La dodicesima nota: instituta artium ad usum stultorum et indoctorum

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La Dodicesima Nota è un romanzo di Lev Matvej Loewenthal edito nel 2017 dalla casa editrice siciliana Carteggi Letterari le edizioni.

Giacché più di una voce si è levata, garrula e gracchiante, da dietro un anonimato da paravento, arrogandosi il diritto di insultare nel più becero e subdolo dei modi, mettendo in croce l’editore, cioè me, la mia redazione, ogni rivista che abbia parlato del romanzo La Dodicesima Nota o lo abbia pubblicizzato – vedi il caro Paolo Melissi e la sua rivista Satisfiction, o anche Andrea Inglese su Nazione Indiana, pubblichiamo qui di seguito una breve appendice al romanzo stesso, sorta di guida alla lettura, il cui titolo latino è sufficientemente eloquente.

Natàlia Castaldi

Instituta artium ad usum stultorum et indoctorum

 A cura dell’Ufficio Stampa dell’autore

Ogni romanzo dell’autore che in Italia attualmente si firma come Lev Matvej Loewenthal s’inizia con una citazione tratta dai suoi lavori precedenti, in un continuum letterario. Solitamente il nuovo romanzo si apre con le parole su cui si è chiuso il precedente, anche a distanza di molti anni. Infatti:

«Altro non siamo che personaggi di un volume ciclico, in cui la prima pagina è identica all’ultima, ed entrambe mancano. Ma quando i nostri sguardi di carta si incroceranno, non ci riconosceremo, perché io, come te, sono tanti e nessuno».

Con queste parole indirizzate al lettore terminava un romanzo edito (con altro nome) dall’autore nel 1994. l’Io-Plurale ha sempre affascinato questo scrittore, che per pubblicare nuovamente in Italia il romanzo La Dodicesima Nota, ha scelto Carteggi Letterari e il mordace nom de plume di Lev Matvej Loewenthal, ironicamente giocato sul ben noto Levi Matteo Levi, memorialista di Kefar Nahum, che nel 1966 a Mosca (in un’edizione parzialmente censurata) giunse a maledire Dio e a chiedere al Demonio che lo scrittore potesse ricevere la ricompensa del riposo. (Quella che l’editrice e il suo staff tutto desiderano per l’imminente estate, affinché gli attacchi a Loewenthal si plachino).

 L’intertesto, ovviamente, per la scelta del nome del nuovo eteronimo, è Il Maestro e Margherita, a sua volta fortemente influenzato dal Faust di Goethe, di cui anche Loewenthal cita il passo più famoso, Ich bin ein Teil von jener Kraft, Die stets das Böse will und stets das Gute schafft, postillata da un’ulteriore (auto)citazione en abyme:

«Così parlò il Risorto, e una donna si mosse e ruppe il silenzio e gli chiese: “E allora, dunque, Yeshua Ha­Nosri, chi sei tu?”. “Io, il complice del suo destino, eternamente: io avrei voluto impedire la sua morte, avrei voluto privare gli uomini del loro Redentore; ma per il Signore la mia volontà non valeva nulla. Io sono una parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente compie il Bene”» (A parlare così di Giuda è Gesù e non il diavolo, La Dodicesima Nota, p. 50).

Va precisato, infatti, che ogni citazione contenuta nelle opere di Loewenthal è sempre glossata e postillata, mai fine a se stessa, ma caustico clin d’œil al lettore più avvertito e colto, in grado di coglierne subito il sarcasmo soggiacente.

A mo’ di esempio, si prenda il nome del narratore a quattro zampe del romanzo, Bohu, che in ebraico significa caos. La parola Bohu, accanto a Tohu,  תֹהוּ וָבֹהוּ, appare in un versetto della Genesi 1; 1-2 ed è in genere tradotta in italiano come “mescolanza caotica”. Nel romanzo di Loewenthal appare in accezione positiva, allude infatti ad un caos creativo, quello che va verso dentro (introverso), sotteso nella Genesi. Bohu, nel romanzo, è un enorme cane turco-andaluso, dal pelo arruffato, che ha in sé il caos. Alludendo a Nietzsche, l’autore lo fa entrare in scena come una cometa sulla spiaggia di Ashdod:

