Nelo Risi (1920 – 2015) – In memoriam

E’ morto il decano dei poeti italiani, l’ultimo degli autori della “linea lombarda” di anceschiana memoria che nella poesia ha sempre riversato lo sguardo e la passione politica (“scrivere è un atto politico”) coniugandola con una secchezza di pronuncia e nitida asciuttezza aliena da qualunque inclinazione metaforica, in una metrica personale ricca di assonanze e consonanze e decisamente volta alla “claritas”, anche epigrammatica. Erede diretto del Parini e del Manzoni della Colonna Infame, la creatività di Nelo Risi ha traversato tutto il secolo breve, registrando con pietas e lucidità le speranze e le disillusioni storiche, sempre vicino al cuore dell’umano, anche nel suo capolavoro filmico “Diario di una schizofrenica” (1968).
La sua tensione alla verità, la volontà di denuncia delle oppressioni e degli inganni politici e culturali si è nutrita peraltro anche degli influssi dei surrealisti francesi, di cui è stato traduttore, e dell’avanguardia russa, alla ricerca di una “lingua della poesia” che fosse viva: “In questa fine di millennio, nel caos dei linguaggi telematici e dei manierismi tardo sperimentali, nella vacuità delle pratiche individuali e dei progetti neoavanguardistici, dove sta la poesia? La poesia sta dove la lingua vive”.(da “Il mondo in una mano” 1994).


Nota biografica: Nelo Risi nasce a Milano nel 1920. Si laurea in medicina senza mai esercitare e sposa la scrittrice ungherese Edith Bruck. I suoi interessi sono rivolti anche al cinema (il fratello, Dino, era il noto regista) firmando alcune pellicole di estremo interesse “Andremo in città”, “La colonna infame”, “La città del mondo” e soprattutto il capolavoro “Il diario di una schizofrenica”, di rara penetrazione psicologica, che può essere considerato un riferimento di alto livello per accostarsi allo studio della schizofrenia (la psicoanalisi è stato un altro dei suoi interessi).
Soldato sul fronte russo, viene internato in Svizzera, e soggiorna per lunghi periodi a Parigi e in Africa. Nel 1955 si trasferisce a Roma. Il suo libro di esordio è costituito dalle prose poetiche “Le opere e i giorni” (1941), l’ultimo risale al 2008 “Né il giorno né l’ora”. Si è dedicato inoltre a varie traduzioni (Kavàfis, Queneau, Supervielle, Laforgue, Jouve, ecc.).


TESTI

I LUPI

La mia città deserta
un nero vento invade,
la mia città dolora
all’alba delle case

Il muro non misura
più di tre metri, il sonno
di quel ragazzo steso
a lato è un peso eterno

Il lupi sono scesi
visitano le strade,
autunno o primavera
non mutano paese

La mia città deserta
ha occhi di rovina,
le rose del suo sangue
c’è già chi le coltiva.

(da “Le vacche magre 1943-1947” poi in “L’esperienza”, 1948)

SOTTO I COLPI

C’è gente che ci passa la vita
che smania di ferire:
dov’è il tallone gridano dov’è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.

Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l’istrice.

(da “Pensieri elementari”, 1961)

TELEVISORE

Stando nel cerchio d’ombra
come selvaggi intorno al fuoco
bonariamente entra in famiglia
qualche immagine di sterminio.
Così ogni sera si teorizza
la violenza della storia.

(1961, poi in “Dal mondo in una mano”, 1994)

PROSA DI RICORRENZA

La gente non ha più memoria
non per questo siamo meglio
disposti a frequentarci –
gli uomini gomito a gomito corrono all’autobus
i topi sono confinati al loro posto in cantina
le vetrine coi pezzi espongono la merce
le sirene sibilano in fabbrica o nell’orecchie di Ulisse
non hai pazienza per la coda nemmeno davanti un cinema
le scarpe non fanno più acqua le stringhe rotte si buttano
dai rami pendono dei frutti
dai ganci i macellati quarti
abbiamo tutti almeno due stomaci
òmaso abòmaso tanti il riempirli è facile
sfilandoti la gonna scopri una cicatrice
un tondo a sinistra sulla coscia: effetto
del gelo? di un vaccino? di una pallottola smarrita?
A data fissa sui giornali ricorrono dei segni
non si cancellano ma sono sempre più tenui…
sembra un’altra epoca e sono passati
con diversi problemi quattro lustri appena.

(da “Dentro la sostanza”, 1966)

 

VALI PIU’ TU

coi tuoi piedini piatti d’orsacchiotta
coi tuoi occhi asimmetrici
col tuo codino d’anatroccola che alzo
quando bacio la tua nuca
vali più tu con tutti i tuoi malanni
i tuoi veri spaventi immaginari
con la tua contezza appresa dalla vita
(e non ti fu mai tenera!)
vali più tu
indifesa di me che mi difendo
vale più un tuo sfogo del mio stare zitto
vale più un tuo sogno di una mia conquista
vale più un tuo sabath di una mia domenica
vale piu la tua fame del mio appetito
vale più un tuo detto di un mio verso
vale più un tuo accento sghembo di una mia rima
vale più la tua mente fresca della mia mente libresca
vali più tu che canti la tua Tosca
vali anche più tu con me vicino.

(da “Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa”, 1970)

 

CAPIREI…

se un’elegia ti pagasse la cena
se un’ode ti scaldasse la casa
se un inno ti curasse la pressione
se un idillio ti consentisse un salario
se una madrigale ti garantisse la pensione
se una rima facesse da gentil ramo a un piviere
se la poesia insomma servisse a qualcosa
fosse un mestiere che rende…

Chi sa fare di meglio
non perda tempo dietro i versi.

(da “Amica mia nemica”, 1975)

CELAN

Non aveva che da scegliere
lui il poliglotta
in quale lingua scrivere
l’opera di una vita

Ha scelto quella da annullare
una parola una pietra
poesia assoluta
e che comunica per i milioni che tacciono

LIBERARSI DALL’IO

Qui non si fa romanzo
la voce narrante andrebbe bandita dai versi

Quell’io vestito che ti porti dietro
quell’io vestito che ti porti dentro
una volta l’abito dismesso
tu vorresti captare il mondo
senza speranza senza timore
in un altro sentire
dai ricchi messaggi i richiami di volo
affinando l’acustica (ogni animale
ha la sua fonazione) affinando gli odori
quasi guidato da un senso nuovo
entro un tempo che non conosce le ore
un andare per pascoli sotto cieli variati
entro mari remoti
nel diverso
che ti fa più natura

(da “Ruggine”, 2004)

 

CONTINUARE….
che senso avrebbe
aver cura del tutto che non so
tanto da riempire un dizionario popolare
un tascabile d’enciclopedia
C’è un angolo di prato neanche poi
così lontano proprio al centro e di un ordine
dei cappuccini ora dismesso
con una panca zoppa e qualche frasca
del nespolo assecchito e lì mi siedo
sulle ginocchia ho i giornali del mattino
dicono quello che già so l’arcobaleno
sul declino di un mondo abbrunato
parole al vento così usate e sporche
che se ne vanno senza traccia
Ho vissuto con fiducia nel reale che non sento
il bisogno di portare con me niente
ho acquisito negli anni il piglio
di preservarmi dai vuoti dai richiami
del sociale dal come valutare gli incontri
lasciare al mezzo una conversazione le spalle
al banale limitare gl’inviti o a mattino inoltrato
fischiettare Mozart staccando la spina per cogliere
l’istante di vero che talvolta mi dà luce

(da “Né il giorno né l’ora”, 2008)

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