Pseudo-recensione (fuori tempo massimo) de “Le ripetizioni” – My encounters with Giulio Mozzi

di Lorenzo Galbiati

 

Il Gas: Buongiorno, Galbiati. Come mai hai voluto che fossi proprio io a intervistarti sul libro “Le ripetizioni” di Giulio Mozzi [d’ora in avanti “il Mozzi”]?

Il Galbiati: Perché tu sei l’amico confidente di Mario, il protagonista del romanzo. E i vostri dialoghi sono le parti che più ho apprezzato del libro. In realtà, ce ne sono molte altre che mi sono piaciute, a partire dai rapporti di Mario con le sue donne: Viola, Bianca, Agnese.

Il Gas: Ah! Non mi parlare delle donne! Mario crede che possano essere artiste, figurati. “Una donna che scrive poesie, cosa vuoi che combini”?

Il Galbiati: Ecco, il rapporto del Mozzi con l’arte è ciò che più mi affascina della sua narrazione. Il romanzo è infarcito di dialoghi e situazioni in cui si palesa l’approccio mozziano verso la letteratura.

Il Gas: Sii più preciso: a cosa ti ha fatto pensare la lettura de “Le ripetizioni”?

Il Galbiati: All’attitudine tassonomica dell’autore, che avevo già scorto su internet imbattendomi nel Mozzi blogger, senza però comprenderla appieno – senza apprezzarne il valore euristico. Con questo romanzo, il Mozzi è riuscito a trasporre compiutamente in letteratura l’esercizio tassonomico sulla lingua cui si sta dedicando da decenni.

Il Gas: Cosa intendi dire?

Il Galbiati: Per risponderti dovrei andare a ritroso, parlarti dei miei incontri internettici con il Mozzi. Potrebbe scaturirne un lungo sproloquio senza capo né coda. Non vorrei farti venire l’emicrania.

Il Gas: Parlamene, invece! L’emicrania è “il sintomo dell’avvicinarsi di uno stato di Grazia”.

Il Galbiati: Ebbene, torniamo indietro nientemeno che al 2004. Fu l’anno in cui scoprii il blog letterario Nazione Indiana – da allora, per un decennio, diventai uno dei suoi commentatori più assidui. Tra i primi articoli che lessi ce n’era uno dal titolo: “Attuali tendenze della narrativa italiana (viste dal buco della serratura)”1 ed era scritto da un redattore chiamato Giulio Mozzi, nome che a me non diceva nulla, essendo io a digiuno di conoscenze in campo letterario. L’incipit dell’articolo era il seguente: “Il mio mestiere è leggere. Circa l’ottanta per cento delle pagine che leggo sono pagine dattiloscritte. Circa l’un per cento dei dattiloscritti che leggo vengono poi letti anche da qualcun altro. Circa l’uno o due per mille dei dattiloscritti che leggo vengono poi pubblicati da un editore che li manda in libreria.” Nota la stringatezza della scrittura, Gas, la sua essenzialità combinata con il procedere tipico delle chiavi dicotomiche della biologia, ossia dell’algoritmo binario! Il Mozzi parte dal mestiere di leggere e arriva a dire, nel giro di tre righe, che l’uno per mille dell’ottanta per cento di quel che legge viene pubblicato. Meraviglia!

Il Gas: Il Mozzi dev’essere un uomo con un destino preciso. “Un uomo che ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di piegare tutta la sua vita, e la vita di chiunque gli capiti a tiro, alle esigenze dell’arte.” Dimmi, cosa scriveva nel suo articolo?

Il Galbiati: Forniva una lista di quelle che considerava le dieci preminenti tendenze della narrativa italiana, con tanto di descrizione sinottica delle peculiarità di ogni tendenza. Vuoi l’elenco? Eccolo: scrittura maschile, romanzo giovanilista, romanzo epistolare, narrativa d’anticipazione, narrativa del delitto, narrativa fantastico-paradossale, romanzo storico, narrativa memoriale, narrativa siciliana, narrativa meridionalista. Nota che il Mozzi già allora segnalò il trend positivo dell’offerta di romanzi storici, infatti scriveva: “Se ne vedono pochi, ma più oggi che qualche anno fa.”

