Alessandro Quattrone su “al buio dei nodi anfratti” di Nina Nasilli

di Alessandro Quattrone

copertina Nina Nasilli Al buio dei nodi anfratti

Nina Nasilli, al buio dei nodi anfratti, Book Editore, 2016    

L’ultimo libro di Nina Nasilli merita l’attenzione prolungata e concentrata che richiede, per la serietà e l’intelligenza della sua ricerca espressiva, oltre che per l’esplorazione coraggiosa – e a volte audace – di territori dello spirito in cui la parola sperimenta tutta la forza della sua necessità.

Meditazione e cultura sembrano le fonti originarie di un dettato complesso ed elaborato, che premia il suo lettore (direi quasi il suo ascoltatore, vista la frequenza di figure di suono nei testi) dandogli la sensazione di star vivendo l’esperienza di un incontro inatteso con il volto della parola, al cui sguardo profondo e appassionato non si può che rispondere con occhi turbati ma compiaciuti.

La poesia di al buio dei nodi anfratti – considerata nel suo complesso più che nei singoli componimenti – appare inconsueta, non essendo né del tutto sperimentale né del tutto tradizionale. In essa c’è ricerca ma c’è anche conservazione (o meglio, custodia), c’è abbondanza di oggetti ed elementi naturali come pure di sentimenti e pensieri. Così è possibile ritrovare – sparsi per tutta la corposa raccolta – tanto lampi lirici (gemma d’inverno / sarà il nostro rimpianto; oppure così gridano anche i morti / il loro silenzio bianco opale) quanto sentenze pensose (si precipita sai, anche verso l’alto; oppure essere disadorni avvicina all’eterno; o ancora con sconsiderata precisione / costruiamo rovine).

Certe poesie del libro, le più impetuose, sono ricche di riferimenti a prima vista incomprensibili, e soprattutto di cose, accatastate o sparse senza un ordine evidente, ma con una logica sottintesa che sfida la ragione del lettore a trovare la figura geometrica nascosta dietro il caos, lasciando il dubbio che possa essere più conveniente non accettare la sfida.

Al linguaggio di Nina Nasilli, perciò, si risponde talvolta con un senso di smarrimento che finisce col tramutarsi in esaltazione per lo spettacolo che la sua poesia, esplodendo come un vulcano, sa offrire sullo sfondo di un cielo buio e senza stelle.

La poetessa, in un tempo in cui lo spazio per la sperimentazione si va riducendo sempre di più (poiché sembra che tutto sia stato detto in tutti i modi possibili), crede che esistano ancora terre da attraversare, come le attraversano i fiumi in piena che trascinano con sé zolle e detriti.

Ma il linguaggio non può sempre esplodere come un vulcano o travolgere come un fiume. In certi momenti, più o meno lunghi, il vulcano è addormentato e il fiume scorre tranquillo, con i suoi flutti apparentemente immobili. È per questo che nel libro si alternano contrazione e distensione, corsa e passo, e anche velatura e svelamento, con il conseguente ricorso a un’ampia varietà di registri, di toni e di colori.

È proprio la varietà della proposta a colpire fin dalla prima lettura, una varietà dominata da uno sguardo progettuale, da una capacità strutturante che fa del libro un’opera comunque compatta. Come scrive Alberto Bertoni nella postfazione, quello dell’autrice è un “percorso poetico davvero ricco (anche sul piano quantitativo), fecondo, d’impronta e ambizione conoscitive, oltre che magistralmente calibrato nella partitura formale”.

L’enigmaticità del titolo, per altro, rinvia a una suddivisione in tre sezioni (al buio – dei nodi – anfratti) che corrisponde a una frammentazione del titolo stesso, oltre che di un verso di un componimento, a riprova del fatto che nel libro nulla è lasciato al caso. L’aggiunta di una sezione finale (sim-metrie) ha poi una sua coerenza interna nella scelta di svolgere “esercizi” che non hanno niente di ludico, anzi sono animati da una seria volontà compositiva.

La poesia di al buio dei nodi anfratti è meditata e colta non solo perché nutrita di letture e studi che agiscono su di essa sul piano dell’elaborazione e della tecnica, ma anche per la frequenza dei rimandi e delle allusioni a opere e artisti, che diventano così elementi costitutivi del testo: veri e propri suoni – non echi – nell’orchestrazione complessiva. Ne troviamo un esempio in aprile 14 ai ponti: vivi e morti, in attesa di niente, dove la poetessa mette insieme idealmente e allusivamente Milton e Sanesi, Proust, Celan, Sartre e Apollinaire, Eliot e Kafka, tutte figure di un probabile pantheon personale.

Nina Nasilli, come è noto, è anche pittrice, perciò dispone di un vivo senso del colore (come nell’intera lirica comprendo il verde attraverso il rosso, oppure nei versi bisogna guardarle in viso /  le ore / ingiallite di grigio come sono), ma in lei è molto spiccato anche l’interesse per la musica, cosicché troviamo nei suoi testi una certa tendenza a mescolare le arti, o il loro specifico, come se interiorizzare il mondo fosse un atto di conquista che, per essere compiuto, ha bisogno di strumenti diversi, come diversi sono i reparti di un esercito.

