Nicola Gardini, “Tradurre è un bacio”, Landolfi Editore, 2015 – di Mario De Santis

di Mario De Santis

tradurre

“Tradurre è un bacio” è un libro singolare e ricco di complessità letteraria. E’ un libro di poesie, innanzitutto, ma è anche un non-trattato, una presa di posizione (Gardini nella nota parla proprio di “saggio” benché anomalo “sul tradurre e sulla grande metafora che il tradurre è diventato”). Gardini dunque usa la versificazione, il dettato del poeta, e si pone in quella che è e resta inevitabilmente un posizione lirica di tutta la poesia moderna: esprime, cioè, una concezione linguistica del soggetto e a partire da questo, il soggetto misura il mondo, lo rappresenta nella sua arbitrarietà della rappresentazione formale. “Tradurre è un bacio” va letto dunque come un viaggio metaforico dentro la questione del tradurre, e di conseguenza va letto come un libro di poesie che parla del linguaggio e della poesia medesima. Un’opera metaletteraria, certo, ma come tutta la poesia che parla di sé, proietta anche un modello di mondo e valori di interpretazione del reale.

Secondo la terminologia filosofica deleuziana, si potrebbe dire che questo libro è un dispositivo. Non esaurisce infatti nessun genere letterario e nessuna categoria che pure ingloba. Apre continuamente questioni in fieri le evidenzia, le trasforma (oltre che argomentarle) nel corpo del testo medesimo. Abbiamo detto è un non-trattato perché la posizione di Gardini, già espressa in altri suoi libri saggistici, contro la traduttologia e contro il postulato di quella concezione che la traduzione vera sia impossibile e che tradurre debba essere un mero atto di trasposizione di servizio, viene qui affrontata in modo diretto ma pure come metafora, aggirando però la risposta teorica, adottando invece il registro della poesia, le sue ambivalenze, la sua polisemia, a partire dal titolo metafora: tradurre è un bacio. Insomma Tradurre è sempre possibile esattamente come fare poesia, esattamente come esprimere sé stessi.

Naturalmente è ben consapevole dei limiti tecnici della traduzione (la poesia sarebbe proprio quel che si perde in una traduzione, secondo il famoso assioma di Robert Frost) , anche tecnicamente, della tessitura linguistica, ma Gardini fa poesia per ribadire anche su quel piano tutta la possibilità che ha il linguaggio comunque di dire. E’ l’atto del dire: o del tra-dire/tradurre che fa il senso proprio perché anche in una poesia il senso è spesso pescato in una aleatorietà iperlinguistica (“il senso è nel costrutto” scrive in un verso Gardini e questo vale sia per la poesia tradotta che per l’originale, non è necessario ci siano tutti i dettagli lingustici e semantici) in un intreccio non sempre riducibile alla sua destrutturazione formale. Per questo, di fatto, Gardini scrivendo “Tradurre è un bacio” fa poesia, in prima istanza, affermando che quella coscienza linguistica del soggetto è sempre in atto, è sempre tesa a a leggere il mondo, a dirlo, tradurlo, e con questo produce una visione e un senso irriducibili.

Di fatto, “Tradurre è un bacio” è un atto di fede e fiducia nella parola, ma non nel suo senso simbolista-romantico assoluto. La parola non è un unicum immodificabile, ma sta nel senso aumentato anche di un dialogo, tra traduttore e creatore innanzitutto. Nel 1975 George Steiner parlò dunque di necessità – da parte del traduttore letterario – di “rivivere l’atto creativo” che aveva informato la scrittura dell’“originale”, aggiungendo che la traduzione, prima di essere un esercizio formale, è “un’esperienza esistenziale”. Così è per Gardini: “escono dal cuore/ Al cuore le riporta il traduttore”. Addirittura verso la fine fa azzardare un’inversione dei ruoli un sogno borgesiano : la traduzione.. ”E se venisse prima, come l’ombra del topo?” – se la copia esatta del Chisciotte scritta da Pierre Menard, fosse in realtà l’originale o fosse effettivamente un’opera originale? Di fatto lo era….

Tradurre non è ridire

Una cosa in una lingua straniera

La cosa resta dov’era

Tradurre infatti è capire

C’è un cavo della coscienza dove alberga il senso anche prima che si trasformi in parola. La comprensione di noi stessi passa anche per una riflesisone su dove possa risiedere quel “noi stessi”. E’ quello il punto sospeso che è in gioco anche quando il poeta crea, e a sua volta “traduce” qualcosa dall’indistinto sé, traduce il suo stesso sguardo sul mondo. Se così il poeta, lo stesso il traduttore. Scrive Gardini :“la traduzione è figlia” nel senso che è una riproduzione genetica dell’originale, appartiene tuttavia alla stessa germinazione (dovessimo azzardare un paragone, siamo qui nell’ambito della fecondazione artificiale o nella clonazione) attingendo a una materia comune che non è la materia linguistica delle lingue che si riversano una nell’altra:

Ho sognato la lingua del tradurre

Era fatta di forme nuove e oscure

Come un latino che non ricordassi

Ecco, qui c’è il cuore non solo della questione traduzione, ma c’è il nucleo centrale non solo di cosa sia una lingua per un poeta e che tipo di attitudine di coscienza ha verso il mondo: un’attenzione verso un nuovo che tuttavia è frutto come di una reminiscenza che immemore, ricorda ciò che sta creando o crea il suo stesso ricordo, come se fosse il ricordo. Qui “Tradurre è un bacio” tocca un’idea dell’origine del linguaggio che vuol dire anche una precisa idea del mondo. Ad esempio che non c’è una lingua originaria che non ci sono superiorità di lingue e di popoli, dunque. L’accenno al latino è più e solo un sogno metaforico – dunque anche esso secondario e traslato – e forse allude più ad un bacino di comprensibilità comune. Tutte le poesie si possono tradurre, la traducibilità crea una unica comunità pur nelle diversità. Tradurre è un “capire” un atto critico e mitico insieme. Capire l’altro da noi, ma stare anche dentro una comune “sfera” umana.