Il Gas: Come reagirono i commentatori di Nazione Indiana a questo articolo del Mozzi?

Il Galbiati: All’inizio, con mia sorpresa, molti storsero il naso. Troppo pretenzioso, troppo classificatorio. Troppi confini tracciati, troppi limiti alla fantasia e all’estro degli aspiranti scrittori, che si credono (quasi) tutti degli artisti originali, unici, impermeabili alle mode del momento. Io, a un certo punto, presi coraggio e scrissi: “Di fronte a tanti commenti pieni di livore, vorrei solo dire a Mozzi che ho trovato molto interessante il suo articolo.”

Il Gas: Da allora diventasti amico del Mozzi? È bello avere un amico, meglio ancora se un amico benefattore.

Il Galbiati: No, il Mozzi non mi notò. E qualche anno dopo uscì da Nazione Indiana. Ebbi modo di leggere altri suoi articoli, ma non sempre mi convinsero. Non riuscivo a trovare il filo conduttore della sua produzione internettica. Insomma, mi sfuggiva il bandolo della matassa, ciò che permeava i suoi scritti. Notavo soprattutto la sua precisione, che spesso deragliava – o si perfezionava? – fino a lambire la pedanteria.

Il Gas: Quando scopristi la sua attitudine tassonomica?

Il Galbiati: Più che scoprirla, ci andai a sbattere. Fu uno choc. Devi sapere che in rete ero un rompiballe. Un vero martello, che costringeva gli scrittori dei blog letterari a rendere conto del loro impegno intellettuale nella società e della loro capacità di dialogo con i commentatori. Credevo che, con l’avvento in politica del monopolista dell’informazione e dell’editoria, ogni intellettuale libero degno di questo nome avrebbe dovuto battersi per creare spazi ai nuovi scrittori, favorire il pluralismo informativo e condannare, boicottare, sabotare l’apparato di potere che sovrastava l’Italia e metteva in pericolo l’esercizio della partecipazione democratica. Sostenevo il boicottaggio della Mediaset e di Mondadori, e propugnavo la non-collaborazione con ogni giornale o rivista che facevano capo a Berlusconi. Ero in preda a questo fervore militante quando lessi su Nazione Indiana (era il 2010) l’intervista di Mozzi riguardante la responsabilità dell’autore2.

Il Gas: Questa introduzione non prelude a nulla di buono. Perdonami se accendo un sigaro, ma mi devo rilassare. [Il Gas fa tre succulente boccate di sigaro] Ecco, ora va meglio. Sono pronto a sapere cosa disse il Mozzi.

Il Galbiati: In quell’intervista, firmata con il nome collettivo di Nazione Indiana, si ponevano domande importanti scritte, purtroppo, in modo sciatto o generico. Il Mozzi non poteva tollerarlo e diede delle risposte caustiche, volte a evidenziare il costrutto sintattico delle domande. Per esempio, alla domanda: “Ti sembra che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria freni in qualche modo l’apparizione di opere di qualità?”, il Mozzi rispose: “Mi sembra che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria freni, per ovvie ragioni, la pubblicazione presso case editrici caratterizzate da una tendenza verso un’industrializzazione crescente di opere adatte a essere pubblicate da un’editoria caratterizzata da una tendenza verso un’industrializzazione crescente […].” Non male, eh? Alla domanda cruciale dell’intervista: “Nella suddetta evidente crisi della nostra democrazia, ti sembra che gli scrittori abbiano delle responsabilità, vale a dire che avrebbero potuto o potrebbero esporsi maggiormente e in quali forme?” il Mozzi rispose in modo enigmatico (parabolico?): “Ogni cittadino è responsabile del governo della città. Quanto al resto, vale la parabola dei talenti: chi ha avuto in dono un talento, e lo ha seppellito per non farselo portare via, è da licenziare.”

Il Gas: Mi hai dato una suggestione. Dovrei dipingere un quadro sulla parabola dei talenti. Quasi quasi ci inserisco anche la Madonna, che ne dici?

