Maria Teresa Coppola, SOTTOVOCE (Helicon edizioni 2023): la recensione di Ivano Mugnaini

di Ivano Mugnaini 

Il tempo è un dio svagato, / feroce. / Inerme, / puoi solo raccontarlo”. Sono i versi conclusivi del componimento di pagina 53 del libro. Al di là della forza cruda e fascinosa della loro ineludibile verità, è possibile individuare in questa serie di parole rapide e taglienti, in questo alternarsi di sillabe brevi e lunghe, un codice Morse criptato, un messaggio nascosto rivolto dall’autrice a se stessa e a chi legge. Il tempo domina questo libro; ne orienta i modi, verbali e linguistici, il sogno e il resoconto, il bilancio del dare e dell’avere, gli amori vissuti e perduti.

Quella parola solitaria (un passo dopo il vocabolo “feroce”), quella definizione perentoria, “inerme”, assume allora una potenziale duplice valenza. Inerme può essere il tempo, vittima della propria sete di distruzione, oppure inerme è chi è in balia del suo svago, del gioco distratto e inesorabile con cui ci lacera e ci divora. La sola forza residua è il racconto. Non si sa se sia esercizio vano o paradossale forma di riscatto. Di certo il racconto, la poesia, non ha la forza di cancellare ciò che è stato né di ridare vita a ciò che è morto. Eppure, sebbene sottovoce, per volontà e per istinto si ricorda ciò che è accaduto, ciò che era e ciò che non è più. La malinconia che ne deriva è una compagna fedele che sa abbinare graffio e carezza.

Senza strepito, senza forzature retoriche e senza inutili colpi di teatro, Maria Teresa Coppola dice tutto ciò che davvero conta, l’amore, il distacco, il lutto, la tenacia del ricordo e della volontà. Con eleganza sincera trasmette sensazioni individuali che grazie alla poesia diventano universali, permettendo intense immedesimazioni.

Sottovoce ha vinto il premio speciale della giuria del Premio “Casentino” 2023. Come opportunamente evidenzia Cristiana Vettori, è sorprendente che si tratti di una raccolta d’esordio. Direi che è sicura la lunga frequentazione dell’autrice con la poesia, sia come lettura quotidiana che come forma di dialogo con se stessa, immedesimazione, cura, punto di riferimento nella quiete e nella tempesta. Tutto ciò ha fatto da “incubatrice”, generando, con adeguata lentezza, i versi di questo libro. La Vettori definisce la silloge “delicata […] con toni raffinati e lievi”. È sicuramente vero, i versi di questo libro, è giusto confermarlo, sono eleganti e delicati.

È altrettanto vero però, a mio avviso, che di pari passo, con identica evidenza, sono alimentati da un fuoco di sensazioni e passioni autentiche che fanno sì che questo libro non sia un dolce e innocuo ricamo di parole sussurrate ma, al contrario, una fonte ardente di immagini, riflessioni, richiami. Mai urlati, va ribadito, ma, nonostante questo, o forse proprio in virtù di questo, estremamente penetranti, nel senso letterale del termine.

C’è un fuoco che brucia sotto la superficie in apparenza quieta delle acque e delle terre di questa silloge. Non arde in modo palese, non si manifesta con lapilli e scintille. Ma agisce nel profondo, sotto la pelle, arrivando ai pensieri e alle sensazioni fondamentali, potremmo dire vitali. L’autrice parla di dolori e di gioie, sovrapponendo presente, passato e ipotesi di futuro. Parla dell’inganno dell’amore e dell’ineluttabilità dell’amore, di ciò che opprime la bellezza della terra e la pace tra gli uomini, del brutto e del dolore, facendo sì che, per contrasto, aumenti la sete e la fame di bellezza in coloro che sono in grado di coglierla, perfino nelle macerie di un sentimento smarrito.

La Coppola si tiene lontana sia dal ricalco pedissequo di modelli classici e alla moda sia dalla sperimentazione sterile fine a se stessa. Non ignora la tradizione, anzi i riferimenti letterari, mitologici e filosofici sono numerosi e frequenti. Ma, forse proprio in virtù della lunga incubazione a cui si è fatto cenno poco sopra, forse per il merito di avere saputo attendere, lasciando “decantare” dentro di sé le sue letture, la Coppola è riuscita a dare vita ad un suo modo di esprimersi, autonomo, individuale. Ciò vale sul piano del lessico, della cadenza e soprattutto dei contenuti, del modo in cui utilizza lo strumento della parola per esprimere i contrasti e i chiaroscuri suoi personali in grado tuttavia di fare da specchio per ciascuna lettrice e ciascun lettore.

Ha saputo crearsi uno spazio in cui, accanto alle parole chiave del suo scrivere e del suo esistere, può osservare le cose del mondo, quelle a lei affini e quelle aliene, contrarie, antitetiche. Parlando di tutto in modo che ogni argomento abbia una propria autonomia ma al contempo si riversi nell’alveo della tematiche fondamentali, strutturali.

