Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 40) Eric Matthews

Quando mi chiedo che fine farà la mia collezione di dischi? non sto banalmente rimuginando su una mera questione di eredità. Sto invece, indirettamente, ponendo una questione sostanziale e retroattiva: perché collezionare dischi? La vita è così breve e transeunte da far entrare in conflitto la sua stessa idea con la sontuosa immagine del “Grande Scaffale Ideale”.
Ogni collezionista aspira a un Grande Scaffale, che lo immagini nel salone di casa o – ove non si disponga di spazio bastevole tra le pareti domestiche – nel cuore.
Come bighellonando tra i loculi d’un colombario getto uno sguardo complessivo ai miei dischi (i vinili e i cd, perché le musicassette, oggi difficilmente riproducibili, dormono in grossi cassettoni sottratti a lenzuola e mutande a casa dei genitori, silenti come ossi di seppia, inservibili come la pelle gualcita d’una muta trascorsa) e mi chiedo cosa resterà di quell’ordine sentimentale così meticolosamente composito, figlio d’un puntiglio arraffone ampiamente religioso, quando anche il pianeta che l’ospita sarà ridotto in polvere. È religioso ciò che, per darsi, postula la propria eternità e una collezione di dischi aspira all’ordine definitivo. La mia coscienza non ha esperienza di preghiera o di dialogo confessionale, in compenso essa si è rivolta ai dischi come ad autentiche icone sacre, la cui luce aurorale ha spalancato migliaia di sentieri a partire dalla selva selvaggia d’una adolescenza inconsapevole e tormentata. Un criterio d’interpretazione del tempo e dei sentimenti.
Con nostalgia pungente rammento quando, da bambino, restavo attaccato alle onde FM per lunghe ore in attesa d’una canzone amata, con dita nervose vigili sul tasto rec, per poter al momento giusto catturarla come farfalla al retino, e disporre liberamente e infinitamente del suo ascolto.
Ma quella registrazione, spesso inficiata da voci di boriosi speaker o da una non perfetta ricezione, non avrebbe mai potuto costituire il punto d’approdo per l’amore che lega un paio d’orecchie a quel crogiolo unitario variegatamente organizzato d’armonia, melodia e ritmo in cui s’articola il mio piacere di vivere. Occorreva qualcosa di più definitivo, qualcosa di paragonabile al marmo per una tomba. Il me bambino non potè fare a meno di assimilare storicamente la forma del vinile a quella del calco platonico, della forma ideale e incorruttibile.
Il vinile costituiva il simulacro privilegiato, il materiale unico capace di contenere la frenetica impalpabilità della mia tensione alla vita. Riuscire a portarne uno a casa coincideva sempre con un’assenza fisica prolungata da qualunque attività familiare e parascolastica. Giusto il tempo di quei primi tre o quattro ascolti di fila, per stabilire il contatto. L’eventuale disappunto se la busta interna non avesse riportato i testi delle canzoni su cui sprofondare -sempre religiosamente- in maniera sincronizzata durante ogni ascolto, non solo il primo; l’odore della copertina una volta privata del cellophane, iniziato a scartare a partire dall’incisione praticata con le unghie da giovane chitarrista lungo la fessura laterale; l’incanto stroboscopico del piatto che ingrana dopo un’emozionata manovra d’investitura digitale e infine il corpo totalmente abbandonato sulla poltrona degli ascolti della mia stanzetta acerba. Potrebbe essere il modo in cui potrei essere effigiato dopo la mia morte. Se dalla finestra non giungesse la luce del giorno, ricordarsi di aggiungere la cuffia alla silhouette.

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Noi nati negli anni ’70 siamo l’ultima generazione che associa istintivamente di default la musica al vinile. Siamo nati sotto il suo dominio; abbiamo, da infanti, ricevuto dai nostri genitori o fratelli maggiori il battesimo armonico con queste icastiche nere circonferenze rotanti; il nostro primo disco è stato acquistato in quel formato; la nostra prima collezione (prima dieci, poi venti, poi cento) è stata misurata in vinili… eppure, quando arrivò il compact disc, improvvisamente girammo loro le spalle.
Il cd giunse a noi dotato di un’aura potentissima. Sopra ogni altra cosa mi colpì l’idea – ancora non vi avevo poggiato le orecchie – che fosse privo di scricchiolii. Le riviste favoleggiavano un sound di qualità enormemente superiore al vecchio formato, superstizione in cui oggi sono rimasti in pochi a credere. Al primo Natale utile chiesi in regalo un lettore cd e con esso acquistai il mio numero uno: “New Gold Dream” dei Simple Minds, che già ovviamente possedevo in vinile. La logica era sempre quella del “surplus d’iconicità”, del “più marmo del marmo”, quella dell’avvicinarsi a possedere l’anima d’un disco in maniera meno accidentale possibile. E il cd sembrò inizialmente garantire quel passo in avanti. Il prezzo, del resto, corroborava quella collocazione: i primi cd costavano circa il doppio d’un normale vinile e nessuno sembrò contestarne l’opportunità. Inizialmente fu quasi uno status symbol: il vinile restava per gli adolescenti spicciolati, mentre i cd rigogliavano sulle mensole degli avvocati e dei manager rampanti. Io potei limitarmi a comprarne pochissimi e solo per “ipostatizzare” l’amore verso certi dischi. I miei cd, infatti, erano tutti rigorosamente doppioni di dischi già posseduti in vinile. Acquistare un cd “al buio” appariva come un rischio troppo grosso: i cd erano fatti per le heavy rotation, e per sopravvivere loro, permanendo nei secoli.
Occorse attendere il relativo abbassamento dei prezzi e il concomitante innalzamento di quello dei vinili per far pendere l’ago della bilancia dalla loro parte. Allo sguardo retrospettivo sembrano davvero trascorsi i succitati secoli; l’avvento dei masterizzatori domestici prima e quello ancora più deflagrante dei file musicali viaggianti su banda larga hanno reso il cd più o meno ciò che negli anni ’80 era la musicassetta vergine: un supporto pratico e facilmente compilabile. Il prezzo del vinile, mai estintosi, oggi supera quello del cd ed è unanimemente riconosciuto come supporto più pregiato. Il fruscio è tornato di moda. Io invece, sempre legato alla mia morbosa idea dell’ipostasi, approfitto della loro economicità nello stesso modo in cui al tempo della dismissione del vinile da parecchi negozi, rapacizzai il possibile.
Negli anni 10 del 2000 il trend personale è: comprare il formato originale di molti dischi scaricati (si può ancora dire illegalmente?) dai vari peer to peer negli anni ’00. Contrariamente a quanto capita di leggere un po’ dovunque, anche quello fu un periodo denso di emozioni e brame soddisfatte. E d’infiniti incontri, alcuni dei quali destinati a lasciare il segno nella mia carriera di ipostatizzatore. Prendiamo questo.
La copertina: c’è questo bel giovanotto elegante che con aristocratico cipiglio deambula in ambienti di blu ultramarino. È una copertina normale – forse – come centinaia d’altre. Però, iniziate ad annotare gli aggettivi “elegante” e “aristocratico”. Poi immergete il vostro umore in quello sfondo di blu, fra tendaggi e sete docili al tatto, che rimandano a luoghi d’una fisicità distante.
La voce: gli inglesi definiscono “breathy” (piene di respiro, dal timbro arioso) le voci come quelle di Eric, un esempio perfetto del quale si ritrova nelle interpretazioni di Colin Blunstone, l’eccellente vocalist degli Zombies (poi artefice d’una a tratti esaltante carriera solistica). Dunque: sia Colin Blunstone che Eric Matthews hanno una voce molto breathy, di quelle che sono l’equivalente di organi a canne, o di strumenti a mantice.

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“It’s heavy in here” del 1995 è la sua prima prova alla “scrittura” di canzoni, dopo la straordinaria prova d’arrangiatore nel (sublime) disco del 1994 dei Cardinal, altro superclassico che avrebbe ugualmente meritato un posto su questa rubrica. Il gusto del ragazzo, la sobrietà e al contempo la magniloquenza degli arrangiamenti old-fashioned (a là Bernard Herrmann – suggerisce AMG – compositore prediletto da Orson Welles e Alfred Hitchcock) su cui s’adagia la placidità di questa voce felpata ed imperturbabile fanno di “It’s heavy in here” un disco che, nonostante si possa anche intuirne la “forma” tirando in ballo quell’altra potentissima icona di Burt Bacarach, è disco d’una personalità rimarchevole, e d’un’ispirazione, se non prepotente, solidissima e pronta a saldarsi nella memoria con lo scorrere degli ascolti.
Le canzoni: Rolling Stone illo tempore definì “Fanfare”, la canzone con cui s’inagura l’ascolto, (e ch’è ripresa in chiusura, narcotizzata) la “Penny Lane” degli anni ‘90. Non lo so, davvero, cosa ciò possa significare, ma lo cito, perché sembra lusinghiero. Fatto è che l’incastro di batteria, chitarra e fiati, al servizio di una melodia così “classica” inaugurano il disco in una maniera tanto sintomatica che ci si potrebbe fermare lì, per simbiotizzare esteticamente con l’autore. Il disco presenta una carrellata di canzoni che tutte insieme si mostrano come blocco monolitico, ma singolarmente riflettono una miratissima ponderazione ed equilibrio fra le parti. Magari a primo ascolto si rimane un po’ freddini; a giungere preliminarmente è l’algidità di Matthews, l’attenzione costante alla forma. Ma lasciate che le melodie si sciolgano nel cervello e finirete, come me, ad avere bisogno fisico di ascoltarlo almeno una volta al mese per anni. E quando il led del lettore indicherà i numeri 6 (“Fried out broken girl”), 11 (“Flight and lion”) e 12 (“Poisons will pass me”), oltre naturalmente a 1, avrete la certezza di ritrovare melodie che fanno ormai parte del substrato archetipico del vostro cervello pop. Ma tutto insieme “It’s heavy in here” è uno dei classici meglio nascosti degli anni novanta.


In copertina: “It’s heavy in here” (front cover, Eric Matthews, 1995)

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