Mariano Bàino

a cura di

Mariano Bàino è nato a Napoli nel 1953. Negli anni novanta è stato tra i fondatori della rivista “Baldus” e del “Gruppo ‘93”. Ha pubblicato di poesia: Camera iperbarica, introduzione di Matteo D’Ambrosio, Bazzano, Tam Tam, 1983; Fax giallo, edizione non venale in cinquanta copie numerate, Nola, “Il Laboratorio”, 1993, poi, Rapallo, Zona, 2001, con una nota di Gabriele Frasca; Ônne ‘e terra (terra con onde). Poesie 1988-89, prefazione di Clelia Martignoni, Napoli, Pironti, 1994, poi, con una nota sempre di Clelia Martignoni, Civitella in Val di Chiana, Zona, 2003; Pinocchio (moviole), introduzione di Francesco Leonetti, Lecce, Manni, 2000; Sparigli marsigliesi (passar d’imago in mago fra i tarocchi), con una nota di Andrea Cortellessa, edizione non venale in novanta copie numerate, Nola, “Il Laboratorio”, 2002, poi Napoli, Edizioni d’if, 2003; Amarellimerick, prefazione di Remo Ceserani, Salerno, Oèdipus, 2003. In prosa ha pubblicato: Le anatre di ghiaccio, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004; L’uomo avanzato, postfazione di Remo Ceserani, Firenze, Le Lettere, 2008; Dal rumore bianco, Napoli, Ad est dell’equatore, 2012.

Testi

giratina vesuviana

né più me lo domando se un mattino
ci rifarà, se un esse emme esse
di un archeologo perso nel vino
chiederà mai ke kosa vi successe

miei pompeiani spompati? al cammino
ke sale al cono, alle antike scommesse
non ritornate? esiste un più vicino
vulcano, ne saliamo le introflesse

scale di lava in ogni istante, il volto
vestito di una calma vesuviana.
c’è una ginestra, ma non sembra molto

lenta, odorata, no, nella sterpezza,
scontenta dei deserti, ha in filigrana
i segni della sete. e la nerezza.

*

sonetto carte postale

ti scrivo mentre aspetto alla stazione
di palinuro-pisciotta il mio treno
locale, che non è un battibaleno,
ma ci si fa con calma colazione,

volendo, e senza stress per il duodeno.
lasciando stare il tema del cafone
(false vuitton, ma niente è di cartone),
trovi ancora chi offre al capotreno

e a tutti i passeggeri un assaggino
di cacio o di caciotta, del salame.
torno da te, dopo un duro confino

di sette giorni. ho scritto. sì.ciarpame.
la sacca di storia lenta, il camino,
non hanno funzionato. e non ho fame.

*

pendentif

infrange tutto quanto è abituale
l’orecchino di corallo, quel rosso
sanguineo che pende, come l’eguale
dell’altro lato, quello che non posso

da qui scorgere. il meno disleale.
nello spaiato oscillare, fra il mosso
serpeggiamento avverto la carnale
iddìa che ancora non svanisce, addosso

il lampo che sprigiona desideri
per due vite che contano soltanto
quando le mani, mobili, travolte,

fermano l’ora, i coralli, leggeri
ai tuoi lobi, leggeri, quasi quanto
le elitre lì fuori in giravolte.

*

il terzo uomo

(al film the third man)

oh, davanti al palais pallavicini
tutta la solitudine di vienna,
e guanti, passi, fiati di assassini
che sfiottano. che vana una transenna,

anna. sul vecchio harry erano chini,
dopo che gli hanno fatto la cotenna
con l’auto, in tre. non due. per i tombini
sotto la josefplatz, nella geenna

delle cloache forse un terzo uomo
ci sale e scende, sa gli sghembi flussi
del secolo. invisibile fantasma,

vive con ombre nella bocca e il miasma
nel fondo dei polmoni. sa i riflussi
di un’epoca che ha il fango come duomo.

*

john cage (4’ 33’’)

né più da corde chiodate disfreni
decibel berci, né usi il fluire
del mondo in una radio e lo incateni
al centro del concerto, quell’unire

gaio i suoni del piano ad alieni
rumori giunti per caso. ogni udire
estinto. né fonismi di autotreni,
né neuma della voce che ha da dire.

monete all’aria, l’alea degli i ching,
non più, né nottee note di beethoven.
afoni paf la pallina di ping

pong, non ondisona sfera, né un dono
d’eco se un goal ha segnato l’eindhoven.
ci assonora il tuo gesto senza suono.
bleu

*

(per peppe ferraro, pittore)

ancora azzurro dall’uomo- pittura,
spiragli aperti in una chiusa stanza,
bocche di lupo, forse, risonanza
di luce, benché rotta, mezza scura.

e questo esiguo filo di scrittura
cosa può dire, un po’ la somiglianza
delle pareti a tane, un po’ la danza
dell’elitra, che forse architettura

disegnerebbe, e si ritrova ali
liquide (il perso olio di un motore
che ha divorato i punti cardinali…

e clo-clo-cloc-chete acque di ore
sgocciate da orologi disleali).
e azzurro ancora. e un inazzurro amore.

*

homeless man

chiuso il tuo chiuso dentro un cassonetto,
conchiglia inconchigliata col suo mollo
fra la calda immondizia, in un brodetto
sapido di primordi, finché il collo

ancora umano, troppo umano, non
lo scannano spirali in giro lento
di un vecchio camion nella notte con
tritarifiuti d’ordinanza. il vento,

folate fredde in mezzo allo sfasciume,
fa volteggiare un po’ di cartastraccia
fra le baracche sul greto del fiume.

il vento. a due spazzini il cuore agghiaccia
con l’urlo che dà in fondo all’infernale
compattatrice. un urlo d’animale.

*

parkour

il salto del gatto e ti aggrappi al muro
nella non candida mattina, dove
spiritale e solo il tuo corpo muove
in rimbalzo, magra molla sul duro

ambiente del rione, su quel muto
ostacolo a pilastro, e i tubi, e i nove
vuoti fra i tetti, e i lampioni. se piove,
il cappuccio della felpa. un canguro

nero, di strada. che plana. sì, erano
avversi i numi al giro della nascita,
ma tu il destino a balzi lo lasci

nel salto stesso, te lo inventi piano
piano sulle ringhiere. ogni tua mossa
sfida tutto lo scritto nelle ossa.

***

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