Sciami, di Mario De Santis

di Daniela Pericone

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Mario De Santis, Sciami, Giuliano Ladolfi Editore, 2015

Ci sono libri che non scivolano via dopo la lettura, rimangono piuttosto come una luce covata in un angolo di buio. Si tenta allora di accoglierne i segnali, carpire i semi di accensione, le connessioni create tra le parole e l’ascolto, dentro e fuori di noi. A tale esperienza di contatto, con la fulminea levità evocata dal titolo, dispone Sciami, l’ultima raccolta poetica di Mario De Santis (Ladolfi, 2015). Il titolo agisce subito come un sensore di direzione, mira a mostrare una visione parcellizzata del reale, la sua spinta alla frammentazione, l’attitudine di esseri e cose alla dispersione in maledetti, azzurri sciami. Si avverte così consequenziale la similitudine tra insetti (variamente nominati nel corso della scrittura, zanzare, mosche, formiche), minuscole entità che procedono appunto a sciami, in gruppi compatti e indistinti, e le moltitudini degli uomini in perenne movimento delle città, dei paesaggi urbani, nelle quali l’individuo sembra perdere consistenza e coscienza proprie, come risucchiato in una corsa inane all’obliterazione del senso di sé.

La nuvola che muore ha il cielo sopra lei
e il viola inutile dei gas che la colora: dalla piazza
più grande di Milano, su verso tetti tra le antenne sale
la processione di insetti avvelenati, di triboli e di spine:
disegna quell’ornato che è incendio della vita
ma nulla sa di noi – cellule di corsa, cera dell’affanno.
Da un punto all’altro senza alcun battesimo
il tempo si dissolve in giorni soli.
Qui la vita che si fa più grande
di ogni suo creatore, che l’ha voluta qui,
si fa senz’ombre, pure, e senza direzione.

Il punto di vista del poeta è dunque ambivalente, data la duplice facoltà di osservare il mondo da una distanza che gli consenta distacco e lucidità della visione, e agire al contempo dall’interno, partecipe dei suoi meccanismi. La percezione multifocale allora si moltiplica in una sequenza di accezioni che ribadiscono l’assunto iniziale e lo irradiano in termini come coriandoli, scintille, bolle, farine, muffe di gessi, marmo trito, polvere (la polvere nell’acqua che dal libro precedente di De Santis abita ancora questi versi), ossia minuterie della realtà, o per meglio dire, la realtà ridotta alla minima sostanza, frantumata, scissa, rarefatta all’infinitesimo grado. Fino allo zero.

È a questo punto che si reifica la deviazione verso il fuoco centrale della poesia di De Santis, il cuore del discorso poetico è in questo fare i conti da un lato con il crollo, la perdita netta o progressiva di materia fino al vuoto, e dall’altro con ciò che al vuoto sopravvive, e salva dalla distruzione, individuale e collettiva.

…ci sono cose che restano per anni sotto il peso
di un crollo senza data. Sono un cumulo di forza
perché la casa ha vinto lasciando che la distruzione
compisse il nuovo mondo di macerie, un equilibrio
da sortilegio. Vince chi fa più vuoto alla violenza
la casa crolla e il muro non separa più dal cielo
e questo deposito di stelle
spente ora è gloria
dimenticata che abita la terra
ma non è inganno, è solo cosa.

I muri, la casa, la materia sono le nostre illusioni di consistenza, di durata, di protezione dal nulla. Quando in un testo tra i più significativi come Quasi a quest’ora tutti i giorni De Santis parla di fortezze in polvere non si può non pensare alle fortezze di sabbia di Philippe Jaccottet, che pure dice, a confermare la fragilità del tutto: “i muri più alti non sono che leghe di polvere” (da L’ignorante, trad. Fabio Pusterla, Einaudi, 1992). Peraltro non l’unica occasione che consente di accostare la poesia di De Santis alle atmosfere e agli stilemi del poeta svizzero, se in Portovenere (op. cit.) l’immagine “un pipistrello / urta come stupito sbarre d’aria” torna a frammenti speculari in altri versi del nostro: “il mistero d’ora in poi / mancato, la rete dei pipistrelli” e poi “la gabbia d’aria, / l’improvvisa trappola in cui cado”.

