A cura di Alfonso Lentini
Giuseppe Nicotra è stato un poeta e un artista che meriterebbe maggiore attenzione di quanta ne abbia avuta in vita. Rimasto nell’ombra anche a causa di un suo carattere fin troppo schivo che lo portava a rifuggire da occasioni mondane e penalizzato dall’emarginazione geografica e sociale del suo paese natale (“difficile” agglomerato urbano dell’estremo Sud), non figura in nessuna antologia ed è ricordato quasi esclusivamente dai pochi che in vita lo frequentarono apprezzandone le doti.
Nasce a Favara, in provincia di Agrigento, nel 1938.
Costretto a interrompere gli studi tecnici, tenta di imparare un mestiere. Nel 1964 prende il diploma magistrale, ma non lo utilizza, dedicandosi piuttosto a lavori precari intervallati da lunghi periodi di disoccupazione, che gli provocano disagio esistenziale e crescenti sensi di colpa. Intanto si dedica all’arte e alla letteratura producendo fin da giovanissimo pitture e poesie che conserva, rivede, distrugge.
Negli anni Cinquanta/Sessanta è tra gli animatori di un gruppo di artisti favaresi che pionieristicamente intende portare nella Sicilia più emarginata la ventata innovativa dell’arte contemporanea.
Nel 1968 pubblica con le edizioni Rebellato il volume di poesie “I colpevoli”.
Nel 1970 è uno dei fondatori del Gruppo Ades di Favara che, nel clima della contestazione culturale di quegli anni, seppe collegare la ricerca di alcuni giovani autori locali alle spinte più avanzate che provenivano dalla scrittura “sperimentale” e dalle neoavanguardie (Ades è infatti l’acronimo di Azione di Estetica Sperimentale). Il gruppo opera dal 1970 al 1973 fra Favara, Agrigento e Palermo organizzando happening artistici, mostre, pubblicazioni. Nicotra partecipa attivamente a quasi tutte le iniziative, espone nelle mostre del gruppo e pubblica testi in poesia e in prosa nell’omonimo ciclostilato. Per i componenti più giovani del gruppo, insieme a Rino Garraffo, svolge un ruolo importante, quasi da “maestro”.
Nel 1972 pubblica a sue spese un secondo volume di poesie, “L’uso delle parole” con prefazione di Rino Garraffo.
Per un periodo, oltre a dedicarsi alla pittura ad olio e ad acquerello, produce opere in ceramica e terracotta, stimolato dai fratelli Amedeo e Lillo, attivi a Caltagirone nel campo dell’artigianato artistico.
Negli anni Ottanta partecipa, a volte promuovendole in prima persona, alle iniziative di un gruppo culturale denominato “Il Cormorano”.
Muore nel 1992.
La maggior parte dei suoi lavori visivi sono andati dispersi, mentre un nutrito corpus di poesie, opere teatrali e narrative, è rimasto inedito.
Per tentare di salvare dalla dimenticanza almeno una minima parte della sua produzione, propongo in questa sede alcune sue poesie tratte da “I colpevoli” e da “L’uso delle parole” insieme alla prefazione di Rino Garraffo a quest’ultimo volume: nello scritto di Garraffo è infatti evidenziato in modo sintetico e chiaro il percorso che per molti versi accomuna le due pubblicazioni.
Ringrazio l’amico Antonio Patti per l’accurata revisione finale dei testi.
Da “I colpevoli” (edizioni Rebellato, Cittadella, 1968)
Sez. 1, I colpevoli
*
Il sole scoprirà presenze mute
altre figure che restano
altre vittime
preparate.
Io sono pronto, allineato in questa schiera
anonima che passa, resto indietro
viandante di strade
morte
ad occhi bassi.