Non solo: scrivendo di questa ipotetica Ur-lingua sognata, ma tuttavia assente, nei versi finali di questa poesia Gardini accosta (in rima non a caso) due elementi che relativizzano le lingue storiche del nostro occidente e parte di un universo di segni molto più ampio: “E ancora l’Ho davanti: ideogramma /che non si scioglie, voce della mamma”. Da un lato il diverso sistema degli ideogrammi cinesi (che Gardini sta studiando e al tradurre dal cinese è dedicata un’altra poesia in questa raccolta) che introducono un diverso sistema, grafico non sillabico, da interpretare a sua volta.
Dall’altra parte è evocata una sorta di phoné originaria, a sua volta certamente comune a tutti i parlanti (è la voce della madre) ma che tuttavia è fuori dal linguaggio, dai sistemi linguistici specifici, dunque non ha nessun senso dal punto di vista semiotico. Quella lingua de traduttore sognata, per Gardini diventa l’emblema della possibilità di poter essere, come traduttore, una sorta di madre surrogata di una comune maternità allargata, perché come la poesia anche la traduzione crea quello stesso accrescimento connotativo di senso dell’originale.

“Tradurre è un bacio” è un libro che si struttura con un solido impianto allegorico che ricorda anche nella scelta, anche della misura dei versi e nell’uso della rima, soprattutto il modello di Giorgio Caproni (si evoca anche “una bestia che traduce” ad un certo punto). Come il poeta livornese costruiva un’architettura metaforica (la Caccia o Res Amissa, dispiegando il discorso dei versi attraverso la musica e i rimandi lessicali) anche Gardini sfiora con la metafora della traduzione, le questioni metafisiche del linguaggio del resto inevitabili visto che siamo dentro un rimando a specchio, da parole a parole : esso è radicato in noi? c’è una originarietà del linguaggio nella coscienza o i parlanti usano un costrutto solo storico? Il linguaggio e l’astrazione di una forma artistica sono un bisogno naturale? Gardini sembra alludere ad una possibilità di radice (“la traduzione è un punto del cervello / dove stanno le cose senza nome”) una sorta di luogo comune del logos che sta prima del logos, anche se tutto sommato negativo, ovvero senza nomi.

La questione resta sullo sfondo, quello che preme dire a Gardini è che però le parole vivono per dar vita ad altre parole e tutte assieme vincono sul niente, sul vuoto del silenzio. Ecco allora una visione quasi politica della lingua: la vera libertà è babele, e forse la sognata lingua unica per tutti sarebbe una prigionia. Di questa libertà del linguaggio e del tradurre è emblematico il richiamo al sesso (tra tradurre e sesso “ci deve essere un nesso” scrive Gardini in uno dei suoi ambivalenti epigrammi.

L’eros del resto è il primo territorio della coincidenza degli uguali come nel bacio: “tra due lingue” si crea una sola saliva, siamo tra due eguali. Al netto degli errori e dei limiti evidenti specie per la metrica e per la rima, resta chiaro che per Gardini il tradurre e la meta-letterarietà escono dal loro guscio. Nel libro Gardini azzarda anche un gioco di rimandi di identità e politica, o biopolitica : “I traduttori sono spesso gay/ O donne sole. E tu lo sai chi sei?”. Ecco che appare sullo sfondo che Tradurre è un confronto tra identità, ma ha bisogno che ognuno metta in discussione la propria. E tradurre è di fatto anche un trasporto: erotico o metaforico (tradurre, trasportare, metaphorein) è lo steso fare della poesia che fa la traduzione, il traduttore è fratello eterozigota del poeta. Clona, feconda. Pone la vita. Anzi, la traduzione ideale è proprio “copiare l’originale”.

Gardini punta a tenere lo sguardo fermo non tanto sul dispiegamento semiotico, il grafema in cui si esplicita (ma si può tradurre in molti modi e lingue, si fanno errori, molte cose si perdono altre si guadagnano, è sempre un incontro). Quello che però rende possibile tutto questo dispendio che ha anche molto ritorno è il gesto, ma è il gesto primario che ci porta ad uscire da noi e dal nostro guscio muto: sempre lo stesso, come fu quello dell’uomo cacciatore di bufali che decise di astrarre quella preda in una rappresentazione sul muro. Perché tradusse l’oggetto della sua caccia in dipinto? Quel gesto di insorgenza della rappresentazione, quella che è stata dunque la prima traduzione di un informe in una forma, sembra proporre Gardini, è quel che ancora oggi ci rende umani e ci fa rimanere tali.


In copertina: Nicola Gardini  (Foto: © Carlo Bevilacqua 2015).

Un pensiero su “Nicola Gardini, “Tradurre è un bacio”, Landolfi Editore, 2015 – di Mario De Santis

  1. Grazie Gianluca per questa bellissima sintesi di un argomento così complesso. Nelle parole di Gardini mi ritrovo in toto. Molte delle cose che dice sul tradurre le ho dette spesso anche io. Per me tradurre è un atto d’amore, oltre che di conoscenza: dell’autore, del testo e di se stessi. E in fondo, amore e conoscenza sono la stessa cosa.

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