Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 8) Ora

Ora

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Non mi nascondo che uno dei più umili e riposti obiettivi patafisici di chi s’è rovinato le unghie a grattare sulla superficie morchiosa delle cassapanche del tempo sia edificare un pantheon parallelo con materiali di risulta. Dimostrare con sufficiente spocchia filologica che gli dèi sbagliati han preso possesso delle roccaforti del gusto musicale e vi hanno organizzato un concerto dei Led Zeppelin. La storia, in tutto questo, fu solo una delle pretestuose armi imposte con cui si legittimò l’usurpazione. Così il compito del critico agìto da una più elusiva sinderesi sarà quello di rubacchiare mattoni di senso raccolti nell’armadio disusato di Clio ed edificarvi un nuovo perenne culto. Svariate sono le vie che a ciò conducono, ma per amor di plagio, seguiremo la via infalsificabile del dogma.
In accordo con quanto farneticato decreteremo che l’unico album del 1969 d’un gruppo di adolescenti britannici surrettiziamente battezzatisi Ora (e altrettanto surrettiziamente conosciuti in Germania come Knick-knacks e lì giovantisi d’una copertina alternativa affetta da chetosi) sia un ineguagliabile capolavoro. “Minore” e appannaggio di radi revisionisti in questa dimensione da riserva indiana, ma solido caposaldo in quella che qui proponiamo all’incauto lettore.
I più colti disseppellitori fra i leggenti si saranno forse imbattuti nella successiva (e ugualmente carneadica) metamorfosi della band nel moniker Byzantium, e avranno lasciato vagare l’attenzione lungo tre lp densamente prog. Non è detto che a costoro gli Ora aggradino, soprattutto se è la schiuma la parte del mare che rimirano con più languore.
Ma a coloro a cui la forma canzone secerne i più gloriosi diletti non faticheranno a fermarsi su queste undici composizioni con un incantato sbigottimento. Sul loro volto si leggerà un’espressione che interpreteremo come “in che razza di discarica ho vissuto finora?”. Sulla solida base formale della canzone James Rubinstein e Robin Sylvester (le due principali forze creative degli Ora) intessono finissimi arrangiamenti dalla marcata impronta jazzistica, spaziando dalla bossanova al samba, cantando con una gentilezza capace di far apparire molti anni dopo Belle & Sebastian un po’ troppo machi. La chitarra acustica di Rubinstein interpreta il ruolo principale, attorno cui tutto si ridispone con grazia sovrannaturale.
Un mood di magica sonnolenza fa trascorrere queste melodie su soffici ed esotici materassi d’altrove, raccogliendo e portando a livello di idea il feeling d’una stagione che ancora riusciva a illudersi sui successivi sviluppi del cervello umano applicato alla costruzione sociale.
Abbondano le canzoni capaci di piantarsi in testa (“Seahore”), forti di un’abilità compositiva elevatissima e, una volta assimilate, secernono un certo qual anelito a mollare definitivamente il ricorso alla sporcizia sonora che darà distorsione a tutte le chitarre del regno. Le batterie non conosceranno che il rim-shot e il basso riprodurrà i beccheggiamenti d’una barchetta che prende il sole a riparo dall’oceano su bagnasciuga molli. Eppure talvolta (“Witch”) chitarre acidognole screziano la tessitura principale, e i tom della batteria annunciano quiete burrasche.
Ristampato in cd dalla Background nel 1993 (edizione a cui faccio riferimento) con l’aggiunta di sette (altre) magnifiche tracce e nel 2006 in doppio vinile dalla spagnola Wah Wah (che ne aggiunge altre sei) “Ora” è un magnifico segreto che aspetta di essere innalzato a un culto più che forsennato. I suoi solchi meritano che vi si semini ancora. Attendono sviluppi che la storia ha buttato, fatalmente, in caciara.

Alessandro Calzavara


In copertina: Ora (front cover, Ora).

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