Il Galbiati: Non so se il Mozzi approverebbe l’accostamento Madonna/Talenti: mi sembra alquanto forzato. È pur vero che tu sei un artista, e a un artista dovrebbe essere consentita ogni libertà nell’atto creativo. A proposito, sai perché il Mozzi, ops!, volevo dire Mario, ti chiama il Grande Artista Sconosciuto? Perché un artista è tale indipendentemente dalla diffusione delle sue opere. In quell’intervista, il Mozzi sostenne che: “Sono «scrittori» tutti coloro che hanno scritto una cosa qualunque, e l’hanno finita, con l’intenzione di fare una di quelle cose che vengono normalmente catalogate (ad es. dal punto di vista merceologico) come «letteratura». Che poi quella cosa qualunque sia stata pubblicata o no, sia considerata bella o no, eccetera, è irrilevante.” Vedi, tu sei un artista perché hai prodotto molte opere pittoriche, poco importa che nessuno lo sappia.

Il Gas: Non saprei dire se sono un vero artista. C’è molta amatorialità nei miei quadri. Ma torniamo al tuo incontro-scontro con l’attitudine tassonomica del Mozzi. Perché hai detto che fu uno choc?

Il Galbiati: All’epoca reagii in modo feroce alle risposte del Mozzi. Nei commenti del blog lo attaccai violentemente. Secondo la mia opinione d’allora, il Mozzi si era impuntato sul fare le pulci alle domande e, in questo modo, aveva spostato l’attenzione dal contenuto delle risposte – ossia dalle modalità con le quali l’autore si assume la sua responsabilità – alla forma delle domande. Il rigore, l’insistenza con cui il Mozzi perseguiva il suo obiettivo tutto letterario furono sconvolgenti. È pur vero che oggi gli riconosco una grande lungimiranza. Le sue risposte, per quanto indisponenti e al limite della parodia, erano effettivamente puntuali, rispettavano la consegna delle domande. E la sua principale richiesta a Nazione Indiana era formalmente ineccepibile. Mi riferisco alla prima domanda del questionario: “Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?” alla quale il Mozzi rispose: “Non mi risulta che vi siano dei critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Forse sono poco informato. Posso avere una bibliografia?” Da lì nacque un lungo botta e risposta con i redattori di Nazione Indiana. Mozzi voleva l’elenco dei critici. Gli “indiani” risposero a livello individuale, in ordine sparso, fornendogli soltanto un alcuni nomi. Mozzi reclamò perché pretendeva una risposta a nome di Nazione Indiana, ossia dello stesso soggetto estensore dell’intervista. Seguì una lunga querelle. Gianni Biondillo scrisse un articolo intitolato “La (mia) risposta a Giulio Mozzi”3. Non gli bastò. Il Mozzi contrattaccò: scrisse un contro-questionario su Vibrisse4, il suo blog, nel quale la sua vis polemica, unita alla pedanteria, arrivò a palesarsi fino a formulare domande che, se prese sul serio, avrebbero portato a riscrivere il vocabolario della lingua italiana prima di poter rispondere (“Qual è il preciso significato che essa [Nazione Indiana] assegna qui al verbo «sostenere»? […] Con quali criteri Nazione indiana distingue chi è «scrittore» da chi non è tale? […] Qual è il significato preciso che essa [Nazione Indiana] assegna all’aggettivo «opportuno»?”). Al suo contro-questionario risposero, tra gli altri, Helena Janeczek, Andrea Cortellessa, Giacomo Sartori e Andrea Inglese. Ma il Mozzi non era ancora soddisfatto e terminò la contesa scrivendo: “Credo che Nazione indiana dovrebbe rispondere come Nazione indiana, e in Nazione indiana, alla “controdomanda” che ho posta a Nazione indiana in Nazione indiana”. La querelle finì per… direi esaurimento fisico e mentale dei contendenti.

Il Gas: Capisco perfettamente, infatti dopo aver ascoltato questo racconto temo che l’emicrania sia arrivata alle porte della mia mente. Ma torniamo a te, Galbiati. [Il gas si fa altre due boccate di sigaro] Eri molto arrabbiato con il Mozzi?