Una verza, un carciofo, una cipolla: / sfogliare attentamente, / se vuoi foglie tenere / t’insegnano al mercato come fare, / le donne dispensiere di segreti. / Mani rosse e gonfie addestrano / nel gelo del mattino. / Gli strati che scarti non buttarli, / fanne / sapienza di brodo vegetale, / preludio di terriccio. / Facile mirare al cuore, / saggiarlo, sentirsene appagati / e liberarsi dal resto. / Ma il resto, / anch’esso può restare / e fare vita”.

Poco oltre, quasi a contatto, nella pagina successiva, una poesia che testimonia quanto occhio e cuore, fuori e dentro, convivano nello stesso appartamento, in angoli separati, con le spalle al muro in atto di difesa. Ma la loro convivenza non ha alternative, è ineluttabile: “Dal fondo degli occhi cespugliosi / il vecchio osserva / il tempo, gli alberi, la piazza. / Puntella in silenzio / la sua quota di universo. / Finché rimarrà lì / non svanirà. / Ma il sindaco / ha rimosso la panchina: / clochards e africani / insidiano il decoro. / Ha rimosso anche il vecchio / e il mite puntello del suo sguardo. / Non passo più di lì. / Ho paura / che anche la piazza sia svanita”.

Il gioco (serissimo, coinvolgente) delle immedesimazioni che la Coppola ha saputo orchestrare trova qui ulteriore e “poliforme” conferma: l’autrice parla di un vecchio che osserva una piazza che non conosciamo, un sindaco che non è il nostro e di stranieri che non conosciamo e con cui non abbiamo mai interagito. Eppure, noi che non siamo ancora anagraficamente vecchi, che abbiamo la nostra carta di identità con la cittadinanza scritta bella chiara, che non ci siamo mai seduti sulla panchina di una piazza che non abbiamo mai visto e neppure immaginato, grazie alla poesia, per la sua capacità di chiamare in causa facendo un appello a cui non ci si può sottrare, improvvisamente diventiamo noi, uomini e donne, quel vecchio, e allo stesso tempo diventiamo clochard e africani. Soprattutto, anche noi, nelle nostre stanze, sentiamo un’identica paura. La paura che la piazza sia svanita. E, anche se vorremmo dirci che non è vero, e che il vecchio è solo un personaggio inventato, non è difficile arrivare a pensare che la piazza sia la nostra stessa vita, quel tempo feroce e inerme che ci è stato dato in sorte e in eredità. La paura più grande è che la piazza sia tutto il bene e tutto il male, tutto il sogno di quiete, di bellezza e di amore che avevamo e che è sparito, d’un tratto, nel momento in cui è divenuto effettivo un atto amministrativo per il decoro urbano. Firmato da chissà quali mani in chissà quale asettico e distante ufficio.

Il linguaggio di Maria Teresa Coppola è evocativo e poliedrico: alterna dolcezza e amarezza, cupezza e ironia. Anzi no, non le alterna, le affianca, le sovrappone, lascia che camminino di pari passo, spalla a spalla, verso il punto esatto in cui non le distinguiamo, non sappiamo più dire quale sia l’una e quale l’altra. Non siamo neppure più in grado di dire se si allontanano o se procedono verso di noi. Né se noi stessi siamo fermi o ci muoviamo verso di loro, pensando al presente o rievocando un ricordo che a rigor di logica dovrebbe anch’esso svanire e invece, beffardamente, salvificamente, è nitido come una foto ad alta definizione.

La luce ostile feriva / acini di uva rossa / negli occhi amari. / Due soldi di pianto / non mi comprano più. / Il banco non li impegna. / Ti lascerò / dove gracidano, / nascoste, le rane. / Dove esili steli di giunchi / trattengono squame di stelle”.

Il lirismo non è in mai in questo libro semplice ornamento estetico. Ha la funzione di far risaltare, per contrasto, la ferita di ciò che si è perduto e si perde istante dopo istante. L’autrice alterna tasti luminosi e tasti cupi, un contrappunto costante in cui ogni vocabolo completa il quadro con chiaroscuri caravaggeschi. Gli steli sono esili, gli occhi amari, perfino il pianto vale due soldi se non è autentico sotto un cielo in cui le stelle hanno le squame come serpenti o come pesci dispersi in uno spazio sterminato.

Maria Teresa Coppola non stempera e non edulcora. Tende a fornire un’immagine veritiera e completa, mostra anche il lato oscuro della luna e della terra, di ciò che riusciamo a percepire, della “realtà” e del “sogno”.

Nello stesso verso, o nella stessa pagina, o in pagine vicine o adiacenti, fa convivere bellezza e desolazione. La lirica e intensa evocazione della nostalgia del padre di pagina 20, ad esempio, sfocia, nella pagina successiva in un agro disincanto: “Niente nuove da te / Non mi innamorano più / le tue parole. / Solo, mi manca, l’incanto della voce. / Ho appeso le parole, le mie, / ai fili del bucato. / Ammuffite. / Pulcini azzoppati / dal lancio di serrature arrugginite. / Rondini disgustate, / evaporate verso un altro cielo. / Muto, in disparte, il battito del cuore. / Ricomincia a piovere.”

