SEGNI, CIFRE E LETTERE : L’ANNO IN CUI FINI’ CAROSELLO DI A.ASSIRI (a cura di Francesca Marica)

Di recente, recentissima pubblicazione, l’ultimo libro di Alessandro Assiri: L’anno in cui finì Carosello (Le voci della luna, 2018).

Un titolo che contiene una fine e che suggerisce un inizio. Un titolo che inquadra, localizza e circoscrive. Un titolo che sembra suggerire ma non dice.

Nulla è lasciato al caso e il lettore ne acquista consapevolezza sin dai primi versi (cos’altro è una piazza senza una testa appesa/ un varco a cui non è stato fatto un processo/ uno spiraglio nei dintorni/ dove passeggiando si rammendano giorni).

L’anno a cui il titolo allude è il 1977, la città che fa da sfondo ai versi è Bologna, il civico di riferimento (almeno quello iniziale) è invece il numero 37 di via Mascarella.

C’è un giorno, quello del tracollo, che è l’11 marzo. Un venerdì, un venerdì insolitamente freddo, pare. Ma quello è solo l’antefatto. La premessa. Dopo ci sono stati i sogni alla deriva di un’intera generazione. Dopo c’è stata la guerriglia vera.

Dopo ci sono stati lutti, abbandoni e naufragi. Ci sono state voci e talvolta cori. C’è stata una radio con un nome di donna che non è stata più la stessa. Ci sono stati paesaggi ed eventi. Ci sono state persone e anche personaggi. Ci sono state comparse e scomparse. Ci sono stati molti addii e poche riconciliazioni.

È stata una primavera anomala quella del 1977, non solo a Bologna. Ma a Bologna lo è stata più che altrove. La primavera del 1977 è stata una primavera in cui tutti hanno perso qualcosa: l’innocenza, quella dello sguardo soprattutto. Si riesce a immaginare una perdita peggiore?

Ha ragione Grace Paley, tra il sapere e il raccontare può passare un tempo lunghissimo e allora viene naturale domandarsi se quarantuno anni possano considerarsi un tempo sufficiente per iniziare a farlo. Possono?

Assiri crede di sì e ce lo dimostra. Senza sfarzi, senza effetti speciali.

Ce lo dimostra alla sua maniera, con la sua precisione chirurgica. Nasce grande quest’ultimo suo libro, nasce esatto.

Come ebbe a scrivere qualche anno fa, Augusto Pivanti in un commento a In tempi ormai vicini (CFR, 2013) la scrittura di Assiri rimane – nel solco della sua “tradizione” – piena, sonora, densa di un’umanità ruminata a lungo e di una pietas mai addomesticata a buonismi di maniera. Concordo con Pivanti, quella di Assiri è una scrittura piena, sonora, densa, umana e mai addomesticata, oggi come allora.

Come si legge nell’ottima prefazione di Alberto Masala, Assiri ci regala un libro di frammenti, di schegge trasparenti tra i silenzi. Il testo ci invita a muoverci nella normalità dell’insensato, con un gioco di pacate contraddizioni e illuminati scatti con pesanti conseguenze, dentro l’irrazionale, fino all’epicentro dell’alterità, alla violenta postmodernità dell’eroina, uno di quei recipienti vietati che, insieme alla lotta armata, ci sono stati forniti perché si potesse realizzare il più lucido e programmato genocidio generazionale di tutti i tempi.

 

L’anno in cui finì Carosello si compone di ventitrè poesie brevi, libere nel verso e nella forma. Prevale il verso lungo che qualcuno chiama prosa poetica, come sottolineò Narda Fattori qualche anno fa.

Lorenzo Mari nella sua postfazione si concentra sul ritmo e sulla musicalità dei versi e fa notare come Assiri racconta con un piglio narrativo che si distende alternativamente sul metro lungo o in brevi blocchi di prosa (talvolta slogati nelle loro connessioni sintattiche e immaginarie, talvolta quasi rappati, con un sottile ma decisivo anacronismo). Assiri quasi rappa, è vero. Elemento questo che insieme ad altri contribuisce a fare di lui, il cantore delle rivoluzioni mancate, capace sì di cantare la sconfitta, ma anche di essere presente, con la propria parola, proprio in seno alla mancanza di rivoluzione – come ben ha osservato Enea Roversi in una recensione a Lo sciancato e Caterina (CFR, 2016).

Protagonisti di queste ventitrè poesie brevi sono alcuni personaggi già noti al lettore perché apparsi in libri precedenti dell’autore: lo sciancato e Caterina, su tutti.

Due esseri necessariamente e inevitabilmente claudicanti, la cui deformità non è tanto fisica ma esistenziale e ideologica –per usare le parole di Enzo Campi che si ritrovano proprio nella prefazione a Lo sciancato e Caterina.

Lo sciancato ha la cinetica mancata della fuga impossibile mentre Caterina vorrebbe concentrare ed annullare una dispersione che la annichilisce. Due esseri paradossali, accostabili figurativamente all’espressionismo pittorico di Ensor – osservava acutamente Alberto Mori in una recensione di qualche anno fa.

Ma lo sciancato (che barcolla come quelli che di cielo/ non si intendono a chi lo osserva sembra una danza di corpi e non/ l’equilibrio precario degli storpi) e Caterina (che sogna di essere piccolina qualche giorno a settimana/ e gli altri si reclina/ con i tagli sulle braccia tipo tele di Fontana concetto spaziale o/ buco minimale) non esauriscono il quadro di quella umanità dolce e dolente. Accanto a loro, proprio come in una tela di Ensor, una pluralità di coprotagonisti.