Il Galbiati: Ero arrabbiato in generale con gli scrittori. E per la verità sono convinto ancora oggi che la crisi culturale (non dico partitica) della Sinistra sia dipesa anche dalla mancanza di impegno fattuale degli scrittori che si ergevano a intellettuali di Sinistra. Mi sembrava di avere a che fare con una (piccola) lobby che passava molto tempo a guardarsi l’ombelico. Riconoscevo al Mozzi la volontà di voler mettere ordine, in un certo senso, alle iniziative che quella lobby avrebbe potuto mettere in atto per incidere nella società civile. Ma il suo rigoroso esercizio sulla lingua rischiava di rendere difficile la comunicazione con gli altri scrittori e con i commentatori anche quando tutti avevano compreso di cosa si stava parlando.

Il Gas: Ciononostante, sei ancora qui a discettare sull’attività letteraria del Mozzi e sul suo rapporto con l’arte. Insomma, non smettesti di seguirlo. Cosa ti spinse a rivolgerti ancora a lui?

Il Galbiati: Suppongo sia dipeso da due fattori, uno strutturale e uno contingente. Quello strutturale risiede nel fatto che grazie alla mia formazione scientifica non sento come estranea alla mia forma mentis la spinta sistematica a cui attinge l’attività letteraria del Mozzi. Anzi, so che potrei essere molto pedante, se lo volessi (chissà, forse lo sono anche senza volerlo). Quindi, riconosco l’approccio del Mozzi come parte del mio bagaglio conoscitivo. Può risultarmi talvolta – in realtà oggi sempre più raramente – eccessivo o non funzionale alla situazione, ma mai estraneo, mai del tutto inutile o fuori luogo. L’aspetto contingente risiede nel fatto che scoprii l’atto rivoluzionario che contraddistingueva il lavoro del Mozzi: era l’unico scrittore/editor/redattore che leggeva gratuitamente – per conto di una casa editrice – tutti i dattiloscritti che gli venivano spediti.

Il Gas: Ah! Sei un artista anche tu! Dovrei farti vedere il mio dipinto che Mario ha paragonato alla “Nascita di Venere” di quell’imbrattatele del Botticelli. Scommetto che ti piacerebbe.

Il Galbiati: Non saprei. Voglio dire, non so se mi piacerebbe il tuo dipinto e non so se sono un artista. Forse un artigiano. So che dopo aver scritto la prima parte di quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo (“A occhi aperti”, Zona editrice, scritto con lo pseudonimo Jean Aquaviva) volevo sapere come funzionava il meccanismo dell’asfittico mondo dell’editoria. Trovai su Vibrisse (era il 2011) un post dal titolo: “Istruzioni per mandare opere dattiloscritte a Giulio Mozzi”5 dove il Nostro dialogava con gli aspiranti scrittori. Fu lì che incrociai Gian Marco Griffi, in questi giorni in libreria con il suo “Ferrovie del Messico”, pubblicato nella collana “Fremen” di Laurana, diretta da Giulio Mozzi. L’ha scoperto lui, tramite i commenti al suo post! Commenti continuati per anni anche con il sottoscritto. Il Mozzi mi spiegò che le opere letterarie sottostavano a giudizi estetici, così come le altre opere d’arte. Un dipinto, una sinfonia, un film, un libro possono essere belli oppure brutti (con tutte le sfumature intermedie del caso). Non ha senso dire: “è un buon romanzo” o “è un grande romanzo”, la parola giusta è bello. Anche in questo caso, il Mozzi stava praticando il suo esercizio – estetico e tassonomico – di cernita delle parole. Poco importava che tutti capissero cosa intendevo dicendo “buon romanzo”: buono non era la parola giusta. Valeva la pena portare avanti questa battaglia linguistica sull’accuratezza nella scelta delle parole, nonostante complicasse la comunicazione? Direi di sì. Da allora ho adottato l’algoritmo binario bello/brutto per esprimere il mio giudizio su libri, dischi e film.

Il Gas: Galbiati, la domanda a questo punto viene spontanea: come valuti il romanzo del Mozzi? Lo consideri un’opera bella?

