SEGNI, CIFRE E LETTERE: LE GALASSIE PARALLELE DI MARCO ERCOLANI

 

Le galassie parallele di Marco Ercolani: chimere realizzate?

L’uomo si vede nel passato attraverso la memoria, nel presente attraverso le azioni che compie, nel futuro attraverso le opere che progetta. La sua identità non è uno stato definito ma un tessuto fluttuante dove si mescolano tracce biografiche, sogni, atti, ricordi, rimpianti, desideri. Qualora si coincidesse con una sola identità, vorrebbe dire che o si è folli o si è morti.

 Con queste parole ha inizio Galassie parallele, Storie di artisti fuori norma (Il Canneto editore, 2019), il saggio con cui Marco Ercolani compie un viaggio nella vita e nelle opere di artisti italiani ‘fuori norma’, eretici creatori di insensate e inutili bellezze.

L’occhio di Ercolani (che mai smette di essere poetico, anche quando decide di affrontare scritture diverse da quella in versi) si avvicina qui alle tormentate esistenze di pittori, disegnatori, scultori, musicisti, poeti del Novecento, estranei a ogni canone, percepiti nell’ottica di una via non maestra che traversa i territori della conclamata o nascosta follia.

Chi nasconde il folle che ha in sé, muore senza voce, scriveva Henri Michaux. E Ercolani dimostra di conoscere bene il senso profondo di quella verità. In questa nuova avventura editoriale, le attenzioni dello scrittore si rivolgono a quell’affollato mondo di artisti marginali, outsider secondo una definizione più largamente condivisa, che hanno infranto i limiti e le frontiere, diventando contrabbandieri di senso (pag. 62).

Non tutte le personalità prese in esame in Galassie parallele sono state contrassegnate dai sintomi evidenti della malattia mentale – lo precisa lo stesso Ercolani – ma ognuna di esse è stata attraversata nel corso della propria vita da almeno un episodio, un turbamento psichico che ne ha ampliato la visione. Dagli incontri con queste personalità sono nati ritratti complessi, feroci, violenti, dolorosi. E non avrebbe potuto essere diversamente: a dialogare idealmente con quelle anime ferite non è stato solo l’Ercolani scrittore e poeta ma anche (e in maniera, a mio giudizio, più significativa) l’Ercolani medico psichiatra.

Di un’eventuale connessione tra malattia mentale e processo creativo in molti si erano già occupati in passato. Lo psichiatra e antropologo, Cesare Lombroso, nel saggio Genio e follia del 1864, evidenziava un forte legame tra genialità, creatività e combinazioni psicobiologiche borderline o comunque patologiche. Lo psichiatra francese Edouard Lefort in Le type criminal d’apres les savant et les artistes nel 1892, individuava una precisa corrispondenza tra il tipo criminale teorizzato da Lombroso e i protagonisti dell’iconografia religiosa dei più grandi maestri pittorici europei del mondo antico e a lui contemporaneo. Il criminologo Enrico Ferri nel 1896 sottolineava l’esistenza di un contatto immediato tra la vita degli artisti e il mistero del male. Ma forse è l’esperienza condotta nel 1953 dallo psichiatra (e filosofo) tedesco, Karl Theodor Jaspers, quella che maggiormente si avvicina a quella condotta in Galassie parallele.

In quella che sarebbe poi diventata una delle sue opere più note, Genio e follia (consiglio la bella edizione italiana edita da Raffaello Cortina Editore nel 1999, con un saggio di Maurice Blanchot e la prefazione di Umberto Galimberti) – lo psichiatra tedesco cercava di mettere in evidenza la relazione esistente tra la malattia mentale e la produzione artistica, tra il genio e la follia come si è soliti liquidare frettolosamente la questione tra i non addetti ai lavori.
Concentrandosi sulla figura del paziente schizofrenico, Jaspers focalizzava la sua analisi sul momento ideativo e creativo e, passando in rassegna la vita di artisti piuttosto affermati – da Strindeberg a Van Gogh, passando per Hölderlin – concludeva che la schizofrenia poteva diventare la condizione, la causa possibile perché si aprissero, in personalità geniali e fuori dalle righe, quelle profondità che legano creatività e trascendenza. La follia – scriveva Jaspers – non può mai aggiungere nessun talento anzi semmai lo ostacola, ma proprio nell’ostacolarlo lo guida a forme di espressione che non avrebbe altrimenti raggiunto.