Accanto a loro c’è Betta (che mischia il davanzale col trapezio e dandosi una spinta/ si rigenera sbattendo sul selciato/sulle tende del mercato/ e indicava con il dito quel cazzo di quartiere della svolta del partito), c’è Riccardo (che stava in via del carro mi sembra all’otto ma via/ del carro è il ghetto) e c’è Lennie (che uccide tutto quello che accarezza poi pranza inconsapevole di aver ucciso la bellezza).

E ci sono molti altri volti, molti altri occhi, anonimi solo nell’anagrafica, che pur sono incarnazione dello spirito di quegli anni (gambe scoperte occhiali sulle scale/ camicie sbagliate con bottoni andati a male/ la clessidra riempita con tutta la sabbia dove siamo cresciuti/ in un impasto di fratelli mai avuti; Non sei caduta come gli altri in quel prudente silenzio della casa/simulando nascondigli/ programmando orologi per appuntamenti irripetibili con ospiti da/ sempre maleducati e invisibili; Guarda dentro la stagnola poi svelto la richiude prima che piova).

Lo sciancato e Caterina, ma anche Betta, Riccardo e Lennie e tutti quegli altri volti e quegli altri occhi anonimi, sono l’equivalente delle maschere spettrali e demoniache dipinte da Ensor, che tanto piacevano all’artista perché offendevano il pubblico dei critici che non lo aveva compreso condannandolo a una vita da commesso nel negozio di souvenirs della madre.

Lo sciancato e Caterina ma anche Betta, Riccardo e Lennie e tutti quegli altri volti e quegli altri occhi anonimi, piacciono tanto ad Assiri perché offendono senza possibilità di un’amnistia finale i mandanti, gli ideatori, i concorrenti morali e materiali di quel lucido e programmato genocidio generazionale a cui accenna Masala nella sua prefazione.

Sono maschere che hanno il sigillo della morte impressa in fronte e in cui si annida la peculiare e spensierata ferocia di una società in decomposizione (tanti ciechi vicini ai 30 anni indecisi tra il crescere e l’invecchiare o cambiare nome per essere un altro).

È un Cantico delle creature laico quello che Assiri ci regala in questo suo ultimo lavoro, un cantico in cui la cronaca politica e le storie individuali si fondono e mescolano senza sosta e talvolta senza continuità. Ai personaggi di Caterina, Riccardo o lo sciancato si sostituisce via via il racconto plurale di una tossicità diffusa, che perdurerà nel tempo, mutando, fino a oggi quando la scrittura poetica non può che essere, di nuovo e come sempre, segno della ferita che si apre dopo essere stata chiusa, alternativamente nella memoria o nel sonno – si legge nella postfazione di Mari.

Leggere Assiri è come ritrovare le avventure di Pentothal di Andrea Pazienza che proprio nel 1977 cominciavano ad essere pubblicate su Alter Alter. Lucidi e visionari entrambi ed entrambi ugualmente sgomenti per la tragica piega assunta dalla stagione bolognese. Assiri, quarantuno anni dopo quella stagione, riprende in mano il discorso di Pazienza e, abbandonando ogni possibilità di lieto fine, conclude il libro con un lutto (ti ho rivisto in San Vitale nell’attimo esatto in cui l’alba diventa/ mattina eri già morto come prima soltanto un po’ più storto) e con l’immagine di un letto in cui sembra annegare il senso di colpa dei sopravvissuti, il suo (forse) per primo (è il tuo letto che somiglia a qualcuno/ai tuoi molti al mio nessuno).

Ma è l’annotazione in calce a pagina 37 (28000 consumatori di oppiacei nel 1977 diventeranno oltre 93000 nel 1981. Queste righe ne raccontano solo due) che rende esplicita la sua “missione”: quella di raccontare la vita, sempre e comunque. Fuori da ogni metafora, fuori da ogni tempo.

 

da L’anno i cui finì Carosello (Le voci della luna, 2018)

 

*
Cos’altro è una piazza se non desiderare di morire una volta più di

loro

gli anni che non si vedono come chili persi con cura

un altro buco alla cintura

e un re che non si è mai mosso da casa

cos’altro è una piazza senza una testa appesa

un varco a cui non è stato fatto un processo

uno spiraglio nei dintorni

dove passeggiando si rammendano giorni

 

 

 

*

 

Caterina non capisce che una festa è solo una vigilia

il pesce marcio dalla testa
scioglie il laccio a uno qualunque dei suoi cani

quello bianco che si chiama generale

o il più vecchio che ha raccolto di febbraio

coriandolo non suonava

e l’ha chiamato carnevale

 

 

*

Caterina esprime leggerezza con i punti esclamativi

con le persone è felice solo quando non ci sono

fa visita ai malati solo quando sono guariti

così li trova sempre meglio o quasi sempre usciti

 

 

*

 

Lo sciancato è una notizia in un pollaio senza il gallo si diventa

in fretta carne da macello
ha spalle da nemico rimasto senza artiglieria

solo 4 spade e lividi di spia un buco senza terra una metafora

di guerra

 

 

*

 

Per lo sciancato non esiste un’età dell’oro ai ritorni non ci crede

e un’altra vita non la vede, fa una guerra tutta sua con i gesti

progressivi del dolore confonde un nido con le sue radici altrove

 

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