Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 11) The Montgolfier Brothers

The Montgolfier Brothers

mont collage

Forse non c’è via d’uscita dal nostro cristianesimo interiore.
Oppure, forse, le forze cavalcate dalla religione di massa non appartengono ad alcuna confessione specifica e abbarbicano piuttosto le proprie radici nell’archetipico terrore della vita verso se stessa. Fatto sta che noi tutti, melomani e non, indifferentemente amiamo la sofferenza. Ogni composizione di note, ogni più tenue moto dell’ugola, vibrano dello stesso spaesamento che deietta l’intelligenza nell’ambito del dualismo ontologico, e spalanca lo spazio in cui un soggetto riconosce un oggetto. E quell’oggetto, ancor prima di parlare, spaventa.
È dell’arte esprimere quella profondità, quella non-coincidenza, in tutte le gradazioni cromatiche possibili. La malinconia segnala che l’ago della bilancia della paura ha superato la zona critica in cui l’urlo primordiale copre ogni contorno e descrive l’attimo della messa a fuoco, il primo rudimentale possesso del dato cognitivo. Ne lascia però in primo piano la cocente impossibilità, l’estraneità essenziale nel tempo e nello spazio. Ciò che è destinato a perdersi, ciò che si perde, ciò che è perso per sempre.
La “profondità” della musica traccia questo percorso, e si lascia cogliere al prezzo del mondo intero. Ascoltando, il peso della sconfitta ne supporta il fardello; ci si aggrappa alla preziosità del dire stesso, come intrappolati in una sindrome di Stoccolma perenne: possiamo dire che non abbiamo, e da qui sembra che ciò sia più ricco del non poter dire, del non poter aver mai detto.
È radicata nell’abisso, la musica dei mancuniani Mark Tranmer e Roger Quigley: due abissi monadici che un giorno incappano nella sporgenza dell’altro e s’ispessiscono in voragine definitiva.
Tranmer predilige la musica e la mutezza del dire verbale: i dischi a nome Gnac (da una storia di Calvino) e poi a nome anagrafico sono carillon del dolore, esili e profondevoli. Le canzoni di Quigley sono invece centrate su storie di sottrazioni e dipartite, ferite ed evocazioni.
Tutto nasce attorno alla piccola etichetta di Salford, Vespertine, in occasione di una compilation a cui entrambi offrono il proprio contributo (e per cui Gnac ha già pubblicato): sintonia immediata e nascita dei Fratelli Mongolfiera del pop satiano (da Erik Satie, ché è come se certe sue composizioni potessero qui inopinatamente parlare); come ricordi dolorosi le mongolfiere ascendono sino allo sfaldamento nell’oblio indifferenziato e indifferente delle nuvole.
“Seventeen stars”, prima e più fulgida di tre gemme, è un sunto di tutto ciò che è possibile dire e strimpellare prima di scoppiare a piangere.
Il pianoforte e le tastiere umili di Tranmer cuciono la ragnatela delle disdette, le chitarre di Quigley le intarsiano di piccoli cadaveri d’immagini: un’autofagia centripeta e circonvoluta che sembra bastare a se stessa mentre si consuma, stilla dopo stilla.
La voce di Quigley mormora, bisbiglia, si confessa, parla con sé estrapolandosi brandelli di carne imbottito di valium. Chiede scusa, impetra di sorvolare su certe piccolezze di cui, in definitiva, consiste la sua vita (“Even if my mind can’t tell you”).
“Low tide” è una cupa liturgia di onde prima dello tsunami: ed è il punto dove Tranmer e Satie sono separati soltanto da una sottile membrana di tempo, ma non abbastanza da non poter partecipare sincronicamente al loro requiem comune.
“Between two points” è probabilmente l’angusto spazio infinito che separa Achille dalla tartaruga: incolmabile. Il canto del criceto sulla ruota ed esempio della perfetta integrazione tra la mestizia del pianista e la sconsolatezza del chitarrista.
Consolatorio come un libro di Cioran ed ebbro come un fiore del male, “Seventeen Stars” è, semplicemente, uno dei grandi classici della musica del ‘900, trasportato poi dalla Poptones di Alan McGee nel millennio successivo, dove è destinato a stare per sempre, e al buio.

Alessandro Calzavara


In copertina: Seventeen Stars (front cover, The Montgolfier Brothers, 1999).

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