Ercolani, forte delle intuizioni di Jaspers e del sostegno di un’ampia e preziosa letteratura di genere, fornisce in questo suo saggio – dalla bibliografia ricchissima e preziosa – uno studio approfondito dei rapporti esistenti tra creatività e trascendenza. La sua analisi non si concentra sui soli casi di schizofrenia però; la sua è un’analisi più ad ampio raggio che spazia dall’autismo, al disturbo borderline di personalità, per approdare al disturbo bipolare e anche a quello schizoide. Il matto non gioca mai ma edifica monumenti capovolti – scrive Marco in una delle pagine più belle. L’artista gioca sempre edificando gli stessi monumenti. Nessun folle inventa dal nulla il suo delirio ma lo assembla pezzo per pezzo con i propri fantasmi misti agli eventi e alle cose della realtà, per riparare quella che resta la sua frattura insanabile: la vita come lutto della vita (pag. 16). E poco oltre aggiunge, Essere folli significa vivere senza soluzione di continuità la condizione di sentirsi “scorticati” dal mondo. Essere artisti è controllare appena questa condizione, sentirla non come profezia, ingiunzione, verità rivelata ma come crogiuolo di immagini, suoni, combinazioni – serbatoio inesauribile di mille verità ancora da mostrare (pag. 24).

Recuperando il pensiero di Marcel Réja, Ercolani ci ricorda che nelle opere degli artisti psicotici è forte la necessità di farsi capire, di dimostrare la validità della loro ossessione: chi scrive, scrive sempre di più per farsi capire meglio e – così, anche – chi dipinge e disegna lo fa sempre di più per essere visto meglio (pag. 21).
Va però fatto un distinguo importante: se il folle parla sempre ed esclusivamente del suo dolore, l’artista invece non parla mai solo di sé (pag. 23). Il folle è chiuso nel suo mondo di sofferenza e isolamento; l’artista invece, attraverso l’esperienza creativa, accetta di aprirsi all’Altro, instaurando un principio di dialogo. E del resto, lo sappiamo, L’invenzione di un mondo altro è la prima necessità di ogni artista (pag. 11).

Ma in che modo il processo creativo si origina?. Lo sguardo dell’artista, sommerso nella sua personale follia, vede “tutto e dappertutto” – ci dice Ercolani. Esiste un occhio estroflesso che può vedere deformato il mondo esterno; e un occhio introflesso che sa vedere solo le oscurità del proprio sé. Forse è lo stesso occhio, capace magicamente di scindersi, di sdoppiarsi. E più diventa cieco al mondo esterno, più si acuisce la vista verso il mondo interiore, che popola di fantasmi d’incubo come di figure angeliche, altrettanto terribili. Qui, in questo mondo interno, l’artista è più sicuro. È certo di quello che vede. Non ci sono contraddizioni a sporcarlo (pag. 41).

Come in Genio e follia, anche in Galassie parallele vengono presi in esame artisti noti al grande pubblico. Il libro, diviso in tre sezioni, si sofferma con dettaglio e precisione sulla vita di scrittori, pittori e musicisti di assoluto rilievo del Novecento. Dopo alcuni accenni alle vicende private e cliniche di Antonin Artaud, Glenn Gould, John Cage, Robert Walser, incontriamo Giacinto Scelsi (che insegue il suono di una sola nota, pag. 105), Demetrio Stratos (la forza del duende con i suoi concerti per bocca solista, pag. 109), Lorenzo Calogero (il poeta docile e interminabile, amico di Sinisgalli, pag. 143), Dino Campana (il visionario, che si fa amare per la selvaggia anarchia dell’esperienza esistenziale, pag. 149), Lorenzo Pittaluga (poeta tragico, beffardo e surreale, pag. 159), Amelia Rosselli (nemica involontaria della legge di necessità, pag. 164). Sono però le voci meno blasonate, quelle degli artisti più periferici e appartati, che costituiscono la vera ossatura del libro e che hanno maggiormente attratto la mia attenzione.

