di Mario Fresa
1.
«Spaccalo in due / questo silenzio, / con la parola fendente.» Nei versi forti di Federica Giordano c’è il senso di una continua approssimazione ad una soglia che, appena premuta e superata, ne mostra subito un’altra, e un’altra ancora: ed è appunto l’inarrestabile congiungersi e alternarsi di questo avanzare e arretrarsi ad inscenare il racconto di un invisibile (e altrimenti indicibile) legame misterioso, nel quale si fronteggiano la parola e il silenzio: un denso moltiplicarsi di specchi, un gioco estremo di presenza e di dissolvimento che rendono la poesia di Giordano fervidamente vivida e inquieta, adamantina e sfuggente.
Si annuncia, in tale gioco di alternanze e di specchi, l’emergere di una torsione che spinge la parola alla scomparizione di sé e all’improvviso e rigenerato ricomporsi, lucidamente mutato e rifiorito, della prospettiva osservata. Il verso «permane poco nel limbo delle compensazioni» e aspira alla costituzione costante di un processo di risoluzione e di mutamento che declina la poesia in vera e propria dissolvenza metamorfica: in un complesso, cioè, di senso, immagine e suono che appare sempre nuovo e diverso, uno e molteplice: acquatico divenire che fa, della parola, uno spazio della dissoluzione trasparente e della fuga.
In tale prospettiva, la scrittura di Giordano vuole tendere a trasformarsi in carne cosmica: essa percepisce sé stessa come evento ciclico di principio, di cancellazione e di rinascita, nel segno di un avvicendamento dialettico (ma irrisolvibile) di scomposizione e ricomposizione, in cui la presa di coscienza di sé avviene attraverso l’altro; così la scena raddoppiata, teatrale, della metafora conduce, infine, a dispiegare il volto della realtà: un volto estremo, che appare denudato e scoperto per il tramite dello stesso travestimento poetico.
2.
Abbiamo citato alcuni versi tratti dalla prima raccolta di Giordano: La parte che ti ho affidato (2011). C’è già una tensione potente, in questo libro, che invita, quasi, la voce poetica a farsi carico dell’intera carne del mondo: lo sperdimento e l’espoliazione di sé giungono, allora, quasi per paradosso, a una forma di arricchimento e di dilatazione in cui sembra di risentire l’eco stordita di certi versi di Thomas: «La forza che nella verde miccia spinge il fiore/ Spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi/ È la mia distruttrice.» (The force that through the green fuse drives the flower/ Drives my green age; that blasts the roots of trees/ Is my destroyer).
In questa tragica-gioiosa risplendenza, distruggitrice e ricreatrice insieme, sembra pure di riavvertire le acutissime e febbrili visioni rimbaldiane del Veggente che ha «a suo carico l’umanità e perfino gli animali»: la gemmazione e la distruzione alludono, dunque, a intendere la stessa scrittura poetica come un fuoco annichilante-rigenerante, morente e rinascente sempre.
La scrittura diventa, allora, corpo e voce dal carattere nervosamente proteiforme: il testo si muta e si converte in ipertesto polifonico e cangiante, riuscendo a far confluire il discorso poetico in una forma-canto che è, allo stesso, anti-edonistica e lucidamente caotica.
Il tonale e l’atonale, il chiaro e lo scuro, la dolcezza e la violenza si muovono, dunque, in perfetta simbiosi ritmica: e non è un caso che gli studi di Federica Giordano vedano proprio nella musica una parte di non vicaria importanza nel processo di formazione e di fruttificazione delle proprie radici culturali.
Musica e canto, parola e suono, timbro e carne, immagine e corpo: un apparente rincorrersi di differenze che, tuttavia, spinge di continuo all’approssimarsi di un’illusiva (elusiva?) forma di provvisoria risoluzione; e mentre «il corpo muore, / sulla pietra la luce è ruga monumentale»: si tratta, cioè, di un perenne accostarsi ai confini di una labile, fiabesca sospensione che rimanda senza sosta alla configurazione di un autentico accordo; volendo alludere di nuovo a un possibile raffronto col linguaggio della musica, potremmo pensare a una serie intermittente (e incontrollabile) di sempre germinanti cadenze d’inganno.
3.
Il risultato è ricco di sorprese e di mistero. La lingua di Federica Giordano è sempre liquidamente mobile: dall’armonia perfetta si passa alla conflagrazione di un cluster; dalla apparente eufonia si cade nella violenza di una brusca precipitazione, o di uno sconvolgente scivolamento nelle viscere estreme di un’auto-scorporazione.