Quelle che alcuni di certo considereranno termini “antipoetici” o perlomeno distanti dal canonico repertorio, assumono invece qui, nei versi della Coppola, una valenza specifica e un effetto notevolmente suggestivo. L’accostamento in apparenza stridente tra “innamorano”, “incanto”, “rondini”, cuore” e, sul fronte opposto, “fili del bucato”, “ammuffite”, “azzoppati”, “arrugginite”, crea un effetto di verità e di completezza. I vocaboli classici, dolci, posti accanto a espressioni agre, scabre, quotidiane, non crea stridore, e, soprattutto, non rende meno suadenti i primi né meno concreti i secondi. Niente perde di intensità, da entrambi i poli. Ecco allora che, il verso conclusivo, “Ricomincia a piovere”, non è più una semplice annotazione sulle condizioni meteorologiche. Come in quadro d’autore, come in una musica ispirata, il passaggio dalla descrizione alla riflessione avviene grazie ad un dettaglio. Si passa dal guardare al vedere, ossia alla interiorizzazione, senza bisogno di intervento autoriale, senza espedienti retorici. La veridicità del quadro descritto genera in modo spontaneo quella sensazione densa, complessa, che dal contingente conduce al pensiero del trascorrere della vita e della presenza di ciascuno di noi all’interno di quella cornice fatta di battiti del cuore e di serrature arrugginite.

Il bilancio esistenziale del sé, “Un cuore inutile, / che brucia ma non sboccia, / incapace di sottrarsi all’inverno, / inerme, sospettoso, sterile. / Adesso lo rinnego. / Ma è tardi”, è sempre collocato nelle liriche di questo libro nell’ambito e nella prospettiva dell’altro: “E l’acqua si gonfia, si impenna, / tracima, travolge. / Mano destra – mano destra, / guancia sinistra – guancia sinistra, / lievi carezze negli occhi che si incontrano. / E tremo, mi assale come un’ansia vaga, / terrore che, per impazienza, / sia Euridice, stavolta, a perdere Orfeo”.

I riferimenti classici, come detto, sono numerosi e sempre selezionati e inseriti con precise finalità espressive, mai per abbellimento. Perfino uno dei simboli più frequentati dai poeti di ogni epoca, la luna, cara, tra gli altri, a Saffo, García Lorca, Baudelaire, Shelley, Leopardi e mille altri, diventa qui “In questa sera blu, / buona come un gelato, / dolce di zucchero filato / vinto alla fiera. / E anche se la luna / è volata chissà dove / riacquisto il passo, / stretto tra le braccia / un carico di stelle”.

La Coppola non è meno affascinata dalla luna di quanto lo siano stati i poeti menzionati poco sopra. Solo che per portarla a far parte del proprio spazio poetico ha bisogna di renderla affine ai suoi sogni e alla sua realtà, al carico dei desideri e delle consapevolezze che convivono nel microcosmo del suo cuore e della sua mente. Per poterla stringere tra le braccia (e tra le sue parole) ha bisogno di sentirla vicina all’orizzonte della sua sete di gioia e ai sassi dei sentieri della sua malinconia.

Il senso mi sfugge / e lo rincorro, / si nasconde / ma so che è giusto lì, / dietro l’angolo, / che aspetta / ch’io mi distragga. / Da me, / che non so essere stanziale. / Il senso è un bambino dispettoso. / Gioca con me, che non ho mai / Imparato a giocare”.

In questi versi è racchiusa a mio avviso una sintesi efficace sia dell’approccio dell’autrice con il proprio mondo (non solo letterario) sia con la sua scrittura, con il modo in cui esprime e manifesta se stessa tramite la parola. Al contempo, questi versi racchiudono la valenza di questo libro, la sua originalità e forza: concetti di grande rilievo sono espressi qui senza mai perdere il dono (e il fardello) del dubbio ma, allo stesso tempo, senza smettere di cercare, a dispetto di tutto, quello spiraglio di luce, sia essa luna o lampione di un viale asfaltato popolato a tratti da rari pedoni che portano a spasso le propri solitudini.

Il senso è un bambino dispettoso, è vero. Fugge sempre dove vuole lui. È anche prepotente, ci porta a giocare un gioco difficile da comprendere che vince regolarmente sempre e solo lui. Eppure, questo libro ne è una bella conferma, se ci si ritaglia, con ironia e profondità, uno spazio per osservare le cose del mondo e le cose del cuore e della mente da una prospettiva autonoma, non condizionata da mode e cliché, si può osservare il gioco e raccontarlo, a noi stessi e agli altri, in modo non convenzionale.

Il bambino dispettoso e viziato continuerà a dominare i destini, questo è indubbio. Ma, nelle pause tra un grido e l’altro, tra uno strepito e un ghigno beffardo, potremo ragionare e rievocare, tra dolcezza e malinconia, ciò che si è perduto. Il tempo che, anche grazie alla verità del sogno e della poesia, in realtà non si è perduto mai.

 

 

 

 

 

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