Zoon manikon
di Livio Borriello
c’è una zona oscura, che si estende oltre l’area in qualche modo conoscibile della politica e dell’antropologia. noi possiamo sapere chi ci dicono di essere, ma non possiamo sapere chi siamo, possiamo spiegare perché, data una certa origine e certi fini, siamo e agiamo in un certo modo, ma non possiamo spiegare quell’origine e quei fini… alcuni atti umani accadono nei contorni, in aree liminali, zone di confine, presso i valichi o i punti di consunzione del sistema… se preghiamo (se giungiamo le mani e ci mettiamo in cortocircuito per pregare), se poetiamo (se disponiamo in una certa forma e vibrazioni e flussi d’aria), se ci innamoriamo (condizione diversa e discontinua rispetto a un normale stato affettivo) noi ci esponiamo a questo fuori-sé…il paradosso è che questo inumano è connesso all’essenza stessa dell’umano … l’uomo è forse profondamente lo zoon manikon, l’animale folle, l’animale suscettibile di impazzire, a cui si è spalancato, nella lesione del linguaggio, il non linguistico…
l’uomo ha un limite da travalicare e un ordine da sconvolgere.
pensiamo alla follia delle piramidi, all’immane lavoro speso allo scopo improbabile di “trasmigrare”, di persistere indefinitamente (in un non-linguaggio)…nessun animale potrebbe compiere un atto così insensato. o ad uomini che hanno dedicato la vita alla composizione di oggetti di aria o di tracce nere “belli”… o alla percezione di eccesso, di inesauribilità, di prodigio, che producono in noi la pelle o gli occhi o il sesso di una persona di cui siamo innamorati.
o anche una signora che stende i panni, con i lenzuoli che sbattono al vento, può per un istante inargentarsi, può trasmutarsi, può divenire qualcosa che non stende più i panni, si fa spazio aperto – sagoma a forma di quello stendere i panni – su quell’oscurità che è dell’altra parte, su un “oltre la signora”.
o ci può essere un istante in cui l’asfalto della strada sfonda il linguaggio, e diventa una pasta grigiastra lontana e ignota, qualcosa a cui non si può agganciare nessuna causa e effetto, nessuna rassicurazione o nessuna funzione e nessuno stato, qualcosa che si abbatte direttamente sui neuroni e la pappa molle della carne, ci sei tu e quella cosa del mondo, e non puoi dartene alcuna ragione. quell’asfalto ha in qualche modo aggirato l’io, e tu ti ritrovi fatto della sua stessa sostanza ottusa e incomprensibile.
noi non possiamo costruire nessuna politica o antropologia o psicologia utile agli uomini se non la fondiamo ai limiti dell’umano, in questa incompetenza, in questo trasalimento – se non ci siamo bruciati alle sue temperature insopportabili, se non abbiamo tremato sul suo ciglio, se non ci siamo annichiliti di fronte alla sua numinosità, e stupiti della sua flagranza. se non scriviamo di questo facciamo retorica, facciamo rappresentazione, facciamo “qualcosa” che non si chiede “qual” è la “cosa”.