L’ equivoco del bene comune

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Una riflessione di Nicola Bozzo

L’espressione bene comune soffre, ai nostri giorni, di una sorta di ipertrofia descrittiva. Non c’è situazione, ambito, tratto della vita individuale e collettiva che non sia sfidato dal carattere esigente del bene comune. Come spesso accade in questi casi l’espressione, la parola, perde la capacità di indicare con sufficiente approssimazione delle realtà tangibili e separabili da altro e si smarrisce nella paradossalità del suo impiego compulsivo privato di particolare utilità ai fini dell’argomentazione.

Questo movimento è abbastanza comprensibile se si indaga sulle ragioni che lo hanno prodotto. Nella sfera più immediatamente politica ‘la crisi di legittimità’ della rappresentanza qui ci interessa sotto un profilo particolare pur tra le tante suggestioni possibili. In riferimento particolare alla vicenda italiana, cosa significa l’espressione, che altrimenti potrebbe essere pleonastica, la politica come bene comune?

Naturalmente va letta come la leva che introduce una nuova linea di un conflitto, come la manifestazione di un punto estremo di crisi: ovvero l’attribuzione alla politica, in sé considerata, unitariamente, di un vizio ormai strutturale e sistemico: l’essere divenuta una tecnica di potere che tutela posizioni private di interesse e privilegio, di corruzione endemica e di illegalità diffusa: una forma insomma di particolarismo neo-feudale.

Non a caso è ricorrente l’espressione ceto politico (ove appunto il ceto è la forma premoderna di raggruppamento degli interessi) cui si oppone appunto polemicamente, in modo avversativo, il richiamo al bene comune, cioè a qualcosa che trascenda l’interesse esclusivo ed escludente della sfera politica ridotta a funzione privata. Dentro questi orientamenti, che ormai costituiscono un senso comune, non possono essere contenute soluzioni mediane, cioè mediazioni, perché la natura totalmente oppositiva del giudizio può svolgersi soltanto “istituendo” un nuovo criterio di legittimità che trascenda ogni modalità dell’azione pubblica riconducibile alla tradizionale funzione della politica e di quello che resta del sistema dei partiti.

In verità, in questa declinazione il termine bene comune è totalmente spogliato della sua eredità semantica, cioè del modo in cui storicamente se ne è esplorato il senso. Dalla tradizione aristotelica tomistica in poi.

Scriveva Hannah Arendt: ”Nell’arco della vita l’uomo si muove costantemente in due differenti ordini di esistenza: egli si muove all’interno di ciò che è suo e si muove anche in una sfera che è comune a lui e ai suoi concittadini. Il “bene pubblico”, gli interessi del cittadino, è davvero il bene comune perché è situato nel mondo che abbiamo in comune senza possederlo. Molto spesso, esso sarà in opposizione a tutto ciò che reputiamo un bene per noi stessi nella nostra vita privata”.

Come si vede, si tratta di una fondazione politica-filosofica di grande suggestione che individua uno spazio di appartenenza doppio: quello privato-individuale, quello pubblico-comune, ispirati a distinti criteri di “cittadinanza”, dentro quella “nostalgia” per la libertà degli antichi. Il tutto per stare dentro la differenza capitale tra libertà degli antichi e dei moderni tracciata da Constant, secondo cui le prima è la libertà nella polis, cioè la democrazie e la deliberazione, la seconda la libertà dalla polis, cioè la sfera dei diritti individuali intangibile anche dalla deliberazione democratica.

Dunque l’accezione del termine bene comune dell’“antipolitica” è priva di una particolare coerenza con il lascito storico, sia pure vario e polisenso,  di questo termine e potrebbe benissimo essere intercambiato con interesse generale, interesse pubblico, senza che muti il significato della forza d’urto che intende produrre. Quello che interessa è dato dallo svolgimento che si intende trarre dalla premessa della ormai inconciliabilità tra politica e bene comune.

Gramsci, nei Quaderni, trattò dello spirito di “scissione”. Intendeva che i movimenti statu nascenti, nei periodi di crisi della precedente legittimità storica, inevitabilmente tendono a scindersi appunto, a stabilire una sorta di autonomia radicale rispetto a tutto quello che c’è prima e attorno. Non sfugge a questo movimento la critica radicale, in nome del bene comune, alla politica di cui bisogna liquidare ogni forma di manifestazione che altro non è che il perpetuarsi di rituali e di retoriche dietro cui si annida la totale coincidenza tra potere e interesse privato.

La cosa che mi interessa è che la risposta, per quanto disarticolata e ”primitiva”, che sembra potersi cogliere è quello che si può chiamare “direttismo”. Si ripropone quell’opposizione tra democrazia diretta e rappresentativa la cui infinita elaborazione avviene da Rousseau in poi (e forse da prima).

Lo spazio della politica e della decisione totalmente investito, ma ovviamente non solo quello, dalla crisi di qualunque principio d’autorità, diviene assolutamente contendibile da chiunque: basta essere ispirati da coordinate etiche essenziali. Ecco che non solo si può ma si deve accedere alla politica. Il leader della porta accanto è ad esempio l’ispirazione dei Cinquestelle, la persona comune versus l’oligarchia, il senso comune versus la retorica dei potenti, la parola semplice versus ogni complicazione che in sé è sospetta perché tendenzialmente è votata ad irretire, mistificare, nascondere la vera natura privata del potere pubblico.