L’identità del poeta è immessa in una regione di indecifrabile alterità; ed è proprio questa sfasatura a potenziare la scena della stessa parola poetica: una parola-immagine che tende a un’ inesausta ricreazione del reale, attraverso un’ininterrotta scissione dei significanti.
4.
Lacan afferma: «Tra il significante di un nome e quello che lo abolisce metaforicamente si produce la scintilla poetica.»
Dunque, è il connubio dissidente di identità e di frantumazione (di epifania e di cancellazione) a permettere al soggetto di essere parlato, di fargli ritrovare un’autenticità nella funzione metaforica (irrealistica, forzata) della poesia: questa, riscrivendo nel simbolico le coordinate dello sguardo del soggetto-spettatore gli consente, infine, di recuperare la parte rimossa di sé, l’elemento “in agguato”, nascosto (ma profondamente veritiero) del linguaggio che lo attraversa.
5.
La complessa ambivalenza della voce (potremmo dire: delle voci) della scrittura di Giordano impone ancora una riflessione sul rapporto tra la verità del soggetto che si confessa attraverso la parola e l’eventualità di intendere quella parola come proiezione e rifiuto della possibile verità espressa: la poesia dice l’impossibile e l’inconfessabile, oppure è il soggetto a mentire e a mascherarsi nel processo della scrittura poetica?
6.
Si avvertono ferite personali nella confessione autocancellante della poesia di Giordano: ma che cosa può e deve far collegare la scrittura con l’autentico vissuto di chi scrive? Che cosa spiega davvero la realtà? L’arte ricreatrice della metafora o la parola pura, demistificante, del vissuto oggettivo di chi produce la parola poetica? I due piani possono e devono per forza confondersi e convivere? In qualche modo sì, ma non è lecito (forse nemmeno al poeta stesso) scoprire fino in fondo le carte.
7.
Nell’interrogare gli anfibi corridoi della scrittura, Derrida osserva: «Il fatto che il significato non sia distinguibile dal significante, se non come le due facce di uno stesso foglio, non cambia nulla. La scrittura originaria, se c’è, deve produrre lo spazio e il corpo del foglio stesso»; inoltre (è ancora Derrida a parlare), «tra lo spazio non fonetico della scrittura (…) e lo spazio della scena del sogno, non c’è frontiera sicura».
Perciò, è la figura dell’ossimoro (e del rovesciamento) a imporsi come centrale motivo-conduttore delle composizioni di Giordano. Ogni parola creata è utopica e impossibile testimonianza di un’altra dimensione irriferibile e irrapresentabile; il poeta-spettatore che vi agisce è volontario prigioniero di questa ragna (da cui pure vorrebbe allontanarsi). Ecco: la poesia si configura come utopia fuggiasca: titolo emblematico della raccolta più densa e più matura di Federica Giordano, pubblicata di recente (nel 2016) presso l’editore Marco Saya.
Che cos’è, esattamente, una utopia fuggiasca? È forse il canto dedicato «a chi trasforma in fiore la pietra»? Forse, è il desiderio di trasmutare quella strana, metamorfica compresenza di spazio e di fuga, di corpo e di voce, di presenza e di sparizione in un canto più vasto e sovrasoggettivo, in uno sguardo più puro, più diretto, più universale?
8.
Finalmente, proprio come K, il protagonista kafkiano del Castello, il lettore delle poesie di Giordano entra nel giardino della poesia con l’impressione costante di avere smarrito il senso di un’unica direzione, o di «essersi addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato», credendo di ritrovarsi in una «terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva fare altro in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi».
9.
In Utopia fuggiasca si rafforzano l’idea e il proposito di sviluppare la tensione della parola poetica nella direzione di un processo di acuta dissoluzione e di amplificazione del proprio sguardo. L’intrecciarsi e il confondersi di soggettività e di oggettività sembrano alludere all’equilibrio ritrovato di una improvvisa germinazione di nuove pulsioni, sovranamente trasfiguranti: perché esse, figlie della necessità vera, sono sempre inserite in quella sapiente prospettiva laotsiana che invita a occuparsi «del ventre e non dell’occhio»; e ciò in quanto l’occhio sta a significare, nella tersa visione del Daodejing, lo sguardo freddo ed esteriore, l’astratto e vano intelletto, la glaciale rilevazione delle presenze e degli eventi; e il ventre, invece, al suo diretto opposto, è simbolo ed effigie di interiorità e di profondità, di scavo e di nutrimento, di ricerca e di incarnazione: ed esso è proprio da considerare il vero, l’essenziale, l’unico cibo che occorre a ciascuno di noi per rendere onore al privilegio della stessa esperienza vitale.
