È stato appena pubblicato da Il leggio editore, nella collana Radici diretta da Gabriela Fantato, “Concordanze e approssimazioni” di Francesca Marica. Siamo davanti a una delle migliori opere edite di questo 2019; la Marica ha atteso molto a questo libro e ha fatto bene. Un progetto e una gestazione che hanno ben ripagato l’attesa. Similia similibus curantur, così ci si approccia alla poesia, alle persone, alle persone che hanno fatto poesia. La prossimità diventa un linguaggio speciale per l’autrice che procede spesso per immagini ma non in maniera impressionista, ma per scavo e sottrazione come per fissare, indelebilmente, sillabe e memoria. Se la filigrana del libro,neppure troppo celata, è il tempo, la capacità di scrittura trasforma tutto in misura. È un lavoro di minuta acrobazia quello della poetessa che pochi riscontri trova nella produzione attuale. Un dettato originale privo di orpelli, di retorica, di freddi tecnicismi che inondano la contemporaneità. La sensibilità, umana e poetica, della Marica esplode in sordina, unendo frammenti in senso ascendente e fiammate di versi. Tutta la preparazione mostrata dall’autrice, negli anni, come solida critica, si riversa anche in quest’opera. Un lavoro che meriterebbe ulteriori e più approfondite analisi, al di là di questo spazio ristretto. Necessita assolutamente di essere letto, soprattutto da quella massa presuntuosa che pubblica “poesia da rotativa”: un ciclostile di poeti, poetucoli, poetastri.
La foto della bella copertina è di Luisa Gallisay
Non sei andata via
hai solo deciso di dormire per un po’.
Sei viva anche se non ti manifesti dappertutto
ma vegli senza tregua e spingi la parola
un poco oltre, fino a dove riesci a dire.
È la neve che misura. È la neve la salvezza degli invisibili.
Un legame di piccole mani bianche.
*
Cominciava veramente quando,
sempre più veloce, veniva il tempo
dei film muti, delle gambe in alto
a sfidare le ortiche, dei chilometri tritati nel digiuno.
Era la favola della periferia lontana,
con i porti sepolti a picco
e la vergogna degli inganni.
Nessuno che supplicava di perdersi tra quelle strade,
la disattenzione del giorno a fare il foglio bianco.
Io vi avrei amati tutti, uno a uno,
nella totale imperfezione del momento.
Serve un gesto di molta precisione
per aiutarsi a crescere ancora.
Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace.
*
La donna, la sposa,
poi la madre, quella che non scorda.
Tremano le mani dove
la pelle tiene alta la scommessa, davanti.
L’assenza dei corpi e la recita
con gli occhi rimasti.
Si parte nei giorni di festa
le orecchie fisse sulla pancia sono fantasmi sottili.
Quello che resta
è racchiuso nella incertezza
dello sguardo. Meglio non dire
dove si fermano le gambe per paura di cadere.
La vertigine è reale, si sente con gli occhi.
Si frantuma piano il mio taglio di donna,
quello vivo, nascosto nelle ossa,
quello che non si lascia vedere.
*
Non si può incoraggiare nel sangue
il cordoglio dell’assenza
di quando le sparizioni hanno forma di umano
e restano da contare gli spiccioli sulle dita.
La vita è un mangiarsi dal di dentro,
come fosse sempre stato, non ci fosse alternativa.
Ci sono ombre che riscattano attese,
tra file di betulle altissime con sembianze
di ordinate signorine.
*
Protetti da una musa
chiediamo che il bianco torni a essere familiare
senza la minaccia del cielo,
con le armi deposte sulle scale
appena oltre la ragione di un altrove
a cui credere subito.
È l’atto di fede di una giovane sposa
che non conosce la parola inganno
col sesso dato
e la nebbia che mima un ritorno
tra balconi che dicono la giustizia era ieri
e luci che fanno testamento col silenzio che c’è
*
Il destino deciso in quell’istante
gli occhi e il sonno, nonostante.
Ci aveva messo poco a orientarsi
il cielo non nasconde l’origine
di quello che chiama a raccolta.
Le cose possono restare indietro,
può succedere, anche solo una volta.
L’ironia di chi crede il contrario
è un passo falso, un’ubriachezza molesta,
una malattia che guarisce solo
dopo innumerevoli anni.
*
C’è il morso della sera
dentro ai giorni in cui si compie l’anno
ed è una marcia di ritorni.
Non conosco l’ordine delle mani
il loro tentativo di esistere.
Si può spiegare tutto
anche l’approssimarsi di una bocca,
il suo preciso mormorare
con i sensi in caduta intorno.
Tutto chiaro mentre sale.
ma domani non sarà più qui
e ci vergogneremo dell’attesa.
Batterà la testa sul tempo un poco mosso,
batterà la lingua. Tutto previsto, senza sosta,
senza sapere dove.
*
Parlavamo la lingua dei dimenticati
senza che il respiro ne avesse memoria.
Mettevamo a fuoco una mancanza.
La consapevolezza di essere sopravvissuti
a tutti gli aggiustamenti posteriori
ci rendeva forti, ci faceva credere
che una giustizia potesse
incredibilmente esistere ancora.
*
Tu arrivi e prendi dove viene,
chiami a raccolta i nomi,
affidi a credito le possibilità di dire,
nel punto esatto dove gli alfabeti riscrivono le storie.
C’è un tempo che implora di essere chiamato,
trattenendo il respiro e la salvezza
come l’ora che vince il momento,
rivelando i disegni, i paradigmi, le minute acrobazie.
Bisognerà portare la luce ancora in piano.
scolpire feritoie lungo i bordi delle strade,
arretrare su ferite d’animale,
parlare con la carta in mezzo agli occhi.