Non so lo scopo del cammino, ignoro,
e vorrei la pena che si porta addosso,
chiedo l’espiazione, la condanna
io colpevole, oggi voglio redimere i sensi
caricati di febbre
il sangue dei pensieri, ingiuriato;
bisogna trovarne la necessità provvisoria
in questi casi estremi, ed é già tardi;
occorre proteggere le acque limpide
del pianto che ci resta nelle mani
appena ricominciano gli scherni dell’inganno
ma noialtri lo sappiamo: se finirà male
e verrà il giorno dei colpevoli
in rivolta contro la metafora ignobile dei dotti
contro la legge della pubblica opinione
contro la presuntuosa ipocrisia di miopi affaristi
rimarrà ancora questo chiodo cervicale
di mille notti bianche, questa sfida insospesa
di noialtri, nemici odiati, puniti per sempre.
Viandante di strade buie
ho perso tutto quello che avevo
ignaro di perdere anche la pace e la pietà.
Incapace di chiedere una lucciola
mentre c’era l’abisso,
ho misurato lo schianto del cuore
nell’umiliazione.
È stato facile perdere tutto:
noi forti di coraggio e di orgoglio
abituati alla vendetta alla rivincita
noi credevamo possibile la sfida
contro forze naturali contro forze oscure della vita
contro gli uomini
contro Dio.
Osare era la nostra scelta, superare ogni rischio
andare oltre le regole
scavalcare la temeraria resistenza delle menzogne
fare quello che ci era proibito
ed accettarle sino in fondo disperate conseguenze
noi consapevoli noi spericolati.
Oggi sarà giorno di riscatto o di condanna
ma voialtri, miei cari, non siete i miei giudici
accusatori e difensori non occorrono per le mie colpe.
Io saprei corrompere a scopo di lucro
trovare mille testimoni pronti a ripetere
«Lo giuro, egli è innocente».
Meglio farmi andare dritto al patibolo
come un eretico come un ebreo
come un povero negro
o lasciarmi ad occhi bassi lungo la mia strada.
Scenderò nel baratro con l’urlo
di rancore e non ditelo mai rimpianto
di chi fu docile negli anni
— Impreparato — Incapace — Inadatto —
Non ci credete ancora? io sono cattivo.
Sono come tutti voi, questa la mia vera colpa,
simile a voialtri, uguale a tanti altri
individui malvagi vigliacchi peccatori
posso vincere la mediocrità
a furia di ripetere «io voglio riuscire ».
Era facile tacere l’ambizione quotidiana
se c’era pronta la timidezza del ragazzo
disoccupato fatta pubblica
come un ordine del giorno.
Era facile usare l’umiltà la modestia la superbia
come strumenti di difesa.
È stata pure questa ipocrisia? incoerenza? finzione?
Non è vero!
Voglio deludere i miei nemici del circolo culturale:
era pure questa la mia parte d’incapacità
che detesto
agire sul serio ma saperli gesti
ritardati, la vicenda scolastica, l’amore, la vita;
ed io avevo lasciato la fabbrica
l’acido solforico la paga quindicinale
convinto di trovare, all’uscita
la scuola
questa madre perduta, cosi bella
che non posso scordare troppo tardi estremo inganno.
*
Ho rifiutato la segnaletica vigente — Basta! —
DIVIETO, è spento il semaforo delle scelte
ogni cartello indica limite, termine, la
strada interrotta, la chiusura del transito:
A L T…
Posso sedermi sul chilometro zero,
stanco di percorrere spirali contorte dell’ozio
e del dubbio, stanco di ritrovarti, Silvia,
allo stesso luogo di partenza
la mia vera disperazione aperta, una piaga
che durerà più della morte più del dolore
più della fede.
Posso sedermi sulle macerie fredde
sulla consumazione, sulla tregua
dei miei ricordi e togliermi le scarpe
piene di sangue, esausto:
nei fiori sentirò guance di seta
odorose nell’ombra, dietro muri alti
o forse lungo il ferro
delle balaustre pomeridiane.
Già mi sento la vergogna
in questa giacca opaca in questa ruvida cravatta
logorata dall’uso; la sua testa brutta
e la sua voce contadina, lasciano nei miei cimiteri
la gioia umile della sera, i progetti di carta.