10.
La riposta del ventre, la risonante vertigine della sua emozionante interiorità, antepone dunque la necessità utopistica della Bellezza alle intossicanti bassure dell’occhio, strumento della superficie, dell’inganno, della luce falsificante; essa mostra una forza scardinante e inconsueta, che non appare soggetta all’impero fisiologico e opportunistico dell’io psichico; ed è quella stessa misteriosa, incontrastabile (e altrimenti indicibile) necessità che a un certo punto avverte il personaggio hofmannsthaliano di Hans Karl Bühl, felicemente – ma anche, provvisoriamente – definita come un’esperienza che ci sceglie «di attimo in attimo», e che «passa in silenzio rasente al cuore, leggera come un soffio eppure tagliente come spada» (Der Schwierige, atto II).
L’utopia della rincorsa della bellezza e dell’armonia (rincorsa difficile e frammentaria, verticale e sfuggente) vuole opporre, allora, una vigorosa resistenza al continuo disfacimento del presente, corroso da un inquinamento materiale e spirituale, fisico ed etico; e perciò la scrittura di Giordano offre il sapore, aspro e dolcissimo, di una lotta amorosa, facendo sortire, con assidua pervicacia, un’energia pulsante e drammatica ma, nondimeno, non disperata né pessimistica; disponibile, anzi, all’attesa e all’accoglimento di una stupenda epifanìa di nuovi valori, desiderosa di apportare, finalmente, una metamorfosi rivoluzionaria e risolutiva alla stessa esperienza del reale.
C’è, dunque, nei versi di Giordano, il sentimento di una tensione elevatrice che alla parola assegna una virtù liberatrice e salvifica, sempre intessuta di speranze e di slanci, di paradigmi e di aneliti, di fedi e di sogni, e sospinta, senza pace, al segreto desiderio di un inabissamento conoscitivo entro le stesse profondità dell’essere (volendo quasi precipitare e annullarsi nel tenero grembo di un’anabasi rigenerante e ricostitutiva). Poeta inquieta ed energica, forte di una partecipazione emozionale sincera e determinata, Federica Giordano vuole, coi suoi versi, neutralizzare e vincere i malevoli e fugaci tranelli dell’«adesso» e indirizzare le sue forze alla costruzione e alla fioritura di un infinibile sempre, di un Uno meravigliosamente astrale e incontaminato, rendendo la lingua poetica, e in generale il dono acuto della nominazione della vita per il tramite della parola, un autentico valore morale.
Mario Fresa
Testi
*
Disillusione
Il mio corpo allo specchio non è più cattedrale.
Il coro dopo la prima messa tace.
Adesso il mio corpo è industria,
macchina programmata per essere ingranaggio.
Braccia, gambe, capelli, buchi.
La macchina vorace ha affogato il sibilo del freddo.
Ci si difende stando nell´asola umana:
l’abbraccio di Eva al suo stesso petto.
*
All’amica sorella V.
Epistola
Mi arriva la tua voce da quel deserto buio
che non ho esplorato.
Tu non hai conosciuto Daniela e la disciplina che le ritmava le parole,
ma aveva la tua stessa vocazione.
Mi sapete dire, voi, donne,
le uniche che io abbia davvero amato,
come faccio a conoscere quel vostro regno di sabbia,
quell’isola di naufragio che non voglio toccare?
Daniela, tu che ti sei fatta madre mentre cadeva il muro di Berlino
perché non hai voluto guardare.
Hai abbracciato la malattia come si abbraccia un amante che non si può.
Io non ho mai potuto ascoltare questa tua sinfonia sommersa.
Hai cantato troppo piano, ti sei imposta anche questa volta una
regola troppo dura.
Ma tu invece, amica, io mi chiedo se tu non sia l’unica sana,
tu che guardi e ti rintani, ti nascondi quando la vista si affina
fino a farsi fitta e perforazione. Io sento la tua voce anche lontana,
una voce che da sola si seda, sei autosufficiente.
Ma io lo so, lo so, lo prevedo perché conosco quei tornanti,
so come si arriva lì dove tu sei, dove mandi silenziosi presagi
che io ricevo mentre mangio, mentre lavoro, mentre dormo.
