LE PAROLE DELLA FINE
Beethoven, di Claude Aveline
(traduzione di Laura Liberale)
Beethoven è morto due volte. La prima a trentadue anni, dopo un’agonia di sei anni di cui nessuno attorno a lui sapeva, poiché l’aveva nascosta a tutti, nascondendosi lui stesso. Un fruscio, un mugghio incessante, giorno e notte, aveva pian piano sostituito il canto del mondo e quello delle voci amate. Beethoven sordo. Obbligato a dire, se fosse uscito dall’isolamento: “Parlate più forte, urlate, ché sono sordo!”. La sua lettera-testamento del 6 ottobre 1802 testimonia questa prima morte. “Ah! Come potrei rivelare la debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più perfetto di quanto lo sia negli altri, un senso che ho posseduto un tempo al massimo della perfezione, una perfezione che nel mio mestiere ben pochi hanno potuto vantare? Oh, non posso farlo!” Poco mancò che si uccidesse. Fu l’arte a trattenerlo, la missione che doveva compiere. E Beethoven s’insediò nella sua seconda vita, così come l’aveva prevista, sostanzialmente sciagurata: perdita degli amori e dolori passionali, l’ingratitudine di un nipote caro come un figlio, malattia, indigenza. Come consolazione aveva la natura, l’opera, qualche amico e delle ore di gloria.
Al museo Beethoven, a Bonn, nella casa natale, sono stati conservati i vari strumenti acustici nei quali, di volta in volta, egli ripose certamente la speranza di riallacciare il suo legame fondamentale con la vita esterna. Alcuni sono simili ai piccoli corni dei pastori; altri, enormi, mostruosi, grotteschi, sembrano usciti dal Giudizio universale d’un Bosch. Né gli uni né gli altri gli furono di alcun aiuto. Alla loro inutilità dobbiamo — per ciò che concerne la seconda vita, che durò venticinque anni — quei testimoni straordinari che sono i “Quaderni di conversazione”. Ne restano centotrentasette, più di undicimila pagine, e, degli ultimi, nessuno manca. Ma il sordo Beethoven non aveva a che fare con dei sordi, e non era muto. La nostra ammirazione ci farebbe dire: Che peccato! Non aveva bisogno di annotare le sue domande, le sue risposte, i suoi pensieri. Tutto svanito nell’aria. Ai quaderni manca l’essenziale, siamo noi ora a esser chiusi alla voce che vorremmo sentire.
Questi dialoghi con un fantasma sono a maggior ragione allucinanti. Dopo due mesi di un triste soggiorno dal fratello Johann, il 2 dicembre del 1826, Beethoven rientrò a Vienna, febbricitante e in preda alla tosse. Leggiamo quanto scritto dal nipote, mentre il chirurgo lo visitava: “Hai mal di testa? — Respira lentamente. — Da quando hai il ventre teso? — Non hai sentito dei brividi prima di questo attacco?”. Il medico annota le sue prescrizioni. Il fedele Schindler, violinista e direttore d’orchestra, viene a parlare di musica. Ben presto, problemi digestivi e idropisia aggravano le condizioni del malato. Un chirurgo fa una prima puntura e si affretta a scrivere: “Grazie a Dio, è passata. — Va già meglio? — Ha sentito la puntura?”. Certo, alcune risposte di Beethoven le conosciamo; quelli che aveva attorno erano consapevoli di assistere alla fine di un maestro, e in seguito la raccontarono. Non tutti. Il miglior compagno è Gerhard, dieci anni, il figlio dei Breuning, i suoi vicini. Beethoven lo chiamava Ariel. Ariel parla al fantasma: “Il tuo violoncello è pieno di polvere. — Che minestra vuoi domani? — La tua pancia si è rimpicciolita? Devi sudare di più. — Hai finito Walter Scott? Ti va di leggere Schiller? — Oggi ho sentito dire che le cimici ti torturano e ti svegliano continuamente. Dato che il sonno ti fa bene, ti porterò qualcosa per cacciarle via. — L’operazione è stata dolorosa? — Malfatti è il tuo miglior dottore. Ti vuole molto bene. — Verrò ancora una volta stasera verso le otto, se non ti dà fastidio…”.