Non rimpiangerò più l’uva matura
delle feste autunnali;
lo smalto delle mie finestre non è ocra
della sua gonna.
Vedo un triangolo premonitore in ogni sogno,
vedo sui muri l’avvertenza usuale — DANGER.
Io non so più quale freccia indichi il bivio
e la valanga: le gambe hanno paura.
Rinviare non serve più, oggi
puoi dire basta, fine, chiusura
e andartene via lungo il binario, lungo le strade
normali del traffico
oppure devi scavare la roccia, prigioniero ingannato
che prepara la fuga sotterranea, in eterno.
La mia libertà fu risveglio di placide ombre
chiuse tra quattro pagine vuote, le mura.
Fuori c’era l’estate, lo spazio del cielo
ed io, sulla coperta militate, fanciullo che guarda
il sole proiettarsi sul tetto, moneta di fuoco.
La mia libertà era luccichio ondulante
dell’acqua abbagliata dal sole, era il fosso
di pietra dopo la pioggia, era l’agave irraggiungibile
sulla rupe sbilenca.
La cercherò nel deserto bianco della pagina,
sulla tela smisurata di mille incertezze
nell’oceano azzurro della parete;
io voglio cercarla, smarrita libertà,
sino a perdere fiato.
Inerme, è rimanenza della festa
il mio corpo con malefici brividi
che prolungano nei sogni
l’ansia, il disagio degl’incontri neri
e la paura;
resistere vuol dire anche
accettarlo fino a quando durerà il supplizio
prepararsi letto che affligge e brucia
eppure nulla avrei da perdere, Silvia.
Una trappola mi chiude senza scampo
l’anima cerebrale e mi trattengo
io sul filo dei ricordi che svaniscono.
Oggi è tempo di credere, è tempo di capire
sino in fondo
quale ci resta, sfida o rassegnazione più vile:
una scelta possibile? un pretesto?
Lasciala, è scomoda ogni trincea
dello spirito irrequieto
quando bisogna alzarsi in alto
aquila di cieli puliti
e gli altri su carogne imbalsamate della vita,
sedentaria convenienza.
Allora devi andare. Bisogna farlo ora
questo biglietto di fuga e andartene
via, in altre città, memoria che cerca l’oblio,
rancore, inquietudine, crisi.
Mani proibite dell’alcova
arde l’acido solforico.
La pelle giovane del ventre
è coperta da velluto bianco.
Silvia, porgimi la benefica calma
dell’abbraccio, ti farò gemere
ancora sul pavimento, alle cinque dell’alba,
ma non chiedermi un premio, io posso darti
gratitudine e belle promesse
prima dell’addio.
Io me ne andrò senza chiedere
una risposta,
me ne voglio andare col dubbio
sconosciuto
e potrò dire basta alle parole assillanti
che mi scrivi, troppo tardi.
Silvia, le mura sono pagine aperte
di ogni insonnia ripetuta
ed io volevo scriverle col dito
tinto di rosso, accuse contro te, libidine,
capriccio, una donna.
Finisce qui la requisitoria.
Chiuderò nel frigorifero spento
ogni rancore e potrò sotterrarlo ogni rancore
lontano dalla tua casa.
L’uomo si affeziona alle catene
che porta, alle sbarre opprimenti del vizio
ai pretesti, al dolore,
l’accattone agli stracci dei ricordi,
vive nella strada, il più libero:
non ha più l’odio che sorregge gli altri.
Idiota dice il cartello. I poeti
trovano il divieto di sosta
in ogni luogo
non sanno trattenere l’impazienza
ma sembrano calmi
quando guardano gambe alle ragazze.
È finita. La notte irrequieta delle torri
fa udire il grido che precipita;
nel pozzo della notte ho lasciato il dissidio
dell’anima nostra, lo sai e vorresti tacerlo
invece si è fatto clacson insoffocabile,
martello ad aria compressa, traxcavator…
Ferma l’assillo elettromagnetico delle cicale
ferma il sibilo della calunnia.