«Giunta su uno sperone roccioso, la macchina si è fermata, tra giardini di cedri e di palmizi. Lì, sulla collina, il bambino ha appena visto qualcosa di scuro che si sposta con la rapidità di una cometa. Scende dall’auto, sotto la prima sferza afosa della giornata, lascia cadere le braccia lungo i ­fianchi e guarda, impietrito. Tutto è immobile, tranne la cometa. Anche Nadim pare una statua di gesso. Solo le sue labbra abbozzano un sorriso. L’ombra di una mosca, ­fissa, sembra disegnata al suolo. La cometa è uno scompigliato cane barbone, col caos in corpo: un’informe massa di pelo, setoso come quello d’uno zibellino.» (Dodicesima Nota, p. 17)

L’allusione incipitaria alla cometa rinvia il lettore (colto) alla nota affermazione filosofica Man muss noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können (Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra).

Il caos di cui il narratore-cane (sic!) è portatore nel romanzo non è solamente una condizione dell’animo, ma soprattutto un riflesso verso l’esterno del mondo interiore, che crea in maniera arruffata arte, musica, scrittura, poesia: rappresenta la capacità di esistere oltre il Bene e il Male (tema portante del romanzo). Infatti, verso la metà del libro, la voce narrante esplicita la propria natura:

 

«Il mio nome, sappiatelo, è Bohu: bo­hu, non è difficile, è ebraico e signi­fica caos della creazione. O, se credi […] caos creativo. Se, come sospetto, di ebraico ed ebraismo non sai nulla, pensa al caos nietzschiano, portatore di vita e di morte. E se proprio fossi a digiuno (da come parlo, si capisce che ho lo stomaco vuoto, eh?!) di filosofia, pensa alla «teoria del caos». Tutto è riconducibile sempre allo stesso concetto, cioè a me, al fatto che bisogna avere il caos dentro per generare una stella danzante…o una cometa sulla spiaggia di Ashdod! Caos artistico, informe, prima della perfezione, perché l’arte tende al Bene, ma questo non implica, evidentemente, che debba escludere il Male. […] D’accordo, avete ragione, sto vaneggiando: perdonatemi, sono una bestia con lo stomaco vuoto! Un povero cane affamato: non posso pretendere di conoscere la realtà ­fino in fondo, quindi, datemi un tozzo di pane, altrimenti continuo ad assillarvi con i miei sproloqui. Kantor mi accarezza, oh sant’uomo, e ­finalmente mi passa una coda d’aragosta da leccare un po’. Il cibo è una cosa seria! Poi, col tovagliolo, scaccia una mosca che svolazza sulla mia testa e che, incautamente, si va a poggiare sul tavolo. Una scudisciata secca di tovagliolo e addio mosca! Dopo così tanti anni di convivenza.» (Dodicesima Nota, p. 170).

Come appare palese, l’autore non cita pedissequamente Zarathustra, ma ironizza ampiamente sulla natura del caos di cui il suo narratore è portatore.

 Ora, la domanda è: bisogna conoscere le parole di Zarathustra («Vi dico: avete ancora del caos in voi. Ahimè! Viene il tempo in cui l’uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini: quello incapace di disprezzare se stesso»), per apprezzare l’ironia soggiacente al passo in questione? Non per forza, ma certamente tacciare l’autore di avere messo in atto un plagio da Nietzsche è grottesco, eppure le garrule voci anonime lo hanno fatto.

 Se per il filosofo tedesco, der tanzende Stern è il preludio al superuomo, per Loewenthal, Bohu (ironico nome adatto ad un cane anche per quel lettore a digiuno di ebraico e di filosofia) è beffardamente l’anti-superuomo, forse la super-bestia, una cometa veloce, che insegue la verità su di una spiaggia e lungo tutto il romanzo: cane filosofo e sornione, onnisciente, saggio, che va oltre le convenzioni, la morale, i dogmi e i pregiudizi. Specie dei lettori poco svegli…

In egual misura, cioè con un’ironia sferzante o sferzata dal vento invernale di Praga, i tetti delle case sulla collina Petrín si sollevano in volo come in un (ipotetico) dipinto di Oskar Kokoschka, uno di quei pittori degenerati cui si allude nel romanzo, probabilmente visto da Kafka e cui, stando a quanto riportato da Gustav Janouch, in Gespräche mit Kafka: Aufzeichnungen und Erinnerungen, Fischer Taschenbuch, 1981, lo scrittore accennò parlando di ombrelli al vento durante una conversazione privata.