Il 3 gennaio, Beethoven scrisse il testamento della sua seconda esistenza: aveva ben poco da lasciare. Nei due mesi che seguirono, pensò al lavoro: la Decima Sinfonia, un Requiem, una partitura per il Faust. Era ossessionato dalla mancanza di denaro, i conti sono un leitmotiv dei quaderni, insieme ai reclami della domestica. Discuteva con Schindler di letteratura, di politica, di storia. Beveva un po’ troppo, per protesta contro le voci che circolavano sui suoi eccessi alcolici. Il 17 marzo, la visita dell’illustre dottor Malfatti lo portò a credere di esser salvo. Era perduto, e non tardò a rendersene conto. Il 20, mormorò davanti al compositore Hummel e al giovane pianista Hiller: “Sto per fare il salto”. Il 23, Wawruch, il chirurgo, dovette mettergli sotto gli occhi le parole che gli confermavano l’imminenza della morte. “Beethoven le lesse con un autocontrollo esemplare”, scriverà poi Wawruch, “con lentezza e ponderazione. Il suo viso si trasfigurò. Mi diede cordialmente, solennemente la mano, e mi disse: Faccia chiamare il prete! Poi tacque e, pensoso, mi fece un segno con la testa dicendomi amichevolmente: Vi rivedrò presto. Poco dopo, con quella pia rassegnazione che affonda senza timore nell’eternità, si confessò e, rivolgendosi agli amici che lo circondavano: Plaudite, amici! Comoedia finita est!“.
Plaudite, amici. Applaudite, amici. Plaudite. Era l’esortazione che gli autori romani lanciavano al pubblico, a commedia terminata. Esortazione ripresa da Augusto e trasposta da Rabelais. Una commedia, la vita tragica di Beethoven? Si burlò di se stesso? (Non aveva affatto perso il suo spirito sarcastico). Oppure in quell’istante pensò che ogni vita, inclusa la sua, non fosse che una mera commedia, rispetto alla morte e all’eternità?
Poco dopo, Breuning gli fece portare del vino di Magonza, rimedio infallibile, si credeva, contro l’idropisia. Beethoven sussurrò: “Peccato, peccato. Troppo tardi”.
Non parlò più. L’agonia fu terribile. Il 26 marzo, verso le cinque, una bufera di neve sulla città portò l’addio della natura a colui che aveva cantato: “Onnipotente! Nei boschi sono felice, — felice nei boschi — là dove ogni albero parla di te. — Dio, che splendore!”. Un rombo di tuono attraversò il muro. Lui lo sentì! Sollevò la mano destra, la mano dell’opera, e serrò il pugno. Poi la lasciò ricadere.
Schindler era al cimitero, a fare preparare una tomba. Fu un giovane ammiratore, Ansel Hüttenbrenner, rimasto solo accanto a Beethoven nella piccola stanza, ad avere l’indicibile privilegio di posare le dita su quel viso e di chiudergli gli occhi.
Postilla iconografica, di Laura Liberale
Nel 1812, lo scultore viennese Franz Klein fece un calco del quarantaduenne Beethoven. Il volto del musicista venne lubrificato con olio e cosparso di gesso liquido; due cannucce gli vennero infilate nelle narici, per permettergli di respirare. Il primo tentativo fallì: Beethoven fu preso dal panico poiché temette di soffocare. Il secondo riuscì. A partire dal calco, Klein realizzò un celebre busto.
Il calco funebre di Beethoven è invece opera di Josef Danhauser, che, poche ore dopo il decesso, contattò immediatamente Stephan von Breuning, amico intimo del musicista, per ottenere il permesso di procedere (dagli archivi digitali della Beethoven-haus di Bonn).
In copertina: Beethon, Klaus Kammerichs (1986), Bonn, Germania (Foto: flickr).