Previsioni e lapsus di Luciano Mazziotta
Volendo seguire le suggestioni offerte dal titolo della nuova raccolta di Luciano Mazziotta, Previsioni e lapsus (edizioni Zona, 2014), non possiamo non sentirci proiettati in una terra di mezzo in cui domina il nostro rimosso coscienziale. Il tutto si potrebbe spiegare in termini meramente psicanalitici, ma è noto che questa scienza ha prestato, ormai da tempo, i suoi strumenti alla storia e alla filosofia, oltre che alla letteratura. La poesia di Mazziotta, quindi, è un’eziologia di un malessere personale e collettivo che impedisce ai più di trovare uno spazio proprio nel mondo. La ragione di questa mancata presa sulla storia è la frattura a cui Mazziotta allude nella poesia che apre il volume : Succede. E’ successo più volte/ sempre fuori quadro di sbieco/ tra tempie e lenti./ Succede che qualcosa si rompe/ che si sgretola il soffitto sul sofà/ appena intravisto nell’atto/ di cedere, di essere cenere bianca: crepa. La frattura è tra la visione e la sua formalizzazione. Questi versi ricordano il modo che aveva Wittgenstein di definire “l’Io” nella sue Ricerche, ossia come ciò che avviene “tra la fronte e la gola”. Cambia l’organo di percezione ma la pausa sensoriale a cui si allude resta la stessa. Nell’interferenza della riproduzione del reale c’è una faglia che è raddoppio di realtà, o fraintendimento, che è costitutivamente fonte di linguaggio. In questa frattura collassa di volta in volta il tentativo di un’appropriazione universalistica del mondo o, in altri termini, assolutistica della storia. La frattura è la faglia irriducibile in quanto segna l’identità onto-genetica dell’uomo. Lo scivolamento della parola è costante, inevitabile. Su queste nozioni, del resto, si arrovella il nuovo realismo. La realtà o è impatto con l’altro o è ideologia. Impattare con l’altro significa riconoscere la faglia che lo costituisce. Conoscerla, esserne consapevoli è già sintomo di guarigione. I versi della poesia in sequenze prognostico recitano: dovrò aspettare paziente/ che cause dei sintomi/ ed effetti supposti/ concordino. Si allude quindi alla permanenza in una stasi, ad una sospensione della connessione di causa-effetto. Nell’arsi sta il male, ma anche la cura: Che il male esiste-anche se i mali/non sembrano si sommino- come/ esegesi ossessiva di probabilità/ irrisorie/ che una fitta riaccende/ la statistica implode/ nel timore di avere ragione. L’attesa è scandita con toni sulfurei e ironici. Le forme adottate da Mazziotta per elencare i sintomi della malattia sono varie e sapienti: si va dalla lirica depotenziata dal suo tono drammatico, che a tratti potrebbe ricordare le stralunate liriche di Dario Villa a tratti il modello conclamato di Elio Pagliarani, fino alle prose della sezione intitolata Maturità berlinese. Anche qui è evidente il gioco ironico con il titolo del libro di Walter Benjamin, Infanzia berlinese. Questa sezione è composta da prose poetiche che riproducono graficamente i blocchi abitativi di cui è costituita la città tedesca. Sono lasse fitte che propongono l’accumulo progressivo della nuova architettura di una città ricostruita dopo la riunificazione dell’89, un lunghissimo dopoguerra, e mai compiuta nella forma. La città è cartografia della connotazione emotiva dello scrivente. Qui si ha la presa d’atto delle cose. La maturità è la visione dei blocchi e dei rischi ad essi connessi. I blocchi in termini psicanalitici sono l’incistarsi delle ferite, il crescere su se stessi di una forma estranea, mai metabolizzata. La ferita non riconosciuta è in quanto tale esposizione del soggetto al rischio di alienazione radicale. Qui si gioca la partita del tempo esistenziale e della storia collettiva. Riconoscere il male è il primo passo per la guarigione. Seguiamo le calzanti parole della prosa a pagina 37: a berlino pioveva, ma in pochi aprivano ombrelli e non per tutti. nell’unico giorno di sole a treptower, il bianco del monumento al soldato sovietico, bianco di cubi, regole e simmetrie, tutto al suo posto […] se quello che vedi è astrazione dell’ordine, si cova qualcosa da qualche altra parte, nel corpo, magrezza fittizia, che se la fotografi è vera, che se ti fotografi l’interno diventa un esterno da controllare. un museo. il museo della stasi che niente era fuori controllo, che si viveva in ascolto e per addizione. e invece qualcosa qui cova e starà per aprirsi una faglia. poi piove: qualcuno, per noi, apra l’ombrello. Oltre alle opere di Malevic, citato da Mazziotta in esergo al libro e alla sezione ultima del testo, questa sezione del libro ricorda il romanzo di Ferdinand Bordewijk che s’intitola per l’appunto Blocchi. Qui l’uomo degli anni trenta del novecento vive alienato in una città fatta di forme perfettamente squadrate. Tra il collasso delle forme condivise e il rischio di una forma immediatamente collettiva e asettica, la scrittura sceglie di porsi nella faglia mai richiusa dell’io: perché per dire io sono e mi chiamo ci vuole un giorno, e forse meno, ma per dirlo in modo compiuto, aggiungendo l’avverbio, serve un piano. La lingua, per dire, è fine della città, per cantare l’intreccio dell’esserci, perché ci sia racconto dell’uno e dei molti: eravamo qui, a berlino, e te lo sto dicendo, almeno. La faglia tra i blocchi è il punto di incisione della poesia tra gli estremi pre- e il lapsus; ciò vale la cartografia di una lingua è l’indizio di un soggetto. Questo libro di Mazziotta è quindi una poetica perlustrazione sulla consistenza dell’io (non è un caso che il postfatore del libro sia Andrea Inglese). Le faglie sono i punti d’origine della nostra natura, solo tornando ad essi si evita di “diventare cose” e ci permette di agire con la parola in anticipo sullo zero: In anticipo sullo zero. Cosa./ Diventare cosa. Cosa conclusa. Cosa conclusa. Diventare cosa./ Cosa. In anticipo sullo zero.
Vincenzo Frungillo