Io non sopporto
mille decibel fracassanti delle tue offese;
preferisco l’urlo, la protesta, il ritmo di 1000 versi
che incalzano il fiato
che svegliano la mente, il sonno della noia
e superano il muro dell’anonima esistenza,
incomunicabilità che stordisce
violenza propagandistica
dei vincitori. Ma rimango io solo e l’ascolto
tamburo di voci che piange, nel gorgo della folla,
la calma dei fanciulli.
È solo mia la disperazione
che arriva dietro un muro.
Corrono in automobile i sensi
sconvolti e le donne hanno concilianti
sorrisi, hanno la gonna corta, hanno le gambe svelte
La vita è necessaria?
Non vale mai la pena continuarla in un baratro
mentre gli amici aspettano sorprese
imprevedibili.
Quale impegno, quale necessita
agli uomini che stanno avviluppati
negli scrupoli, forza di costringere
tra misure complicate della morale affarista,
il sogno il gesto l’abitudine?
Non prenderla sul serio
questa faccenda provvisoria.
Compromessi inaccettabili
ti fanno forte nel distacco che pesa, aumentano
di ora in ora la solitudine isolata e caparbia
dell’autunno; ti lasciano una risata beffarda
alle spalle, e tu, barcollante, non hai più
meriti veri da portare in banca.
Resterai ai margini della festa,
eppure ti hanno detto:
— Se non vuoi finire tra oggetti usati
scarichi, inefficienti,
entra nella graduatoria entra nella classifica —
Tu resisti. Ti costerà cara questa buona fede
questa lealtà pericolosa
che potrebbero chiamare ignavia, debolezza.
Devi farla una prova di forza
O è già tardi? dimmelo, é già tardi?
Invece ti ripetono dovunque che sei già morto,
e dovrai, nei limiti ordinari della cronaca
gemere sopraffatto, orfano nelle strade
secondarie, nei vicoli chiusi. Allora
c’e dannazione fuori della classifica.
Se gli amici preferiscono fiducia conveniente
di persone autorevoli, non preparo rancori;
l’occhio della folla
mai saprà distinguere valori esatti
di misura sociale,
perché gli altri, lo sai,
chiedono limiti di prestigio e di potenza,
gli altri vogliono verificare sino in fondo
il grado delle nostre forze.
Hai vertigini negli occhi aperti
ma la superficie azzurra dei muri
cela ingranaggi e vuoi saperla?
Decifrabile non è ogni segno
esterno, ogni immagine passeggera
del cinema hai visto
nel buco notturno della serratura,
in ritardo. Sulla moviola proibita
qualcuno realizza la montatura assurda
della sorte, l’apparizione improvvisa, la parola
che ti guasta il ritmo interno del respiro,
imprime, nella forza vitale dello sperma
che agita sogni inconfessabili, ossessione sensuale?
Non è vero. E non prenderle sul serio
avvertenze scritte col normografo della morale,
anch’essa è transitoria. I poeti hanno bisogno
d’amore e di pretesti, infatti vi diranno che non basta
la verità letteraria, e non bastano alluvioni
o carestie per farci capire, non bastano più
miracoli o scoperte scientifiche.
Un pugno di nuvole stanche
ciò che resta per noi
dopo un anno di febbre
dopo un anno di aridi venti nell’anima,
dopo questa frenetica notte
un pugno di cenere calda per noi.
Finisce qui la paura di vivere
durata sino all’orlo, soffocante;
era una lunga ostinazione
giunta in alto
era una voce nel sotterraneo.
Un pugno di pagine bianche resta per noi.
(Dicembre 1967)
Sez. 2, Le notti del giovane sfaticato
SERE D’INVERNO
Sul palo di ferro battono le pietre
i ragazzi, e pare che ascolto
la nostra povera campana senza chiesa.
Io ripeto questo lamento
col paraurti, lucido ancora, di
quella macchina arrugginita.
Ero un ragazzo quando la bruciarono
i nemici di tuo padre.
Ora sembra lasciata — apposta — alla mia vista,
inutile, contorta
come il relitto del mio corpo
rimasto nella ruggine della noia.