Penso ai nostri pochi incontri, come lettere, lettere, lettere.
Il miracolo della risposta.
Mi hai detto di avere imprese collettive,
che non sarai una madre.
E mentre lo dicevi io avrei tirato i tuoi passi da quella strada
che avevo già visto, che non voglio percorrere e che spero non mi trovi.
Ogni tanto questa bestia si specchia con la sua testina
verdissima nelle cose che amo e mi richiama. Ma io già sento la
bufera di sabbia
I tuoi cari segnali.
che mi tappa il naso. Per questo col pensiero, accarezzo i tuoi occhi
screziati,
i tuoi incubi di sabbia e penso che ti salverai, ti salvi come fenice
ancora più bella
mentre io azzero, azzero con il nervo teso, fantastico sempre
nuove nascite.
Ma tu sei bella, tanto bella mentre non comprendi il mio segreto.
Intanto mentre sei lì, salutami, se puoi, gli occhi verdi
di Daniela che rotolano in una valle di Germania
e portami, se puoi, un fiore nato lì di mia mano, durante una fuga.
*
Ad Andrea e a chi come lui
Quegli occhi
Oggi per strada ho incontrato il male.
È sceso veloce dal bordo del campanile,
mi ha interrotto il cammino guardandomi senza espressione.
Non voleva molliche, ma una beccata sola avrebbe dato,
lì dove non deve.
Ho imparato che ovunque sono quegli occhi,
quel malessere pennuto tra la folla.
*
Eva
Il mio corpo allo specchio non è più cattedrale.
Il coro dopo la prima messa tace.
Adesso il mio corpo è industria,
macchina programmata per essere ingranaggio.
Braccia, gambe, capelli, buchi.
La macchina vorace ha affogato il sibilo,
il sibilo del freddo da cui ci si difendeva
stando nell´asola umana,
l´abbraccio solo di Eva.
L’armatura
L’etica è un’armatura di calcare.
Nel corpo attecchiscono come tarme
nel legno le mie stesse cuciture.
È questo profondo rosicchiare del cotone,
questo sfregare continuo
i tessuti del mondo col corpo coperto,
che ha il sapore delle cose consumate.
Ed è per questo che mentre il corpo muore,
sulla pietra la luce è ruga monumentale.
Qui bisogna spogliarsi senza paura,
perdere la protezione e sentirsi nudi e superflui.
Cicli
La bambina è fuggita nel giardino,
si è nascosta il viso tra le mani
ed è rimasta vitrea.
Lì balla una donna,
balla da sola su una voce.
Quella voce da saga
intona incontri nordici,
unioni perfette.
Balleranno insieme un giorno,
la bambina e la donna,
si daranno un bacio sulla bocca
e il giardino si chiuderà nel pugno chiuso
di una vecchia.
Federica Giordano – Utopia Fuggiasca
Luoghi bianchi
Pochi i luoghi dove non nidifica il ribrezzo:
gli occhi del cavallo – ossi di nespola
il pianoforte e la scordatura avorio,
il sorriso alla sconosciuta.
Il volo del nibbio sulle case,
la giornata lenta di Morano.
Pancia-Pancia
Il suo braccio azzurro come il sorso della capra.
Il suo verso che suona di ventre,
pancia-pancia, mi scavava.
Era il bacio primo
che mi bagnava di altezze
e di futuri.
Era la maschera
bianca che si lascia.
Il bozzolo del baco.
Nefertiti
Restare davanti ad un busto
dove il tempo è vigilia.
Dorme la bocca egizia.
Alta e dorata,
la sua sola musica.
La pace dell’occhio bianco.
Equilibri
E si resta antichi nella migrazione, la caparbia linea orizzontale.
Solo nell’essere colonna
non si teme il fardello della struttura.
La Lucciola
La lucciola gonfia il ventre e inventa il respiro.
Mentre se ne dimentica,
qualcosa esiste già in un punto vertiginoso del suo bacio
e l´uomo attorno cede all´istinto bello e antico.
Un attimo. Poi si ritorna dove si era.
La luce invece precipita in una cellula minuscola e buia
e si nasconde per lungo tempo,
in modo che la sua vittoria
abbia il tempo di esser compresa.
*
La mia statua ha il busto sempreverde
e sulla bocca un inno incompiuto.
È il canto a chi trasforma in fiore la pietra.
(poesie tratte da Utopia fuggiasca, Marco Saya editore, 2016)