L’InVerso fotografico di oggi è ispirato alla molteplicità del senso, dei punti di vista, delle visioni che la realtà suggerisce. Gli accadimenti sono caratterizzati da una simultaneità di visioni spaziali, sociali e temporali. Partendo dal presupposto che la rappresentazione della realtà non è più essa stessa realtà, ma frutto di interpretazione, la stessa immagine si presta a nuove, inusuali interpretazioni e significati, a seconda del luogo e del tempo in cui l’immagine stessa viene collocata. La decontestualizzazione dell’immagine, tipica del surrealismo, genera nuove correnti di senso, spingendo la mente verso nuovi scenari immaginifici. Del resto una delle caratteristiche più significative dell’arte è proprio la capacità di stimolare il pensiero ad altro pensare, rompendo gli schemi e gli scenari precostituiti. Il nuovo è frutto necessariamente di una rottura creativa.
L’artista che vi presento è rappresentativo di questa capacità di portare lo sguardo al di la delle singole immagini adoperate. La fotografia, il collage, le tecniche di rilegatura divengono strumenti al servizio di una nuova interpretazione concettuale e metafisica della realtà. Cosi una bimba si trova a nuotare in un mare di stelle mentre la mamma amorevole diviene simbolo di quella natura benigna che culla gli uomini in balia degli eventi.
Erwan Soyer ha una laurea in Letteratura, Arte e Cinema ed anche in Graphic Design. Lavora come direttore artistico, illustratore e artista visivo dal 2011 a Montpellier, nel sud della Francia. La convergenza di due formazioni distinte è ben evidente nei suoi lavori basati sulla tecnica del collage e della computer grafica. Le sue opere sono ispirate al mondo naturale, al territorio, ai sogni e alla mitologia.
I suoi lavori plastici (di grande formato) si concentrano sul concetto di paesaggio, ispirato alle immagini satellitari, facendo una riflessione sul rapporto uomo/natura, sul paesaggio terrestre dal punto di vista biologico e geologico. I collage di piccole dimensioni esplorano molteplici temi come la politica, la storia, la mitologia, l’utopia, la fantascienza, alla maniera dei collages europei surrealisti degli inizi del XX secolo. Nelle sue opere confluiscono materiali recuperati, pagine e illustrazioni di vecchi libri, in una costante dicotomia tra permanenza e transitorietà, tagliati con un bisturi e assemblati con tecniche di rilegatura.
La ricerca del sogno e dell’inconscio domina se pur marginalmente, nella scia surrealista, anche lo scenario poetico italiano e in parte l’opera di un poeta: Mario Luzi e i suoi “Dubbi sul realismo poetico” del 1954.
«Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Mario Luzi, il cui itinerario poetico non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure dell’immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo» (Stefano Verdino)
Tra l’estate e l’autunno del 1954, sulle pagine del periodico La Chimera si svolge una polemica sul realismo nell’arte occidentale, ché vede contrapporsi due posizioni, quelle di Mario Luzi e di Pier Paolo Pasolini. La scintilla scatta quando, in un articolo intitolato Dubbi sul realismo poetico, Mario Luzi si interroga sulla effettiva validità artistica delle nuove soluzioni espresse dai gruppi torinesi e romani, di cui Pasolini era uno degli esponenti più originali e vivaci. Scrive Luzi:
«Oggi nessuna convinzione teorica e scientifica pone il principio e il fine della realtà nella realtà stessa, neppure il marxismo che considera piuttosto la dinamica delle leggi che la governano. Il concetto di reale non è mai stato più dubbio e soggetto a vertiginose complicazioni».
La vicenda trova un suo proseguimento estremamente amichevole l’anno successivo, quando la rivista diretta da Pasolini, Officina, pubblica tre poesie inedite di Mario Luzi: Richiesta d’asilo a un pellegrino a Viterbo, Nell’imminenza dei quarant’anni e la famosa Las animas. Proprio quest’ultima, che ha come tema la morte e l’interrogazione del significato di questa, colpì profondamente Pasolini, che scrisse a Luzi questa lettera, datata al 22 novembre 1955:
«Caro Luzi, / grazie per le tue bellissime poesie: e per quello che, polemicamente, c’è sotto, il tuo traboccante e trattenuto “Memento”: ma non credere che noi apparteniamo alla categoria che dimentichi. […] Ma – sia pure perché carichi dal sentimento della morte, spinti da esso – è meglio pensare alla storia che all’assoluto, ci sembra. Solo nella storia l’amore ha i suoi oggetti: fuori – trepido a dirtelo – non riesco a concepire oggetti, o Oggetto, ma solo la prospettiva di un enorme narcisismo, un soggetto adorante, un mito. Mah… ne riparleremo quando protagonisti de Las animas saremo noi».
