FLASHES E DEDICHE -108 – LA PROSSIMITA’ ORIGINALE DELLA MARICA

È stato appena pubblicato da Il leggio editore, nella collana Radici diretta da Gabriela Fantato,  “Concordanze e approssimazioni” di Francesca Marica. Siamo davanti a una delle migliori opere edite di questo 2019; la Marica ha atteso molto a questo libro e ha fatto bene. Un progetto e una gestazione che hanno ben ripagato l’attesa. Similia similibus curantur, così ci si approccia alla poesia, alle persone, alle persone che hanno fatto poesia. La prossimità diventa un linguaggio speciale per l’autrice che  procede spesso per immagini ma non in maniera impressionista, ma per scavo e sottrazione come per fissare, indelebilmente, sillabe e memoria. Se la filigrana del libro,neppure troppo celata,  è il tempo, la capacità di scrittura trasforma tutto in misura. È un lavoro di minuta acrobazia quello della poetessa che pochi riscontri trova nella produzione attuale. Un dettato originale privo di orpelli, di retorica, di freddi tecnicismi che inondano la contemporaneità. La sensibilità, umana e poetica,  della Marica esplode in sordina, unendo frammenti in senso ascendente e fiammate di versi. Tutta la preparazione mostrata dall’autrice, negli anni, come solida critica, si riversa anche in quest’opera. Un lavoro che meriterebbe ulteriori e più approfondite analisi, al di là di questo spazio ristretto. Necessita  assolutamente di essere letto, soprattutto da quella massa presuntuosa che pubblica “poesia da rotativa”:  un ciclostile di poeti, poetucoli, poetastri.

La foto della bella copertina è di Luisa Gallisay

 

 

 

 

 

 

 

Non sei andata via

hai solo deciso di dormire per un po’.

Sei viva anche se non ti manifesti dappertutto

ma vegli senza tregua e spingi la parola

un poco oltre, fino a dove riesci a dire.

 

È la neve che misura. È la neve la salvezza degli invisibili.

Un legame di piccole mani bianche.

 

 

*

Cominciava veramente quando,

sempre più veloce, veniva il tempo

dei film muti, delle gambe in alto

a sfidare le ortiche, dei chilometri tritati nel digiuno.

 

Era la favola della periferia lontana,

con i porti sepolti a picco

e la vergogna degli inganni.

Nessuno che supplicava di perdersi tra quelle strade,

la disattenzione del giorno a fare il foglio bianco.

Io vi avrei amati tutti, uno a uno,

nella totale imperfezione del momento.

 

Serve un gesto di molta precisione

per aiutarsi a crescere ancora.

 

Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace.

 

 

 

 

*

La donna, la sposa,

poi la madre, quella che non scorda.
Tremano le mani dove

la pelle tiene alta la scommessa, davanti.
L’assenza dei corpi e la recita

con gli occhi rimasti.
Si parte nei giorni di festa

le orecchie fisse sulla pancia sono fantasmi sottili.

 

Quello che resta

è racchiuso nella incertezza

dello sguardo. Meglio non dire

dove si fermano le gambe per paura di cadere.

La vertigine è reale, si sente con gli occhi.

 

Si frantuma piano il mio taglio di donna,

quello vivo, nascosto nelle ossa,

quello che non si lascia vedere.

 

 

*

 

Non si può incoraggiare nel sangue

il cordoglio dell’assenza

di quando le sparizioni hanno forma di umano

e restano da contare gli spiccioli sulle dita.

 

La vita è un mangiarsi dal di dentro,

come fosse sempre stato, non ci fosse alternativa.

 

Ci sono ombre che riscattano attese,

tra file di betulle altissime con sembianze

di ordinate signorine.

 

*

 

Protetti da una musa

chiediamo che il bianco torni a essere familiare

senza la minaccia del cielo,

con le armi deposte sulle scale

appena oltre la ragione di un altrove

a cui credere subito.

 

È l’atto di fede di una giovane sposa

che non conosce la parola inganno

col sesso dato

e la nebbia che mima un ritorno

tra balconi che dicono la giustizia era ieri

e luci che fanno testamento col silenzio che c’è

 

 

*

 

Il destino deciso in quell’istante

gli occhi e il sonno, nonostante.

Ci aveva messo poco a orientarsi

il cielo non nasconde l’origine

di quello che chiama a raccolta.

 

Le cose possono restare indietro,

può succedere, anche solo una volta.

 

L’ironia di chi crede il contrario

è un passo falso, un’ubriachezza molesta,

una malattia che guarisce solo

dopo innumerevoli anni.

 

 

 

*

 

C’è il morso della sera
dentro ai giorni in cui si compie l’anno
ed è una marcia di ritorni.
Non conosco l’ordine delle mani
il loro tentativo di esistere.
Si può spiegare tutto

anche l’approssimarsi di una bocca,
il suo preciso mormorare
con i sensi in caduta intorno.

 

Tutto chiaro mentre sale.

ma domani non sarà più qui
e ci vergogneremo dell’attesa.

Batterà la testa sul tempo un poco mosso,
batterà la lingua. Tutto previsto, senza sosta,

senza sapere dove.

 

*

 

Parlavamo la lingua dei dimenticati

senza che il respiro ne avesse memoria.

Mettevamo a fuoco una mancanza.

La consapevolezza di essere sopravvissuti

a tutti gli aggiustamenti posteriori

ci rendeva forti, ci faceva credere

che una giustizia potesse

incredibilmente esistere ancora.

 

 

*

 

Tu arrivi e prendi dove viene,

chiami a raccolta i nomi,

affidi a credito le possibilità di dire,

nel punto esatto dove gli alfabeti riscrivono le storie.

 

C’è un tempo che implora di essere chiamato,

trattenendo il respiro e la salvezza

come l’ora che vince il momento,

rivelando i disegni, i paradigmi, le minute acrobazie.

 

Bisognerà portare la luce ancora in piano.

scolpire feritoie lungo i bordi delle strade,
arretrare su ferite d’animale,

parlare con la carta in mezzo agli occhi.

 

 

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