Tutto quello che non è misura del “direttismo” e della sua semplice purezza è vizio, complicazione, arte del potere contro la semplicità del bene comune. Si potrebbe pensare che a questo punto sia abbastanza facile cogliere tutti i pericoli iscritti in questa iper-semplificazione decisionale, prevederne gli esiti tremendi e il piano inclinato della sua possibile degenerazione. Ma sostanzialmente credo occorra evitare questo riflesso condizionato. Non credo serva molto, o abbia senso politico, attivare la controffensiva “moralistica” che liquida nel giudizio sprezzante, antipolitica, populismo, con incerte peraltro categorie analitiche.

 Non solo perché non è strategica ed è perdente, ma perché struttura il paradosso di un campo del conflitto e dello scontro artificiale e inaccettabile, con in primo piano quella che in termini classici della morale si chiama male minore. Ed è da oltre vent’anni che la democrazia italiana è imprigionata dalla sindrome del male minore. Prima una esangue sinistra a trazione post-comunista, secondo me mai abbastanza consapevole della fine di certe appartenenze identitarie, ha giocato in larga parte il suo fondamento di legittimità sul pericolo berlusconiano. Adesso il leaderismo integrale del nuovo corso renziano mette in campo la risorsa della paura dei “barbari”, la teatralizzazione dell’ assedio, il non valore degli altri come ragione della propria pretesa a governare. Non solo: tutto trae la propria misura di giustizia dentro alla sindrome dell’assedio: la riforma costituzionale bisogna votarla altrimenti vincerà il popluismo; il Jobs Act creerà lavoro, altrimenti il disagio sociale drammatico alimenterà il populismo e via dicendo.

Parlo di paradosso per una ragione abbastanza semplice: la politica dilaniata da un deficit morale chiede di acquistare un surplus di credibilità su una ragione morale: il non essere “barbara”, essere un’aristocrazia insomma che però si nomina tale sul campo. Si autofonda.

Prendo a prestito l’impegnativa dichiarazione di Roberto Speranza, esponente autorevole della cosiddetta Sinistra dem: «Il ragionamento che mi porta a sostenere con grande fermezza che questa volta le riforme dobbiamo farle parte da un allarme. Si diffonde l’idea che le istituzioni democratiche non sono in grado di fornire soluzioni ai problemi dei cittadini, ma sta divenendo un luogo comune anche il fatto che le istituzioni democratiche sono diventate parte consistente dei problemi quotidiani dei cittadini. Il passaggio successivo? Che delle istituzioni democratiche si possa fare a meno».

“Le riforme senza aggettivi” sono un blandimento delle pulsioni antidemocratiche. “Che delle istituzioni democratiche si possa fare a meno” non è un “passaggio successivo”: è il sentimento oggi dominante e in corso di realizzazione.

Il paradosso è peraltro doppio. Infatti da un alto si drammatizza il conflitto nei termini aristocrazia versus barbari. Dall’altro, consapevoli della reale portata “egemonica” del lessico del direttismo, se ne mimano in qualche modo le espressioni, le si insegue, le si blandisce. Un populismo dall’alto che egualmente promette o realizza semplificazione, fine delle mediazioni, velocità insomma con tutto il repertorio del caso.

In sostanza, è chiaro comprendere come sia paradossale ma perdente o inutile questa trovata strategica-comunicativa. Si muove soltanto, peraltro, nell’ambito della totale riduzione della politica alla conquista del potere, scollegando quest’ultimo da qualunque relazione con una idea di mondo e di società, di ricongiunzione con il corpo sociale, con le sue striature e divisioni, con il cuore vivente un’idea autorevole di destino comune, con i bisogni concreti delle persone in carne e ossa, in bilico tra l’anomia sociale e la tentazione del “direttismo” di cui accennavamo.

Ritorna il tema fondante e irrinunciabile della relazione tra politica e società, della ricostruzione di un canale di scorrimento, della ricostruzione di un patto integralmente democratico, dell’autonomia delle persone, delle libertà vecchie e nuove.

È il campo terribilmente complicato ma obbligato della società il luogo delle rigenerazione della politica e della sinistra.

Nicola Bozzo

La fotografia è tratta dalla pagina Facebook del film “Viva la libertà” di Roberto Andò – Foto di scena di Lia Pasqualino

3 pensieri su “L’ equivoco del bene comune

  1. La politica non esistee non ha potere, da quando le decisioni in materia economica non sono più prese in Parlamento (organo dell’espressione democratica). Se questo non si è compreso (a Sinistra) con la caduta di Berlusconi, il referendum in Grecia non lascia molti dubbi sullo svuotamento del potere democratico da parte di istituzioni europee come la BCE. Forse mi sbaglierò, ma il prossimo a essere tolto di mezzo sarà Renzi (in fondo Monti l’aveva avvertito).

    1. Sono d’accordo. Su Carteggi ho scritto un pezzo che tratta quest’argomento. Se vuoi dagli un’occhiata. Si intitola la post-democrazia.
      Ciao,
      Nicola

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