Claudia Ruggeri

a cura di Pasquale Vitagliano

Claudia Ruggeri nacque a Napoli nel 1967 da madre napoletana e da padre leccese.  Nel 1968, si trasferì, con la famiglia, a Lecce dove visse fino alla fine. Muore suicida a Lecce nel 1996. Il Lamento della sposa barocca, octopus, tratto dalla raccolta “Inferno minore” curata da Mario Desiati ed edita nel 2007 da peQuod rappresenta una delle vette della sua poesia.

Testi

lamento della Sposa barocca (octapus)

t’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
-sentite ruvide come cadono-; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
t’avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.


il Matto I (del buco in figura)

Beatrice
“vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa…” (Pg. XXX-64)

come se avesse un male a disperdersi
a volte torna, a tratti
ridiscende a mostra, dalla caverna risorge
dal settentrion, e scaccia
per la capienza d’ogni nome (e più distratto
ché sempre più semplice si segna ai teatri,
che tace per rima certe parole….).

Ma è soprattutto a vetta, quando buca,
dove mette la tenda e la veglia
tra noi e l’accusa, se ci rende la rosa
quando ormai tutto è diverso che fu
il naso amato l’intenzione, che era
la pazienza delle stazioni e la rivolta… e la beccaccia
sta e sta sforma il destino desta l’attacco l’ingresso disserta
la Donna che entra e fa divino ed una luce forsennata
e nuda, e la mente s’ammuta ne la cima
e la distanza è sette volte semplice e il diavolo
dell’apertura; ecco, chiediti, come il pensiero sia colpa

ma cammina cammina il Matto sceglie voce
sa voce, e sempre più semplice chiama, dove l’immagine
si plachi sul tappeto, se dura, se pure trattiene
stranieri nuovi e quanto altro
s’inoltrerà nella carta fughe falaschi lussi
Ordine innanzi tutto o la necessaria Evidenza che si di
verte nella memoria al margine ambulante alla soglia
acrobata, che si consuma; ché infine
veramente il Carro
avanza, che sia sponda manca porge
il volto antico, che si commette (non la cosa
è mutata ma il suo chiarore; ma a voi che vale,
come si conclude la Figura
dove pare e non usa parole né gesti né impulsi;
come, smisurata, passa, dove l’altro richiamo
nel viluppo della palude festina; e come
per tutto si slarga e frastorna e nulla è mite

(ma voi li turereste mai li nostri fori ?)


 

il Matto II (morte in allegoria)

Ninive
“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei avere pietà di Ninive quella grande città…” Giona 4,10

ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute
ben che siano finte, passeggere

e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega, si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.

(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi, come sviene)


la pena dell’Attore

“se il chiarore è una tregua,
la tua cara minaccia la consuma”
(Eugenio Montale)

è qui che incontro l’ultimo Cattivo, il residuo
rosicchio di semenza, l’antenato Attore; dal precipizio
accanto, il suo spettatore lo trattiene
a un fronte candidissimo; dal vano
che cava e spaventa in tanta mediterranea
Evidenza; da dentro questo volo che caverna rotondo,
maniaco; dal ventre, che scaraventa;
che mostro Balena l’accolga, l’incaglia;
gli dia un esilio vero, un lungo errore


congedo

“Le fer des mots de guerre se dissipe
dans l’hereuse matièere sans retour.”

così dal colmo, ormai, nuoce
il dimandar parenzé, come
il Distrarsi. Lasciatemi
a questa strana circostanza. Qui
so, con il mio amore, e con chiunque
vi arrivi, che a questo inferno minore, tutto è minore; medesimo
è solo il Carnevale. Ahi l’impostura
seguente che riduce che quagiuso nemena.


lamento del Convitato

e quale mai s’invera Canzoniere da questo intentato Io
se al grande giro di attorno, di nada, soltanto mento, spio ?


 

Rispondi