SABATO SERA
Lascerò, calda di luci, la festa
e amici del sabato sera
per andarmene via con la notte
di buio e la pioggia sulla curva in discesa.
Piove. Piove ancora. È pioggia monotona
che batte, è musica incessante,
che continua a ripetersi dentro
questa nausea di smorfie e di fumo.
Musica elettrica.
Uscirò senza parole
e non s’accorgeranno.
Nella notte
io me ne andrò a nascondere l’affanno
dei pensieri.
Cercherò una strada
nei quartieri annebbiati,
cercherò la porta socchiusa, il lume a petrolio
che illumina una ragazza in attesa.
Sez. 3, La trappola dell’uomo solo
ESILIO
Sono rimasto nel mio quartiere,
ragazzo calvo che sogna.
Non aspetto partenze.
Passano sempre le corriere
tinte d’azzurro, ed io guardo, di pietra,
occhi che luccicano un istante.
Solo un istante. Ma esso rinnova,
lasciate in soffitta, pene e ricordi di scuola.
E se una voce, in alto, mi chiama per nome,
vorrei tacere: forse il timore che mi resta, breve,
voltarmi in quella parte di strada
e vederla deserta: il ponte di pietra, vuoto,
la corriera che non c’è più.
Sono rimasto nel mio quartiere.
Gli altri sono già andati in qualche luogo
della terra, preparati a tacere
contro il cuore, contro tutti quelli
rimasti indietro
in ozio, a parlare.
E oggi non dicono più la mia presenza
necessaria
amici disoccupati che ogni sera
chiedevano parole di sfida:
nei loro occhi c’era il pianto delle vittime
nascosto col fumo della sigaretta,
c’era il bisogno di credere, il grido soffocato
dei vinti, che invocano aiuto al passante;
erano storditi, il sudore sulla fronte,
le gambe che tremavano.
Non dicono più la mia presenza
necessaria.
Sono rimasto. Io rimango in piedi, allo spigolo
della strada, rassegnato in questa monotonia
di linee oblique che hanno queste case.
Intorno alla mia solitudine, intorno alle mie ombre,
spigoli e angoli di tufo giallo
segnano limiti.
Ogni passo è ripetere un rischio.
Ogni passo è paura.
Io sono chiuso nel mio quartiere,
segnata negli occhi la morte dell’uomo finito,
inetto, e più la vergogna di vivere schiavo.
Passano sempre le corriere
tinte d’azzurro — E Giulia
non è più la ragazza bruna che voglio aspettare.
Sez. 4, Il castigo
IL PANE
Il pane di mia madre è amaro.
Ingoiarlo è un supplizio
che si ripete ogni giorno,
sino a stancarmi. E fatica che dura
per darmi angoscia di vivere male.
Sono stufo di pane. Mangiarlo
mi si è fatto obbligo insopportabile.
Aborro questo vizio
d’ingoiare ciò che non è proprio.
Il pane masticato in un angolo
di silenzio, mi ricorda
un rimorso che non so far tacere.
(20 giugno 1966)
INCONTRO
Questa sera. Io resto dietro
un rettangolo freddo della stanza, e gli occhi
guardano immagini usate appena,
già nella memoria
Se n’è andata. Cosa vuol dire questa pietà delle scale
rimasta dietro i passi? Dove chiamano voci
nella frana? Odi? dove cadono mura
e si rovinano i ponti?
Era triste, era sola.
Passa. Ed io ripeto:
potevi trattenerla tua, in quella camera buia:
era triste, era sola, era
lei inganno da rimpiangere, notte calda di marzo,
incontro.
E non tornerà più.
Allora posso spegnere le lampade
di ogni sogno.
I MIEI VERSI
Volevano lasciare un grido
Sui manifesti d’ottobre, sui muri,
Sui cartelli denunciatari di ogni
Rivolta
E sull’asfalto
Le mie parole le mie parole le mie parole
Che dovevano ringraziare Angela
Di quei lunghi mesi del 65
Così freddi così neri.
