana che batte il principio dell’altopiano. Si sente nel calpestio l’ansito rauco dei polmoni.
– Avanti! – grida un soldato qualunque.
Tutti allora riprendono in avanti, con furia crescente, la corsa verso l’abisso.

***

foto barbusse 01– Dov’è Bertrand? – geme penosamente una delle voci che corrono avanti.
– Là! Qui…
Si era chinato su un ferito passando, ma rapidamente lascia quell’uomo che gli tende le braccia e pare che singhiozzi.
E nel momento in cui Bertrand ci raggiunge che sentiamo davanti a noi, proveniente da una specie di gobba, il tac-tac della mitragliatrice. È un momento angosciante, anche più grave di quello in cui abbiamo attraversato il terremoto incendiato dello sbarramento. Questa voce ben nota ci parla nettamente e spaventosamente nello spazio. Ma non ci fermiamo più.
– Andate avanti! Andate avanti!
La mancanza di fiato si traduce in gemiti rauchi e continuiamo a lanciarci verso l’orizzonte.
– I boches! Li vedo! – dice d’un tratto un uomo.
– Sì… Le teste, là, sopra la trincea… E là la trincea, quella linea. È vicinissima. Ah, porci!
Si distinguono infatti delle calottine grigie che salgono e poi si nascondono a livello del suolo, a una cinquantina di metri, al di là di una striscia di terra nera scalata e ingobbita.
Un sussulto agita tutti coloro che formano adesso il gruppo in cui mi trovo. Così vicini alla meta, incolumi fino a questo punto, non ci si dovrebbe arrivare? Sì, ci arriveremo! Si marcia a grandi passi. Non si sente più niente. Ognuno si slancia davanti a sé, attratto dal fossato terribile, irrigidito in avanti, incapace quasi di volgere il capo a destra o a sinistra.
Si ha la nozione che molti cedono e si abbattono al suolo. Faccio un salto di fianco per evitare la baionetta bruscamente eretta di un fucile che capitombola. Vicinissimo a me, Farfadet, con la faccia insanguinata, si rizza, mi urta, si getta su Volpatte che mi è accanto e gli si aggrappa addosso. Volpatte si piega e continuando nel suo slancio lo trascina con sé per qualche passo, poi lo scrolla via e se ne libera, senza guardarlo senza sapere chi è, gridandogli con voce interrotta, quasi asfissiata dallo sforzo:
– Lasciami, lasciami, cristo dio! Adesso ti raccoglieranno. Non ci pensare.
L’altro crolla giù, scuotendo a destra e a sinistra la faccia vermiglia e senza più espressione di sorta mentre Volpatte, già lontano, ripete macchinalmente fra i denti: «Non ci pensare», con l’occhio fisso avanti, sulla linea.
Un nugolo di pallottole mi cigola attorno, moltiplicando gli arresti subitanei, le cadute ritardate, rivoltate, gesticolanti, i tuffi tutti d’un pezzo con tutto il peso del corpo, le grida, le esclamazioni sorde, rabbiose, disperate, oppure gli «han!» terribili e cavi nei quali la vita intera si esala di colpo. E noi che non siamo stati ancora colpiti, guardiamo avanti, marciamo, corriamo fra i giochi della morte che colpisce a caso in tutta la nostra carne.

I fili di ferro. Ce n’è una zona intatta. La aggiriamo. È un reticolato sventrato da un passaggio largo e profondo: un colossale imbuto formato di imbuti sovrapposti – fantastica bocca di vulcano scavata lì dal cannone.
Lo spettacolo di quello sconvolgimento è stupefacente. Sembra proprio che provenga dal centro della terra. Un tale aspetto di lacerazione degli strati del terreno acuisce il nostro ardore di assalitori e in quel momento, mentre le parole si sradicano a stento dalla gola, qualcuno non può a meno di esclamare, con un torvo scuotere del capo:
– Benone! cosa ci hanno cacciato lì! ah, benone!
Si sale e si scende, come spinti dal vento, a seconda degli avvallamenti e dei monticelli terrosi, in quella smisurata breccia del suolo che le fiamme accanite hanno frugato, annerito, cauterizzato. I piedi s’impastano nella terra, li si strappa via con rabbia. Gli oggetti di corredo, le stoffe che tappezzano il terreno molle, la biancheria che vi si è sparsa dagli zaini sventrati, impediscono che ci si impantani e si sta attenti a piantare il piede su quelle spoglie quando si salta nei buchi o si scalano i monticelli.
Dietro di noi, delle voci che ci spingono:
– Avanti, ragazzi! Avanti, perdio!
– Abbiamo dietro tutto il reggimento – gridano.
Nessuno si volta indietro per vedere ma questo incitamento elettrizza ancor più il nostro slancio.
Dietro le scarpate della trincea alla quale ci avviciniamo elmetti non se ne vedono più. Dei cadaveri di tedeschi ci si sgranano davanti, ammucchiati come punti o distesi come linee. Arriviamo. La scarpata si precisa nelle sue forme dissimulate, nei suoi particolari: le feritoie… Siamo prodigiosamente, incredibilmente vicini…
Qualche cosa ci cade davanti. È una bomba a mano. Con un calcio, il caporale Bertrand la rimanda indietro; e così bene che quella rimbalza e va a esplodere proprio sulla trincea.
È con questo bel colpo che la squadra abborda il fossato.
Pépin si è precipitato pancia a terra. Gira attorno a un cadavere. Raggiunge l’orlo, si immerge al di là. È stato lui il primo a entrare. Fouillade, che fa dei gran gesti e che grida, balza nello scavo quasi nel momento in cui Pépin vi si cala… Intravedo – l’attimo di un lampo – tutta una fila di demoni neri che si abbassano e si accosciano per discendere, sul colmo della scarpata, sull’orlo della trappola nera.
Una salva terribile ci esplode in faccia, a bruciapelo, gettandoci davanti un’improvvisa ribalta di fiamme lungo tutta l’orlatura di terra. Dopo un colpo di stordimento, ci scuotiamo e ridiamo, diabolicamente, degli scoppi: la scarica è passata troppo alta. E immediatamente, con esclamazioni e ruggiti da parto, sdruccioliamo, ruzzoliamo, cadiamo vivi nel ventre della trincea!

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