A sommuovere il dire è una costante richiesta di verità, uno scavo di luce nell’ombra, ma sempre a partire dai dati concreti, dagli ambienti cittadini (Milano, in primo luogo) ai rapporti che vi nascono, dal vissuto personale agli eventi della storia. Benché in De Santis accanto alla tensione interrogativa conviva una sorta di ansia di radicamento, che in modo esemplare si manifesta ancora nei versi di Quasi a quest’ora tutti i giorni, dove la nota avverbiale qui delimita con insistenza un luogo e si replica in anafora attraverso le volute del testo, leitmotiv di musica e senso, ad affermare senza esitazioni la presenza (o la volontà di sopravvivenza) di chi scrive in un punto preciso dello spazio e del tempo. Fino a trovare compimento nella frase dal tono assertivo e beneficamente assolutorio: “Resta quest’ora presente”.

Quasi a quest’ora tutti i giorni
il sogno di Milano si fa rosa di smalto
atroce ed isolato. Qui l’acqua era la forma
del futuro annunciato e irripetibile;
e ancora, tuttavia, c’è un salto più assoluto
nei vuoti che si formano tra file di piccioni
inermi e neri: tra loro gli spettri, gli assenti, i sepolti
ad armare quadrilateri, fortezze in polvere
dissoluzioni ostili. E la piazza così muore perfetta
piena ed invisibile, col sangue a trattenere i nomi.
Tra lo squilibrio del coma e il grembo nasce l’adorazione
per chi non sarà mai. Resta quest’ora presente,
di caduti, scomparsi, mai arrivati, mai nati
una sentenza che somma le pozze della pioggia
a gemme d’ansia. Qui prende forma la patria
che ha solo presente e non sarà
che questo vago orientamento di passanti.
Da qui, nessuno dopo noi, da qui
la nostra corsa salta l’ombra,
si chiude ogni immediata lievità.
La storia diventa in un istante dubbio
e qui si vedono di noi
quei volti di vertigine, aperti all’aria opaca
che non avranno somiglianze.

Ma più esplicita soluzione troviamo nel testo destinato a chiudere il libro, dal titolo emblematico (il vaso rotto), inglobato nel guscio di due parentesi che raccontano forse del tentativo inconscio di preservare un’integrità ormai perduta. Nella forma di una narrazione-poesia, d’intonazione quasi filosofica, in equilibrio tra ricordi autobiografici e consuntivi epocali, De Santis si abbandona a un dire di compiuta consapevolezza: “Io sono sia il mio sopravvivere biologico che la mia storia e col mio atto, potenza distrutta, col mio essere corpo che occupa lo spazio vuoto, adesso: sono l’infinito finire del presente in altri noi, che saremo indipendentemente da me”.

Parole e sguardo già in un’altra dimensione.

*

(il giorno, fuori)
Arrivo con il tram dove Milano non esiste ancora
per ogni passeggero la strada si dirama, è un delta
di piazze e di cantieri abbandonati e ha svolte, all’improvviso.
Noi le passiamo e tutto corre in noi, ritardo senza peso
le mattine delle città sono già fiumi scontrosi e senza vuoti.
Eppure le coincidenze fanno ogni persona
o il suo corpo che va da lievità a posa informe,
un’esistenza – e c’è chi sciama via per un batterio,
per l’invisibile che si nasconde all’aria.
Il rifugiato che abita il riposo
illecito in corpo ha cielo ed ha prigione;
la libertà di fatto cerca facili indirizzi.
Ben venga allora morire per la prima volta
nel tuo respiro e poi restare avvolto da correnti,
nell’impazienza ascolto la moltitudine di avvisi
e nomi in codici. Crolli minimi che sento
intorno come fioritura,
avverto del palazzo, del pericolo e lontano
un altro posto da occupare. Così fermo la fuga
aprendo un porta all’improvviso, salutando.