Anemici orfani mediocri
Sono i miei versi, questi versi che fanno
L’incoerenza volontaria
La contraddizione la stonatura
E volevano cercare alla vita
un senso comodo, giustificante.
Scaveranno dietro le porte
Il segno dell’uomo ferito, agonizzante,
Ma volevano penetrare
Il dilemma, toccare le viscere cerebrali
Dell’anima
Ma volevano lasciarvi un fremito
Insoffocabile, una rivelazione non ancora aperta,
Strana e bella da fare paura;
Volevano lasciare una candela nel cielo.
Da “L’uso delle parole” (Tipografia Primavera, Agrigento, 1972)
Introduzione
Nell’introdurre la presente raccolta di poesie è necessario rifarsi all’opera che l’ha preceduta: «I colpevoli» édita da Rebellato, 1968.
Nella società capitalistico – borghese, nella società esclusivamente ad «una dimensione» dove non è ammessa la sussistenza di altre alternative, di altri modelli ideologici ed operativi, la condizione del poeta appare ed è una condizione, una situazione da «colpevole». La colpa va vista nel suo duplice aspetto: letteraria ed esistenziale. In quanto al primo, Nicotra vive, come tutti gli intellettuali, la crisi della poesia e dell’arte in genere, nel mondo d’oggi. In quanto al secondo, il poeta avverte e soffre per l’annullamento dell’individuo che la società di massa opera imperturbabilmente. Ogni sentimento, ogni gesto spontaneo, ogni idea personale, ogni progetto, che non rientra «nell’ingranaggio», che non rientra nel programma già dato o al limite previsto, che non rientra nella prassi convenzionale è destinato ad essere soffocato, è destinato a lasciare il suo sapore di colpa.
È questo secondo aspetto ad essere preponderante nei versi di Nicotra che esprimono appunto la crisi esistenziale, il senso della solitudine, dell’incomunicabilità propria di chi ha «rifiutato la segnaletica vigente» di chi detesta «la norma e la cerimonia».
La presente raccolta va inquadrata in questi temi e possiamo dire che rappresenta l’analisi di uno di essi: l’incomunicabilità dell’amore.
Se ne «I colpevoli» i riferimenti a Majakovskiy (nel suo aspetto meno declamatorio) e a Quasimodo erano evidenti, ne «L’uso delle parole» sono ridotti ad echi quasi impercettibili. In questi versi la struttura del movimento linguistico – poetico è lirica; a parte qualche eccezione di sperimentalismo formale. Una liricità che con i suoi toni alti e bassi si presenta a volte come uno sfogo – analisi e a volte come un dialogo – analisi, e che comunque rimanda sempre al centro dell’esistenza viva: l’amore.
«Ma l’amore ti chiedo / come fosse un perdono». L’amore sarebbe l’unico antidoto capace di neutralizzare il senso di colpa di cui dicevo prima. Ogni immagine poetica è una ferita aperta dinanzi agli occhi del lettore, col rischio di contaminarlo.
«L‘uso delle parole» perché questo titolo? Come afferma la semiologia, la realtà si dà sempre nel linguaggio; non esiste una realtà fuori dal linguaggio (più precisamente dai linguaggi). Una vita, un lavoro, un «amore» dipendono dall’uso che facciamo del linguaggio e in particolare dall’uso che facciamo delle parole. C’è di più. Le parole spesso non rispecchiano la realtà, hanno una loro vita, a dispetto nostro, a dispetto delle nostre intenzioni. «Infatti una labile minuzia / grammaticale procura inquietudine», «una parola muta / la cronaca dell’esistenza». Ecco il dramma assurdo, insopportabile. Nicotra se ne sta lì a testimoniare, rappresentare il dramma, a comunicare testardamente con le parole e nella maniera più composta il male reale, nascosto ed enigmatico che procurano le parole stesse.
Possiamo dire, quindi, che in questa raccolta non c’è ancora quel materiale verbale in sé, cioè un linguaggio come oggetto, ma al poeta interessa qui ciò a cui questo linguaggio rimanda, cioè la vita vissuta, l’amore.
