di Ilaria Grasso
Cos’è questa corrente che muove la scrittura dei versi? Da dove proviene? Mattia Tarantino di fronte al foglio è inquieto, quasi turbato da visioni sacre e divinazioni e profanazioni di corpi. Ma sono solo visioni o associazioni di immagini che ci parlano di altro? Dolore e piacere si mescolano nella scrittura e nel riversare sul foglio ferite e segni come livide incisioni che rivelano la sottomissione dell’atto creativo come a dire che senza sofferenza non c’è vita e non c’è conoscenza. Un dolore necessario al quale ci si sottopone “con-sensualmente” cercando tutte le ombre, le allusioni, i toni per colmarne i vuoti e parti della materia ancora sconosciute che devono essere rivelate. Ci sono allora margini di libertà per il poeta o questi è completamente soggiogato e legato alla metrica o da una musa capricciosa che appare quando vuole come una bandieruola al vento? Tarantino non è totalmente vinto. Immagina infatti un vento di Ponente a brandire l’ordito tant’è vero che intitola e chiude la poesia con la parola Ponente che rappresenta sia un riferimento per orientarsi ma anche l’origine di un vento salvifico che indica il finire delle perturbazioni e dunque anche del bel tempo
Ostacolo a Ponente questa lingua
marinaia ma io mozzo:
per le burle della sillaba la voce
dei poeti straccia l’acqua con violenza
antica, a richiamare
una genesi profana per la stirpe.
Dalla stirpe sorge un sangue d’adunanza; dalla
pietra crolla il fuoco dove scaglio
questo pane vomitato sulla croce:
allora un fiore azzimo
si levi da una crepa di mollica a benedire
la tosse delle allodole e la carne.
Masochismo dell’allodola questa
vertigine di nervi
bassi, come basso
nel mio verso un certo grido in bizzarria
dei morti: non v’è trama
che scomponga tutto il bianco della sfera.
A Ponente sta la tana della luce,
il dolore delle stelle che corrompe
la cesura tra le erbacce in comunione
per lo sterco, quale ostia capovolta.
Al cerchio che fu mantra l’obbedienza
degli angeli delira.
Delirio degli angeli la traccia
di saliva sul papavero:
vino e latte nello stelo.
Se straziassi la parola come strazio
le mie vertebre fanciulle, avrei
le balbuzie da profeta, e non più nome.
Che lo squarcio si richiuda sul tuo nome
inciso nell’argilla che troncò
il primo astro indovinato. Che
l’indovino tragga auspici dall’orrore
bianchissimo del seme: risorga
da Ponente la vocale e sia salvezza
Da FIORI ESTINTI – Terra d’ulivi edizioni