Il Galbiati: Non mi sento nella posizione di dare un giudizio. Non sono un critico letterario. La mia ignoranza in fatto di letteratura contemporanea, neo-moderna o post-moderna, è troppo vasta per poter esprimere una valutazione ponderata, che non sia frutto dei miei gusti. Posso dirti che, in qualità di lettore e scrittore, scorgo nell’opera del Mozzi una bellezza austera, severa – a volte spietata. Oltre a una grande maestria nella struttura della narrazione, nel “montaggio”, come direbbe lui. Devo aggiungere che, per lunghi tratti del testo, la puntigliosità che permea la sua scrittura rende difficile evocare la bellezza perché, quando è associata a contenuti osceni o violenti, risulta disturbante. Le scene di sesso sado-maso con Viola protagonista possono risultare belle? Le scene (tutte o quasi) con Santiago possono risultare belle? Mi hanno fatto pensare all’opera di Pasolini, in particolare all’“Appunto 55” di Petrolio o al film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, che ho visto di recente. Una volta terminato il film, non ho certo pensato: “Che bello, voglio rivederlo!” Eppure, è un’opera notevolissima e di grande rigore estetico. Ma: bella? Se è bella, è la bellezza dell’orrido – e del rigore. E con l’orrido bisogna fare attenzione a non essere troppo auto-indulgenti, sennò si finisce con l’impressionare superficialmente anziché colpire in profondità, arrivare all’anima.

Il Gas: Dove si scorge l’anima, o meglio, il destino del romanzo “Le ripetizioni”?

Il Galbiati: Nel primo capitolo, “La storia del bosso”, dove si trovano due pagine, la 14 e la 15, che sono un inno alla tassonomia. Mario ci spiega quanto si commuova a girovagare nell’Orto botanico, “con tutte quelle piante talune fragilissime, talune antichissime […]  ciascuna accompagnata da un cartellino di ceramica elegantemente compilato in corsivo inglese […] recante non il nome proprio di quell’erba o di quella pianta o di quell’arbusto o di quell’albero […] bensì il nome della specie.” Nota che la commozione di Mario deriva direttamente dalla conoscenza del nome della specie di pianta osservata, pianta che il Mozzi, con pedante precisione, cataloga come erba o arbusto o albero (e in effetti in botanica le piante a fiore [angiosperme] sono suddivise in erbacee, arbustive o arboree, a seconda della grandezza del fusto – il termine “pianta” è invece generico). Oppure, per fare un esempio apparentemente distante da questo, considera come il Mozzi, dopo aver descritto le tre vite segrete di Mario, ricapitola a pagina 196 la sua situazione sentimentale (esistenziale?): “La scelta di Bianca esclude tutto, la scelta di Santiago esclude Bianca ma non Viola, la scelta di Viola non esclude niente. Se scegliesse Viola Mario potrebbe continuare a uccidere cani con Santiago, e potrebbe continuare a vedere Bianca e Agnese.” Siamo nel campo della logica matematica, potremmo rappresentare questa narrazione tramite grafici con le frecce.

Il Gas: Da cosa deriva questa attitudine tassonomica del Mozzi?

Il Galbiati: È difficile stabilirlo. Possiamo solo ipotizzarlo dagli indizi che il Mozzi dissemina nei suoi scritti, indizi forse inconsci. Per esempio, a pagina 15 si legge che “La vita delle piante nell’Orto, delle piante sottratte a forza – ovvero per curiosità scientifica, per perversione collezionistica, per tassonomico horror vacui – […] non tanto diversa è, continuava Mario, dalla vita dei morti fasciati nelle casse, stoccati nei colombari, bene allineati e catalogati […].” Ne consegue che l’interesse mozziano per la tassonomia potrebbe derivare, in ultima analisi, dal terrore del vuoto. Il Mozzi anela a conoscere per distinguere, suddividere, collezionare, stoccare, allineare, insomma mettere bene in fila gli oggetti (siano essi inanimati o animati: piante, cani, corpi umani), occupando tutti gli spazi, in modo da combattere l’horror vacui.