Las Animas
Fuoco dovunque, fuoco mite di sterpi,
fuoco sui muri dove flotta un’ombra fievole
che non ha forza di stamparsi, fuoco
più oltre che a gugliate sale e scende
il colle per la sua tesa di cenere,
fuoco a fiocchi dai rami, dalle pergole.
*
Qui né prima né poi nel tempo giusto
ora che tutt’intorno la vallata
festosa e triste perde vita, perde
fuoco, mi volgo, enumero i miei morti
e la teoria pare più lunga, freme
di foglia in foglia fino al primo ceppo.
*
Da’ loro pace, pace eterna, portali
in salvo, via da questo mulinare
di cenere e di fiamme che s’accalca
strozzato nelle gole, si disperde
nelle viottole, vola incerto, spare;
fa’ che la morte sia morte, non altro
da morte, senza lotta, senza vita.
Da’ loro pace, pace eterna, placali.
*
Laggiù dov’è più fitta la falcidia
arano, spingono tini alle fonti,
parlottano nei quieti mutamenti
da ora a ora. Il cucciolo s’allunga
nell’orto presso l’angolo, s’appisola.
*
Un fuoco così mite basta appena,
se basta, a rischiarare finché duri
questa vita di sottobosco. Un altro,
solo un altro potrebbe fare il resto
e il più: consumare quelle spoglie,
mutarle in luce chiara, incorruttibile.
*
Requie dai morti per i vivi, requie
di vivi e morti in una fiamma. Attizzala:
la notte è qui, la notte si propaga,
tende tra i monti il suo vibrio di ragna,
presto l’occhio non serve più, rimane
la conoscenza per ardore o il buio.
Natura
La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l’amore.
Mario Luzi è nato a Castello, allora frazione di Sesto Fiorentino, ora inglobato in Firenze, il 20 ottobre 1914. Nel 1932 si iscrive alla facoltà di Lettere all’università di Firenze, dove stringe amicizia con Carlo Bo e altri giovani che costituiscono il nucleo originario della rivista “Il Frontespizio”, voce del movimento ermetico. Pubblica nel 1940 la raccolta Avvento notturno, che presenta le poesie composte tra 1936 e 1939, profondamente influenzate dal Simbolismo francese di Mallarmé, Rimbaud e Paul Éluard. Nel 1945 torna a Firenze e negli anni successivi pubblica le raccolte poetiche che lo consacreranno artisticamente in Italia e all’estero: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1956), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). La vastità dell’opera luziana fa sì che egli sia un poeta plurimo, emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale.
Segue la svolta: il punto di vista non è più tra l’io e la realtà, non c’è più giudizio (o pregiudizio): l’io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo Novecento, affine, per quanto diversissimo, all’altro prediletto compagno di poesia, Giorgio Caproni. È la stagione poetica che, dopo la svolta di Nel magma, fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della pienezza.
Negli anni Ottanta Luzi riceve diversi premi e riconoscimenti: nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale, e nel 1987 gli viene consegnato il Premio Feltrinelli per la poesia all’Accademia dei Lincei a Roma. Nel 1989 esce la raccolta dei suoi saggi, Scritti.
Negli anni ‘90 pubblica Frasi incise di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 2004 al suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi; pubblica nello stesso anno la raccolta Dottrina dell’estremo principiante. Mario Luzi è scomparso all’età di novant’anni nel febbraio 2005. Nel 2008 viene pubblicata postuma la raccolta Lasciami non trattenermi.
Da “Poesie sparse”
Nulla di ciò che accade e non ha volto
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s’esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d’aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E’ questa l’ora tua, è l’ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all’improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s’incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch’io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l’amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
Da “Monologo”
I
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d’essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte…
Era, donde scendesse, un salto d’acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d’astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l’angoscia d’esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.
Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.
Con lo sgomento d’una porta
che s’apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d’eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest’ora ti edifica e ti schianta.
L’uno ancora implacato, l’altro urgeva –
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n’ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza