La “Scuola poetica siciliana” alle soglie di Dante

di Melo Freni

Il rapporto c’è ed è strettissimo : prendendo come esempio i due estremi del nostro discorso, ossia il notaro Jacopo da Lentini e la Scuola Poetica Siciliana come inizio, e Dante Alighieri come punto di arrivo, ci accorgeremo della conseguenzialità del secondo rispetto al primo. Cioè di Dante rispetto alla Scuola siciliana. Lo stesso Dante lo conferma, allorché nel canto XXIV del Purgatorio ricorda il Notaro come colui dal quale lui stesso “fore trasse le nuove rime”. E il nome del Notaro è inscindibile da quello di Federico II (Jacobus de Leontino domini imperatoris notarius) presso la cui corte palermitana si sviluppò la Scuola, come punto di partenza per quella che sarebbe stata, come lo è, la grandezza della poesia italiana a cominciare dalla seconda parte del 1.200.

Ma il discorso da fare è piuttosto articolato e richiede quel tanto che adesso noi ci accingiamo a trattare, con tutti i limiti per cui chiediamo scusa, costretti dal tempo e dalla personale esperienza.

E’ risaputo che il documento più antico della nostra letteratura è la “canzuna” a due voci di Ciullo D’Alcamo, componimento scritto probabilmente a Messina poco dopo il 1231, tra l’innamorato seduttore che implora madonna, la quale resiste e resiste finché in ultimo cede : si tratta del “contrasto”, il cui tema è frequentissimo nelle culture popolari , e non solo, di tutti i tempi e di tanti paesi. Ma a noi qui interessa il suo riferimento all’origine della nostra letteratura, al Cielo o Ciullo d’Alcamo che canta : “Rosa fresca aulentissima / ch’apari in ver la state / le donne ti desiano, pulzelle e maritate, / tragemi de sta focora / se t’este a bolontate. / Per te non ajo abento notte e dia / penzando pur di voi madonna mia …” ; e lei risponde “ Se di me trabaglite / follia lo ti fa fare / lo mar potresti arompere / e vento a seminare”, ossia : sei pazzo a farti illusioni su di me, ma poi, alla resa finale : “ … mio sire, poi juràstimi/ eo tutta quanta incenno / sono a la tua presenza / da te non mi difenno /a voi m’arrenno / e a lo letto ne jmo a la bonora / che chista cosa n’è data in ventura.”

A Cielo d’Alcamo seguirono immediatamente i poeti della “scuola” che fu proprio Dante a definire siciliana nel “De Vulgari Eloquentia”, in virtù della sua collocazione geografica.

Un’origine quella della Scuola che, come tale, non fu il frutto di un’aggregazione sorta all’improvviso, spuntata dal nulla, presso la corte palermitana di Federico II di Svevia ; si trattò piuttosto di un vero e proprio movimento spontaneo, e non di un sodalizio oggettivamente costituito.

E’ da tenere in conto la precisazione di Francesco Flora il quale, nella sua storia della letteratura italiana, parla di “un’epoca letteraria cominciata assai prima e giunta al suo splendore sotto Federico II dal quale prese il nome.” Il Federico II che Dante, pur avendolo collocato nell’Inferno, canto X, nel “Novellino”, chiama “chierico grande”, ossia grande maestro di dottrina, e che sempre Dante nella terza canzone del “Convivio” ricorda come quel tale che “gentilezza volse per lo suo impero”: lo “stupor mundi”, nella cui corte di Palermo accorsero rimatori, sonatori e trovadori d’ogni dove, che non necessariamente dovevano essere siciliani.

Infatti vengono ricordati i nomi dei “doctores” Jacopo Mostacci e Rinaldo d’Aquino, Inghilfredi da Lucca, Folcacchiero da Siena, Arrigo Testa da Arezzo, Giacomino Pugliese, Campagnotto da Prato, Paganino da Sarzana, Nascimbene da Bologna, Percivalle Doria di Genova (unico settentrionale) e altri, versificatori e menestrelli, anche provenzali, che a Palermo giungevano in cerca di fama e di fortuna, e dove incontrarono i colti siculi-greci e gli arabi sapienti, coi quali condivisero le esperienze poetiche. Esperienze che nella “scuola” trovarono una sintesi nella lingua che venne adoperata, nuova e originale, il “volgare siciliano”.

Furono diverse le ragioni per cui la scuola siciliana primeggiasse fra le altre (ben 14 ne ricorda Dante), che animavano il panorama della cultura italiana del tempo. Noi parliamo di poesia, ma così fervido era il richiamo della curia federiciana, che vi accorrevano anche filosofi, giuristi, scienziati : ricorderemo più avanti Pier delle Vigne , giurista oltre che poeta, ma si fanno anche i nomi di un Michele Scoto, che si era formato a Oxford, a Parigi e a Toledo e di un maestro Teodoro esperto in lingue e letterature araba e greca.

Ignazio Buttitta, il grande poeta dialettale siciliano, diceva : “La tavolal’abbiamo “cunzata” noi, gli altri, poi, si sono accomodati.”L’elemento aggregante della “scuola” fu dunque la lingua, i cui contenuti e le cui forme avevano le loro regole ; era il “volgare” , da intendere con nobiltà di significato e non nella comune accezione che oggi si potrebbe dare al termine ; per il volgare siciliano così scriveva Dante nel “De vulgari eloquentia” : “ Primieramente fermiamoci a considerare il volgare siciliano: giacché sembra che il volgare siciliano avanzi gli altri di gloria, perché ogni cosa che poetavano gli italici era detto siciliano …e perché troviamo moltissimi dottori aver cantato in quel volgare al tempo loro, e qualunque cosa i migliori degli italiani producevano primieramente compariva alla corte di sì grandi sovrani ; e poiché il soglio regale era in Sicilia, ne venne che quanto in volgare i nostri predecessori divulgarono si disse siciliano ; ciò riteniamo noi, né i posteri verranno a mutarlo.”

Questo scriveva Dante, che quel “vulgari” definiva lingua nobile, aulica, incorruttibile, modello che si accostava alla maestà e gravità del latino.

Dante attribuì al notaro Jacobo da Leontini il primato tra i poeti della “scuola”.

Leggiamolo questo Notaro : “ Donna, eo languisco e non so qual speranza / mi dà fidanza – ch’io non mi diffidi / e se merzè e pietanza in voi non trovo / perdut’aprovo – lo chiamar merzidi / chè tanto lungiamente ò custumato / palese ed in celato / pur di merzé cherire / ch’i non saccio altro dire / e se altri m’ adomanda ched agio eo / eo non so dir se non merzé per Deo” , ossia “O donna io soffro e non so quale speranza mi da fiducia perché di voi non diffidi; e se non trovo in voi ricompensa penso che sia inutile aspettare grazia e pietà che tanto a lungo, palesemente e in segreto, ho invocato, e se altri domanda che cosa ho mai , non so altro che dire “mi faccia grazia Dio”

Era una lingua utilizzata al servizio di sentimenti gentili, sempre amorosi, senza ombra di artificio e di retorica, volta verso la perferzione di un futuro che toccherà con Dante il suo massimo splendore : “Amor che nella mente mi ragiona / de la mia donna desiosamente / move cose di lei meco sovente / che lo ‘ntelletto sovresse disvia …” Sono versi del “Convivio”, per un banchetto spirituale composto in prosa e in versi, rivolto “ai pochi cui è dato di nutrirsi “del pane degli angeli” come il sommo poeta scrive nel verso undicisemo del secondo canto del Paradiso.

Ma ritorniamo alla lingua dei siciliani : autorevole è il riconoscimento di Dante, ma sul tempo di Federico II , e ancora prima del re Gugliemo II – proprio a mettà del 1.100, c’è una considerazione che non può sfuggire : la Scuola Poetica non nasceva, dicevamo, in una terra letterariamente brulla, bensì poteva contare su quanto aveva dato in Sicilia la cultura araba con la sua poesia, ad iniziare dall’anno 827 (lo sbarco dei musulmani a Mazara) ; una poesia che esprimeva il meglio di reazioni emotive e sentimentali, una poesia che, pur con le differenze che vedremo, aveva per oggetto lo stesso tema del Dolce Stil Novo: la donna e l’amore. Leggiamone dei frammenti: “Mi hanno ucciso sguardi di donne / tra un candore di denti e labbra di porpora scura. / Dopo avere creduto / che la mia giovanile follia si era conclusa, / eccola rendermi ancora pazzo d’amore e di passione” , il poeta è al-Billanubi, nativo di Butera, del quale riportiamo questi altri versi : “Nel suo volto ho visto la luna, / sorridente nel suo viso radioso./ Quando l’ho vista ho domandato al mio occhio / se l’avesse vista da sveglio oppure in sogno.”

Non a caso, presentando nel 1973 un’antologia di Michele Papa “I poeti arabo-siciliani”, Mario Soldati scriveva di una poesia nostalgica, struggente, disperata ; una disperazione che nasceva dall’amore per la patria, dall’amore per la natura, ma soprattutto dall’amore per la donna : una donna che si distingue, unica in quel tempo, per la sua carnalità che tocca momenti di alto erotismo, intriso di una raffinatezza che sa da “Mille e una notte”, o delle poesie erotiche cinesi destinate alle giovani spose.

Infatti, se per un poeta come Abd ar-Rahman il volto della sua donna “ è la luna che spunta”, nei versi di Ibn Hamdis (che fu il più grande di quei poeti) c’è ben altro, c’è l’ imprecazione per la notte che è terminata ed ha placato la brama del suo piacere : la brama di averla “fatta mia.” E se Al Mutabbiq, detto il siciliano, delicatamente scriveva “E quando il nettare fu sulle sue labbra / la sua guancia si vestì del rossore del tramonto” ancora Ibn Hamdis ritornava all’amplesso che “… ti sembra che sia tutto il paradiso.”

Orbene, non vogliamo insistere sulla ricca produzione della poesia araba, quello che vogliamo dire è che nella Sicilia di Federico II la “Scuola poetica” non nasceva da e in un campo di sterpaglie, ma aveva di che confrontarsi con una contigua produzione poetica. Una scuola con la quale lo “stupor mundi” volle affermare, accannto a quello politico, il suo primato anche culturale.

Da qui il riconoscimento di Dante verso l’imperatore e verso la scuola che la sua corte esprimeva ; ed ecco le ragioni per cui la “Scuola poetica siciliana” è stata sempre considerata come avvio del grande futuro storico della letteratura italiana, dal “Dolce stil novo” del bolognese Guido Guinizelli per arrivare a Dante.

(la seconda parte del presente saggio verrà pubblicata la prossima settimana, ndr)

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