Carteggio V: Peregrini d’assenza

La letteratura, non so se purtroppo o per nostra fortuna, è diventata in qualche modo la forma di tutta la nostra vita. Credo anche per te.
E so che anche per te la letteratura nascondeva sempre molte altre perturbanti e gravi cose dell’anima, che anche a te è piaciuto di guardare a’ poeti come a maestri. Il che è forse molto sbagliato, ma è pur vecchio e dolce difetto, e poi nostro (cosicché non sapremmo condannarlo).

Da una lettera di Natalino Sapegno a Guglielmo Alberti, 2 febbraio 1927

George Salameh “Isolitudine” (2006) chaise suspendue
George Salameh “Isolitudine” (2006) chaise suspendue

Che cos’è più importante? Qual è la ragione, la spinta del dire?
E dove si nasconde il sangue? In quali vene scorre? In quali si ferma, coagula, si fa siero e deforma?
Ci vuole un’etica del dire, è necessario tracciare un’etica del dolore.
La ramificazione delle vene come un tronco capillare di fronde dalle arterie dice che la materia vive, pulsa, si adatta. La materia si completa nella forma, inspiegabilmente nella sua stessa forma pensa.
Che cosa genera dolore?
Nel corpo è semplice la risposta. Basta un trauma, un taglio, una ferita, lo scontro accidentale, l’azione non calibrata, la malattia, la degenerazione cellulare, l’infiammazione del muscolo, il nervo, la compressione cervicale.
Ingrato invece appare il compito della definizione del dolore a livello emozionale, intimamente umano, personale, soggettivo, silenzioso e subdolo come tutto ciò di cui non si sa con certezza la natura, la fattezza, la nomenclatura, seppure ne sia piena la vita come la letteratura, scientifica e filosofica.
Rabbioso, rassegnato, dimesso, frastornato, l’essere mantiene in sé il segreto del confrontarsi con l’idea di benessere che lo affligge e lo abbandona, come tutto ciò che gli manca. Ed è assenza, ma l’assenza di cosa, l’assenza dell’altro? La mancanza di un’integrazione di sé in qualcosa e qualcuno a sé distante, diverso? O non è forse la consapevole comprensione dell’assenza di sé al proprio stesso esistere, quasi rinnegando la congiunzione vitale delle cellule, delle apparenze, della fattezza, dell’ambiente circostante, della conseguenza e dell’azione, nel rifiuto, rinnegato, di se stessi e della propria idea con quanto di noi siamo costretti ad accettare pur sentendo di essere parvenza di qualcosa che ci somiglia senza appartenerci, ma che di noi si realizza nell’altro?
Chi siamo, alla fine, mi pare il peggior quesito; ciò che di noi ci rende assenza e delusione, ricerca e crollo, lotta e passione

finché la materia pulsa,
purché la materia viva,
comprendendoci nel dolore
peregrini d’assenza.

0 pensieri su “Carteggio V: Peregrini d’assenza

Rispondi