Il Gas: [Spegnendo il sigaro, ormai finito] In quale punto del romanzo si raggiunge il vertice di questa peculiare arte narrativa?

Il Galbiati: A mio parere, ne “La storia della pelle” il Mozzi sfiora le altezze raggiunte da Edwin A. Abbott in Flatlandia (“Flatland: A Romance of Many Dimensions”), un capolavoro dell’età vittoriana. Il pezzo ricorda, a livello di struttura della scenografia, l’incontro del quadrato, ossia di un essere che vive nelle due dimensioni, con la sfera, entità tridimensionale. Il Mozzi-Abbott costruisce un dialogo dove un bambino incontra le parole: “Noi siamo le parole.” “Che cosa sono le parole?” “Le parole sono tutto.” “No. La sfera-mondo è tutto.” “La sfera-mondo non è tutto, perché noi siamo fuori dalla sfera-mondo.” “Non è vero. Voi siete dentro la sfera-mondo perché io vi sento.” (Pagina 347) Meraviglia!

Il Gas: Ascoltandoti sono andato vicino allo stato di Grazia. Mi sembra di aver intravisto la Madonna – fotografica, s’intende. Percepisco in me un “sentimento nascente”. Dovrei dirlo a Mario, che mi considera un uomo senza sentimenti. A proposito, conosci Papa Francesco? Mi piacerebbe dipingere un suo ritratto – proverei il mio più grande sentimento.

Il Galbiati: Gas, sei proprio un Perelà.

Il Gas: Sono un povero Cristo, lo so, Mario me lo dice sempre. Ma non mi suiciderò. E non finirò morto in croce.

Il Galbiati: Ne sei sicuro? Tu sei un artista. E come ogni artista sei mosso dalla sofferenza. “Non si è creativi se non si ha bisogno di creare, e se non c’è una specie di mancanza, una ferita, diciamo così, da comporre, da risolvere. […] La creatività è accompagnata da sofferenza. Sacrificio. E cos’è “sacrificio”? Sacrum facere, deriva da sacrum facere, rendere sacro quello che si fa”.

Il Gas: È proprio grazie all’arte che mi salverò. Non voglio abbandonarmi, arrendermi alla sofferenza. Voglio ricomporla, darle un senso rappresentandola nei miei dipinti.

Il Galbiati: Ed è quello che fa il Mozzi ne “Le ripetizioni”. La sua attitudine tassonomica altro non è se non lo strumento principe con il quale vuole arrivare a ricucire le sue ferite, a colmare la mancanza che lo spinge a scrivere. Sceglie una via impervia, quasi castigata, quella del bisturi tassonomico, che già in sé trasuda austerità, fatica, sacrificio – la forma è sostanza – per vivisezionare la vita con scrupolo scientifico e giungere all’arte senza scorciatoie, senza grossolane semplificazioni. E lo fa raccontando una storia drammatica, dove la sofferenza è sempre in primo piano, dove si è immersi nella lotta tra il bene e il male.

 

Adesso, basta. 

 

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3 pensieri su “Pseudo-recensione (fuori tempo massimo) de “Le ripetizioni” – My encounters with Giulio Mozzi

  1. Ringrazio Lorenzo Galbiati.
    Una nota: la frase ““Non si è creativi se non si ha bisogno di creare”, eccetera, nel romanzo non è attribuita né al narratore né al personaggio che evidentemente Galbiati ha ritenuto di considerare in certa misura portatore della mia visione del mondo. Nella realtà, si tratta di una frase di Franco Vaccari (artista che esiste realmente, e compare nel romanzo come personaggio – quindi come oggetto finzionale) ricavata da una sua conferenza reperibile in YouTube.

  2. In effetti la frase compare nel testo tramite la voce, che Mario sente alla radio, “di un uomo di una certa età, con un pesante accento emiliano” (pagg. 219-220). Poiché quest’uomo cita il pensiero di un personaggio pubblico (il Nobel Richard Feynman) inerente alla creatività, ho pensato di poterne prendere possesso. Anche perché mi piace.

  3. Che bella quest intervista immaginaria
    Mi fa venir voglia di trovare e leggere il libro di cui si parla 🤓🤓❤

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