Afric Mc Glinchey: Lo sguardo mai deformato della realtà. Nota su “La buona stella delle cose nascoste” (L’Arcolaio, 2015) di Afric McGlinchey a cura di Sergio Rotino

Afric Mc Glinchey: Lo sguardo mai deformato della realtà. Nota su “La buona stella delle cose nascoste” (L’Arcolaio, 2015) di Afric McGlinchey a cura di Sergio Rotino.

la buona stella

A colpire, più che l’idea della migrazione, dello spostamento da luogo a luogo (soprattutto per sottolineare necessità oppure obbligo, ma non unicamente), in sostanza del muoversi, elemento radicato nel profondo di molti dei testi inseriti da Afric McGlinchey nel suo libro di esordio La buona stella delle cose nascoste, è il modo, il come l’autrice racconti questi momenti, così come altri, diciamo, più intimi, più personali e riservati.
È uno sguardo e un linguaggio, quelli utilizzati da Afric McGlinchey, che trovo parente stretto di quelli propri ai reporter, agli inviati speciali come li si chiamava un tempo. Se vogliamo specificare, lo trovo parente stretto di quello usato non tanto dai fotografi, ma da alcuni autori, da alcuni inviati per quotidiani e riviste dagli anni Quaranta ai Novanta, pronti a raccontare i luoghi, le persone, gli avvenimenti con sguardo limpido, partecipe, curioso, attento e, in fin dei conti, sempre in presa diretta o comunque senza “montaggi” arditi quanto ambigui attuati forzosamente in postproduzione. Qui potrei parlare di Giuliana Sgrena, di Ilaria Alpi, di Enzo Baldoni, esempi a noi vicini, parziali (volendo, anche depistanti) di quanto intendo. Uno sguardo, comunque, che in Afric si presenta senza altre remore se non quelle riguardanti il limite dato dalla parola, dall’estensione del pensiero sulla carta e dalla sintesi che al pensiero fattosi versificazione lei e solo lei (come gli autori cui mi riferisco, e solo loro) ha saputo dare.
Trovo poco, nelle poesie raccolte in questo La buona stella delle cose nascoste, dell’idea confessionale che aleggia sul, o è intima parte del, lavoro di molte altre poetesse di lingua anglofona, passate e presenti. In maniera ancora più forte che in Carol Ann Duffy, in Afric Mc Glinchey si ritrova la capacità – quasi fosse una arguzia istintiva – di immettersi nel tema scelto, nell’evento, attraverso attacchi esplicitamente narrativi, e di svilupparlo poi stereoscopicamente, fornendolo di un forte impatto visivo e olfattivo. Insomma Afric sembra lavorare in modo costante nella direzione di portare al proscenio quanto i cinque sensi hanno esperito direttamente, cioè nel momento in cui hanno vissuto in diretta l’evento.
Questa attenzione a un piano nitido della realtà non cancella l’altro, di piano, ovvero quello metaforico, presente in moltissimi se non in tutti i testi raccolti nelle pagine del libro. Diciamo anzi che lo acuisce, riuscendo a mantenere sia il tema che il senso della narrazione e del soggetto narrato fuori dal cerchio dell’ambiguità. Afric si mostra generosa nel riportare, senza mai farlo capitolare sotto i colpi di una soggettività dilagante, il dato di realtà da cui muove per scrivere i propri testi poetici. Vuole partecipare a esso e riportarlo come esperienza, che da singolare si fa universale, che da personale diventa di tutti. L’emotività resta perciò ben visibile e, giustamente, si fa portatrice di una empatia capace di legare strettamente lettore a tema delle poesie, che si tratti di Ultima conquista o di Scintille, de I portatori d’acqua o de L’impronta di uno zoccolo, sotto il cuore o, ancora, di Sulle suole dei loro piedi. Però tutto questo si forma, non so quanto per miracolo o per tecnica, molto al largo dal circuito della retorica più a buon mercato.

 

On the soles of their feet

I watch it, this Harare life
that I have left: new hair extensions,
heels and shiny faces, bodies like models;
the guards, with their batons, guiding white
Mercedes between parallel lines; potholes,
filled up hourly by street kids
who rob red bricks from garden walls;
dark windows that roll down, float
dollar notes for school fees.

The Book Café is closed, for fear
of revolutionary activity,
and Mannenburg’s is shut down too –
all that jazz is quite suspicious.
The black streets rock
with drunken combis; restaurants
have sprung up in the tranquil gardens
of private homes, and look,
there’s furniture, clothing, trinkets.

On New Year’s Eve, the town feels empty;
friends have headed to Vic Falls,
taken off for Mozambique. But in this bar,
-to an African beat, hips and buttocks sway boisterously.
A Roman candle spurts for half an hour,
like sporadic, bent-over laughter. Rain brings frogs
and lulls the crickets, and scents swirl in and then
there’s no electricity. You’d think there was a war,
or sudden peace, for all the expectation.

The drive across an unlit town,
son riding shotgun for protection.
A pre-dawn skinny dip among the frogs.
No lights; no water from the taps.
A solitary plane at the airport. But there are diamonds
and cutters and polishers and smugglers
and dealers right next to Econet and Buddy.
There are diamonds.
There are diamonds and bodies.

 *

Sulle suole dei loro piedi

L’osservo, questa vita di Harare
che ho lasciato: nuove extension per i capelli,
tacchi e visi luminosi, corpi da modelle;
le guardie private, con i loro manganelli, che guidano
Mercedes bianche a cavallo delle corsie; crepe nell’asfalto,
riempite ogni ora da ragazzi di strada
che rubano i mattoni rossi dai muretti dei giardini;
finestre scure che si chiudono, fluttuano
dollari in banconota per le rette della scuola.

Il Book Café è chiuso, per timore
di attività rivoluzionarie,
e neanche Mannenburg è aperto –
tutto quel jazz è piuttosto sospetto.
Le strade scure ondeggiano
di combi umbriachi; dei ristoranti
sono spuntati nei tranquilli giardini
di case private, e adesso guarda,
ci sono mobili, vestiti, chincaglieria.

L’ultimo giorno dell’anno, la città si sa deserta;
gli amici si sono diretti verso Vic Falls,
sono volati in Mozambico. In questo bar, però,
fianchi e natiche si dimenano con impeto secondo un ritmo africano.
Un bengala zampilla per mezz’ora,
come una risata sporadica, a stento repressa. La pioggia porta le rane
e culla i grilli, e i profumi entrano in un vortice e poi
viene a mancare l’elettricità. Penseresti che ci sia una guerra,
o una pace improvvisa, per tutte queste aspettative.

Il tragitto in auto attraverso una città non illuminata,
il figlio che porta un fucile a protezione.
Prima dell’alba un bagno a corpo libero tra le rane.
Nessuna luce; non c’è acqua nei rubinetti.
Un aereo solitario all’aereoporto. Ma ci sono diamanti
e intagliatori e lucidatori e contrabbandieri
e spacciatori proprio accanto a Econet e a Buddy.
Ci sono diamanti.
Ci sono diamanti e corpi.

 

Note alla traduzione

Il riferimento del titolo originale è alla canzone Diamonds on the Soles of Her Shoes di Paul Simon, contenuta nell’album “Graceland” (1986).
L’espressione “all that jazz” (v. 13) è un gioco di parole intraducibile in italiano, perché significa “tutto quel jazz” e, allo stesso tempo, “tutto quel caos”.

Sergio Rotino


In copertina: Afric McGlinchey (Fonte: Double Shot).

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