*

(la notte, dentro)
È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre,
lì durano per essere scordati, lì solo siamo noi.
Ed è su questo muro illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.

*

(Africa 1)
Come passano i tuoi occhi in offerta
dall’Africa invitano al deserto, la tangenziale scava
nelle case oltre Milano – il tuo corpo regna e si vende.
Il re di tutti è in un grido, il cielo nero fa l’arco, ci interroga
chiude nella vita quel che non sa di finire;
tu tagli in due il referto ottuso di un’orbita lontana
fatta di filiere d’erba secca, un’aggressione scrive la distanza
il giallo d’arso: eloquente, nel passo che non ti seguirà.
Basta sapere che qui la notte va trovando strade in cui morire
(la sete buia di ossessioni con quell’attesa incostante
fatta di veglia allucinata dei guardiani,
di pacchi pronti ai magazzini, di silenzi prolungati).
Che la tua carne è un cancello divelto, il sangue è sparso
e nella risata trattiene un dio che fugge.
Il nostro mondo è quel che resta: pensieri chiusi nell’acqua
vita perduta in un collasso, che non ricordo
che dura tutta in un minuto, giro dell’addio.
Spacca e si moltiplica in coriandoli e farina.
Vietato ogni allarme, sciolta la linfa che ti genera,
resta lontana la tua rabbia inferma,
però quello che non vede oltre la notte sono io.

*

Abito da sempre le stanze che hanno luce
ma non basta. È l’alba e fuori brucia
anche il cemento, l’aria di sola cenere si posa.
E resto tra la notte e il giorno
mi sento ancora sporco e senza voce.
E che prometto al giorno nuovo? Allora cado
prigioniero nel mio sonno e mi nascondo
dal chiarore in una casa vasta
più di quegli occhi che non rivedrò.
Divido il sogno dai risvegli
ma cosa spero di salvare?
Le cose che ho portato non ci sono
Resta la polvere, nel grigio forma
la stasi di un disegno, dispersione,
febbre di scadenza e di deriva,
i giorni semplici che non ho vissuto.
Allora sembro come il calendario fermo
al mese indietro e lì quei giorni maledetti
reclamano in ritardo una presenza
che il mio silenzio non accetta di spiegare.

*

Il regno dei cani neri è tutto il mondo, occupato
dalle zampe di animali: silenziosi hanno capito
che la loro solitudine devasta chi li vede. L’abbandono
al niente è perfetto come loro regno, così è la nostra
ombra disegnata a perfezione, la gabbia d’aria,
l’improvvisa trappola in cui cado, gelida giostra.

*

Faccio la somma dei tuoi volti
che ho visto e che saranno;
immagino la crudeltà delle tue rughe
il punto viola che si scolla come un’ombra
da me. Prima di entrare con il treno
nell’acqua che cade su Milano,
dentro la pianura il sole era terribile
piatto e disposto alla sua morte
perfetta per una luce che viene da terra.
Non conoscevo ancora il tuo respiro
nella notte, così nell’acqua
piovana la musica che invade
il peso del mio corpo, che cede nel tuo odore.
Voglio che il cielo resti la divisione
tra noi infinita, mentre cammino oltre Bovisa,
fermo all’angolo di un muro qui dove sono, cade
quel niente che ritorna, passi segreti
quelli che mi riportano da te,
un vago oriente: per sempre tutto mi dividerà
da tutto, adesso,
perché nel momento che ho saputo
ho smesso di sapere.

 

In copertina: Mario De Santis (Photo © Valentina Tamborra)

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Mario De Santis è nato nel 1964 a Roma e vive a Milano. È giornalista culturale, ha curato programmi radiofonici di libri e arte, attualmente lavora a Radio Capital. Cura e conduce, con Giancarlo Cattaneo e Maurizio Rossato, il reading-show di poesia “Parole Note Live”. Ha collaborato con il mensile “Poesia” e altre testate. Ha pubblicato i libri di poesia Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012) e Sciami (Giuliano Ladolfi, 2015).

 

 

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