Ne è un esempio Il grido, in cui sono espliciti i riferimenti ai musicisti Chopin e Gustav (Mahler), oltre che al pittore Oskar (Kokoschka):

la vostra salute è in quello yup yup
che noi non sappiamo
lì dove la gola si mostra
senza vergogna
alle radici del grido semplice
e nel frattempo
dalle nostre mansarde
non è Chopin che scende
ma Gustav
                    un po’ curvo
mentre dorme
lì vicino
la bambola di pelliccia
che Oskar non aveva ancora squartato

(…)

Nel libro comunque non mancano i momenti più raccolti, che coincidono con quelli più spontanei. Perché se è vero che la cultura è il fondamento di quest’opera, è altrettanto vero che in essa è presente anche un filone che commuove per la sua intensa grazia. Si veda la splendida Mi incontrerai ancora:

mi incontrerai ancora
se saprai vedermi
in una foglia
che il tuo piede
non avrà voluto
calpestare
per averla notata
lei tra le altre
morta tra le morte
ma lei

Come non udirvi la voce – l’accento, lo spirito – di Emily Dickinson? Debolezza e forza, umiltà e fierezza, con la loro combinazione rendono particolarmente toccante la lirica, a dimostrazione del fatto che al libro non difetta certo la componente sentimentale, cioè naturale.

L’autrice, però, non indugia spesso in situazioni poetiche così apertamente intime. Secondo il già citato Alberto Bertoni, Nina Nasilli “riconosce il poetare come veicolo primo del sapere occidentale, al di fuori e al di là di qualunque autobiografismo confessionale”. Poco indulgente con le pur legittime necessità dell’io, a cui riserverà comunque uno spazio in quella specie di appendice che è la sezione sim-metrie, preferisce delineare situazioni universali o ricorrere a un più pudico e universalizzante “noi” (che può anche essere la somma di un io e di un tu). Ne è un esempio la lirica ci parleranno una sera gli anni, dove si fanno i conti con il passato e con il futuro, e dove la necessità di dire confidenzialmente – come sussurrando – prevale su quella di ricercare o accumulare:

ci parleranno una sera
gli anni
e noi guarderemo allora
se la stanza avrà quel colore
e gli occhi
che molta vita prima
avevamo immaginato

o se tutto sarà mutato

forse non ci parleranno una sera
gli anni:
ma un mattino, dopo un’alba bianca
più bianca d’ogni altra alba
senza le ore del giorno fatto
                                                    per imbrunire

quando il rimpianto non trova
il carro per esser rimorso
resta
           ferita senza sangue

Lo stesso scivolamento nel noi, oltre che in diversi altri testi, è presente in meditazioni alla magnolia.

avremo bisogno di giorni
e ore per chiedere ai tronchi il loro mistero
e all’erba
alle stelle e all’alba

lunghi minuti
                          anni
per interrogare il mattino e la sera
e – senza piummai parole – lasciare al buio
il compito immenso di insegnare
il silenzio all’universo
e ai passeri di inventare il fruscio
per le fronde
(…)

In alcuni casi, come in dadi e tratti, siamo invece chiamati ad assistere a un gioco linguistico-retorico, per meravigliarci – certo – ma con l’impressione finale che non di divertimento si tratti, bensì di una forma inconsueta di scavo interiore:

il dado è stato tratto
                                      su un tavolo
                                      su un banco

il tratto è stato dado
                                      sulla carta
                                      sullo schermo

il dato è che trado
sul tardo latino del mio petto
a chi lascia a chi passa
un amor di parola
che giochi al gioco delle parole
prima di farsi
un poco
seria
per annunciare l’odietamò
all’anima
                  al corpo
                                  al mondo

Come si è detto, la Nasilli in questo libro mostra tutta la sua propensione alla varietà, che poi altro non è che voler dire la vita nella sua interezza. La vita non è solo caos, la vita è anche aspirazione alla forma, e la poesia deve e può riconoscerlo. L’ultima sezione (sim-metrie) però è qualcosa di più che un semplice omaggio alle forme della tradizione letteraria, ai suoi strambotti, madrigali e sonetti; ed è qualcosa di più che il ricorso a elisioni, troncamenti e vocaboli in disuso per aggiungere un tocco di antico al testo: è l’occasione per lasciare infine spazio all’io, fittizio o reale che sia, e per parlare espressamente dei suoi tormenti e dei suoi aneliti. Definendo le sim-metrie come “esercizi di metrica ed eros”, l’autrice sa di poterselo concedere, in linea appunto con una certa tradizione lirica italiana:

ricorderai il tuo più ardente vero
di dirmene il fuoco – ed il suo gelo –
vero? ricorderai il caro mistero
che tenesti nascosto da un velo
per il pudore gentile d’amarmi
senza mai il tocco fatale mostrarmi?

In questo strambotto c’è – sotto una veste diversa, la veste amorosa – la stessa inquietudine che percorre tutto il libro, e che a volte diventa voce di protesta ma più spesso grido di ribellione contro un mondo inabitabile e in rovina, nel quale tuttavia è sempre possibile coltivare la fiducia e la passione verso qualcosa (la parola, il pensiero, lo sguardo, il sorriso): qualcosa che forse non ci guarisce, ma ci permette di sopravvivere e – per ciò stesso – di vivere. D’altronde, una dichiarazione di fiducia e di passione si trova già nell’incipit:

(…)

credo
           alle foglie
credo al vento che le muove
e al mezzo trasparente per cui vedo
e sento

credo nell’assenza
perché è vuoto di presenza
è segno
di avvento

credo a tutto

credo a te che mi vendi il tappeto
a te che vuoi prendermi la mano
e tenerla come se t’appartenesse

credo a te che prometti l’eternità
credo a te che non prometti niente
solo il contatto con la terra

credo che tutto sia niente
e poco sia
                   Tutto

Al buio dei nodi anfratti è dunque un libro ricco e generoso, un atto di fede nella poesia, e più in generale nell’arte, nella cultura, nell’intelligenza, e nella vita stessa: nonostante le rovine, nonostante lo strazio.


(In copertina: Nina Nasilli)

Rispondi