Non gli resta, quindi, che cercare di evocare, di capire, di esorcizzare l’assenza, di comunicare chiaramente nella e della incomunicabilità dell’amore, della vita, quando questa è stata falsata e a volte soppiantata dal mondo equivoco, impreciso, instabile delle parole.
Favara, gennaio 1971
Rino Garraffo
IMPAZIENZA
Ho bisogno di acqua, di spazio, di alberi verdi e di strade
che s’allontanano
ma devo aspettare l’ombra favorevole che aumenta
ma chiedo pazienza a questi muscoli tesi
se voglio trovarmi un poco di scampo.
Il silenzio, la distanza del mare, le pagine bianche;
manca l’attesa, manca l’abitudine, manca una
ragazza al telefono quando
viene la mancanza a trovarmi sull’area rettangolare
di un tavolo a forma di letto appena viene a trovarmi la
copertina a colori di una ragazza morta
ma torna l‘impazienza nelle mani.
RIAPPARE LA LUCE DEL SOLE
Sono sul muro in ombra e una donna esiste
lasciando i piedi nudi sul davanzale
che mi ricordano il meglio
e lei mi guarda dentro l’immagine dei vetri
forse inventando un giuoco.
Nei giorni di pioggia non c’era
cercando una voce, una mano
lungo strade che si oscurano presto
poi si resta in un vecchio locale di
sedie numerate
poi si resta da soli davanti allo schermo
come una tela bianca dell’assenza
che hanno messo in fondo
ad ogni sera.
ALLA RAGAZZA DEL 69
A causa tua non cadono le ali
dell’angelo mentale, e le corde resistono
molto: ritmo schianto inerzia silenzio
potrebbero curvare anche le ossa
di giganti.
A causa tua posso scrivere versi
con il fiato calmo.
E tu sei brivido delle mie strade
senza velocità;
passi tra ombre di persone ignare,
da sola, ed io posso saperlo.
Brivido e desiderio. Passi nell’aria
carica di festa, ed è più facile riprendere fiato
nel caos dell’afa fumogena:
macchine mobili ronzarono troppo
con l’indifferenza dei passanti,
immagini manifeste
avevano un ghigno di spia.
L’AVVERTIMENTO
Fammi toccare le tue dita
ancora dolce richiesta dei poeti adesso
non io
né zucchero di sguardi casuali trattenermi
pensandoti tra alberi spogli dopo una sera
di vento.
Mi dispiace, la memoria è vetro
con labili segni, ed io voglio toccare anche l’interno
per comprendere meglio me stesso
e la tua amorevole intelligenza
sessuale.
Puoi dirlo, il dialogo apre la nuova esperienza
come reciproca intesa:
ipotesi e sentimento.
L’attrazione dei corpi messa tra parentesi,
banale? secondaria? difficile?
Stringi al petto volumi della scuola
malata invece che distrarre sull’erba
la giovane energia delle gambe.
Il tempo passa. Però meglio rivolgere l’intento
alla vita comoda dei privilegi
intravisti sul video. Il tuo programma:
avere una laurea magnifica
un uomo che paga la casa in affitto
e l’automobile.
Forse il benessere inganna e la bellezza muore
nella cornice decorosa;
non è una bestemmia letteraria
ma l’avvertimento inutile, tardi
nell’ora dello specchio
questa lettura che ti svela
un timore.
Oggi per vivere significa lasciarsi l’illusione
e rimandarla al giorno della festa.
Dici che non lo sai, che possa vincere anch’io
questa corsa
con facili trucchi tesserati
nell’agenzia dinamica del gioco
Devo andare di fretta, presto, più presto
più presto: c’è poco tempo
insieme in questa mischia.
Frattanto segna sul calendario il giorno dell’abbraccio
come accettabile uso
non sarà questo che vuoi se ti verrà offerta
nel cavo delle mani acqua di primavera
o nella bottiglia fumo.