E in questo Galassie parallele si rivela un’opera stupefacente. Ercolani ci regala una carrellata fittissima di anime tormentate, periferiche e appartate. Tra le pagine del libro incontriamo: i più noti, Henry Darger (l’homeless americano che inventa e disegna una saga di liberazione capitanata da schiavi bambini a danno di tiranni adulti pag. 11), Aloïse Corbaz (con i suoi Biglietti agli sconosciuti cuciti insieme a bocche rosso fuoco, pag. 11); ma anche Ferdinand Cheval (il postino di Hauterive che ha realizzato un gigantesco labirinto di corridoi, camminamenti, terrazzi, fittamente popolato di soggetti antropomorfi e allegorici, pag. 13), Robert Garcet (operaio cavapietre, affascinato dalla simbologia dell’Apocalisse di Giovanni, che ha costruito impressionanti sculture architettoniche per avvicinare l’uomo a dio, pag. 14), Filippo Bentivegna (che scolpisce teste eterne e poi le conserva nel giardino di casa, forse per riparare la frattura che qualcuno aveva procurato nella sua di testa quando era ancora un ragazzo, pag. 33), Fiorenzo Pilia (e il suo Giardino Fantastico, dove troneggiano molte affascinanti signore, desideranti e lascivecon un’apertura in corrispondenza della vagina, pag. 38), Marco Locci (pittore ligure che popola il suo mondo di Patanchi, omini neri di varia grandezza e forma, pag. 40), Ferdinando Oreste Nannetti (Nof4, come era solito firmarsi, e il suo diario di graffiti lungo le mura del padiglione Ferri del manicomio di Volterra, pag. 46), Stefano Grondona (che in un impulso di follia omicida toglie la vita alla madre e in seguito organizza una ricostruzione del mondo proprio a partire dal corpo distrutto di lei servendosi di sculture in cartone intagliate dall’interno, pag. 73), Franco Bellucci (con i suoi lupi e i suoi agnelli, entrambi vittime di una stessa fatalità di natura, pag. 77) e, tra i moltissimi altri, anche Alice Marinoni (che dipinge nel suo isolamento autistico e ha un rapporto silenzioso con le cose che vede, pag. 83).

Si tratta di artisti, e lo chiarisce lo stesso Ercolani nelle sue osservazioni finali, che non hanno trovato spazio permanente in musei dell’arte o storie della letteratura. Sono artisti che hanno però generato caos, galassie parallele appunto, dove rotture, discordanze, formazioni simboliche, tempeste analogiche hanno finito per prevalere sull’orizzonte della ragione.
Alcuni di questi, nella loro turbolenza, hanno varcato la soglia del non ritorno, fermandosi in uno stato di psicosi (pag. 168). Ma l’arte contemporanea, verbale o visiva, non è forse psicotica nelle sue profondità? Questo il vero interrogativo su cui soffermarci. L’arte è sempre e ovunque lo scatto del sogno, la potenza della “riparazione”, la “lengua” che “barbaglia”, il parlare “esmesurato” contro i codici innocui del discorso – come Ercolani chiosa a conclusione del libro? (pag. 169).

Forse non solo l’arte contemporanea è psicotica nelle sue profondità. Il discorso si amplia naturalmente fino a ricomprendere, almeno nella mia visione personalissima delle cose, forme di arte addirittura primitive. Ma le pagine che questi artisti folli, geniali e minori hanno compilato, i segni che hanno inciso e i suoni che hanno prodotto, mi appaiono avere un comune denominatore fondamentale: sono la testimonianza, tenace e umanissima, del loro voler esserci, del loro voler esserci per raccontare. La loro mi appare un’opera di resistenza: il tentativo disperato di salvare brandelli di vita dall’oblio. Resistere per vivere, resistere per rimanere vivi.  Né folli, né morti tornando alla frase in apertura di articolo: semplicemente, vivi. Chimere realizzate dunque? Sì, se per Chimera s’intende, come Baudelaire ci ha insegnato, la bestia che afferra l’artista alla nuca, causandogli un invincible besoin de marcher. Tutti questi artisti, resistendo, hanno indiscutibilmente, e molto a lungo, marché. Possiamo solo ringraziarli, in silenzio.

 

 

 

 

 

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