Ma questo ipotetico quadro, dipinto da Loewenthal come un acquerello, in realtà altro non è che una ripresa da una precedente visione praghese di un libro da lui stesso scritto nel 2008 in inglese ed edito oggi in e-book da Carteggi Letterari con il titolo di The Falsifier of Words:

«Le case sulla collina Petrín iniziano a librarsi nell’aria, distaccandosi dai punti fi­ssi della terraferma. I tetti volano via. Le cupole sono ombrelli al vento, tutta la città sta per levarsi in volo. Mille sonagli di vetri infranti tengono desto il cielo, vivacemente mosso dal volo di rondini celesti e verdi. Un pittore guarda l’invisibile e crea. Si avvicina alla tela bianca e inizia ad impastare un’armonia di colori. La concordia e la pace tra le creature sono il suo sfondo blu saturo, zaffiro. Si addormenta e sogna un angelo, con ali nere, da sparviero, che suona una viola antica. Sulla sua testa, una rilucente colomba perlacea vola verso il cielo, portando nel becco una violetta selvatica profumata, colta sulla terra» (Dodicesima Nota, p. 65)

«A doughy motionless cloud hovers over Petřín Hill. It resembles the enormous figure of a wandering man, suspended above the snow-laden rooftops. A vast expansion of white, disrupted only by the azure of the facades, sculpted like luminous crystals.

Suddenly a blue window closes against the dense whiteness, locking in the nostalgia of the inexorable distance in time.

The houses on the hill begin to rise up into the air, freeing themselves from the terra firma. Rooftops fly away: joycefully, jung and happily freudened ! 15 Sivan, 5777 is a flyday.

Cupolas are umbrellas in the wind, the entire city is about to ascend: they lived and laughed and loved and left, left-handed and insomniac.

Cain (‘s handworkthefirstbornonearthgrewtokillthesecond) mosni dna dednah tfel. قابيل وهابيل.

The shattering of thousands of fragments of breaking glass keeps the sky awake, vibrantly enlivened by the flight of celestial blue and green swallows.»

(Lev Matvej Loewenthal, The Falsifier of Words, Carteggi Letterari 2017, p. 5).

Bulgakov, Goethe, la filosofia socratica, neoplatonica e nietzschiana, reminiscenze letterarie di un autore erudito, che ha al suo attivo trent’anni di pubblicazioni, la storia di Cornelius Gurlitt ed il destino di grandi opere d’arte degenerata trafugate sotto il regime nazista (e cui l’autore si riferisce citando espressamente dall’inchiesta-intervista di Der Spiegel del 12 novembre 2013), la storia dell’ebreo errante, la propaganda nazista sul ghetto di Terezin, la storia dell’angelo con le ali nere del Caravaggio ed il mistero del suo spartito, sono solo una minima parte del percorso creativo e narrativo di Loewenthal, che riesce a fare di una storia sospesa tra passato e presente, nell’attimo in cui pare che tutto stia per esplodere durante un attentato terroristico, un vero e proprio caso letterario a dispetto dei (o forse anche grazie ai) lettori più ottusi. E non possiamo non concludere questa breve appendice con le parole, rivolte al lettore, con cui si chiude il Falsifier of Words:

«[…] and he is now writing a novel about the monstrous marvellousity of the German gentleman, the most gentle and marvellous man he ever run across in his life. He will call his book Omnis homo mendax, but that’s another story.

Now consider, my much esteemed Reader, how I put you on a plinth. Deswegen, schon wieder, try to find your way out this labyrinth.

And donna forget : I’m a beggar for the Absolute in the Relativity of Time, dramatically poised between two worlds, both to which I (donna) belong.

I’m a deceiver of Truth, a steady, sturdy, staunch begetter of realities, and fear not, for I am not a liar (cease-fire!) rather a מינסטרעל (minstrel) playing a fiddle, inviting you to solve my riddle.»

Con l’augurio che vi siano ancora lettori e scrittori in grado di generare stelle danzanti, che quello spregevole tra gli uomini di cui parla Zarathustra non si palesi ulteriormente nella rete, che infine la loquace cornacchia ora taccia e verso il cielo tenda le braccia (cit. Loewenthal, con altro nome, testo edito nel 1995 e vincitore di un concorso letterario internazionale).

https://www.lmloewenthal.info/

 

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