FLASHES E DEDICHE – 95 – JULIAN E VERA

Uno dei primi articoli che ho scritto per questa rubrica,  molto tempo fa, è stato sul lavoro di Julian Zhara. Zhara rappresenta per me uno di quei concetti dell’interdisciplinarietà che, nell’idea di  formazione interculturale mantegazziana, sono necessari nello sviluppo di qualsiasi campo e materia di studio, letteraria e scientifica. Zhara nonostante la sua attività performativa non ha voglia di “apparire”. Forse sa che la parola scritta è scritta, forse la sua maniacale attitudine alla perfetta conoscenza e coscienza di ciò cha fa poesia e letteratura, lo ha fatto attendere a lungo  alla pubblicazione di un lavoro che doveva soddisfare le poliangolature della sua ricerca. Interlinea quest’anno ha pubblicato due lavori che si distanziano e si elevano dalla media generale: uno è il libro della Vivinetto, l’altro , a mio avviso, è proprio il testo di Zhara, “Vera deve morire”. 21 frames, rimandi, allacci, un link autogenerante pagina dopo pagina e tanta conoscenza letteraria e tecnica. La peculiarità che affascina è lo zenit di due lingue che si fondono, Zhara ammette la lotta tra conscio e inconscio, linguistica e no(italiano e albanese si incontrano e si fecondano a vicenda). Depura la forza narrativa da banalità liriche (lirico nell’accezione negativa), e forse depura se stesso, in una colata lavica- sillabica che non può lasciare insensibili. E intanto continua a studiare e ad approfondire, come pochi altri autori,  con una voce che contiene tante voci nel suo inconfondibile unicum. Consiglio di leggere anche le varie interviste rilasciate dall’autore che si trovano in rete,  per approfondire meglio, al di là di questo micro spazio, i suoi concetti e il suo percorso letterario.

 

 

 

 

Strappami la lingua madre poi
avvicina la tua bocca alla mia,
amplificami i lamenti, da permettermi
di dirti piano, a voce bassa,
parole semplici, poche, dentro la bocca
come il picchiettìo del rubinetto,
chiuso male; se balbetto sciocco
è perché mi hai tolto la lingua
-la tua si farà palco, le guance
platea e dirò male, come se avessi
scordato la parte, la scena chiave,
in un teatro antico,
in mezzo a una tempesta di scirocco.

 

 

 

 

Che geloso com’ero del tuo passato
di un uomo soltanto: tuo padre,
di te, delle altre, da prima, l’uomo
su cui hai modulato l’idea di uomo
nel lastricare il percorso di mimi
fuggendo o calcando l’immagine miliare,
i volti degli altri uniti a creare uno suo: sbiadito.
Di nessun altro sono mai stato geloso.

Ne estraevo la forma a partire
dalle tue due pupille, proiettandola intorno
una volta incarnata nello spazio tra me, te,
queste labbra si alteravano fino
a farsi gabbia
indicarti la ferita a partire dalla cura;
la terra non può più appartenere
a chi l’ha abbandonata.

In silenzio ti osservavo elencarmi piano
la lista di lacune che dovevo supplire,
per poi vederti volgere lo sguardo in basso,
alzarti lentamente e dirmi: vado, è tardi;

indaffarata com’eri
non mi hai mai riparato dalla paura
che a riflettere fosse in me (anche se lontanamente)
la sua di figura,
e ne uscivo sconfitto.

 

 

Nella lingua dei tuoi antenati
la parola amore se esiste è letteraria,
in mezzo ai campi si fa altro, in amore
è la patata che si squaglia, un raccolto
impazzito, è in amore un uomo che sbanda,
il bestiame che non obbedisce;
bastava allora il voerse ben.

Nella lingua dei miei antenati,
preti, ufficiali e mercanti,
l’amore viene versato altrove
e se avanza, all’amata – bisogna quindi disporne;
e ridiamo di quanta zavorra e detriti
trascina dietro di sé la parola amore.

Nel sonno mi dici un po’ dopo, parli tanto
e che dico?, chi ti capisce, parli albanese
mos ikë, mos ikë, mentre ti blocchi
nel disegno del tappeto, të dua, pa ty
parli un tono più giù, tra un mese kam frikë
me kupton, po ti? continuare così non ha senso,
se jeta eshte varrë, resto ancora qualche giorno
poi me thyenë kurrizin me këto fjalë, më shkatërronë,
non sono solo screzi, lo sappiamo, mos flitë më
ma ci sentiremo ancora, rastësishtë, gli auguri
magari mi vieni a trovare, magari è solo un sogno,
tra poco mi sveglio, jo, tani je e lirë,
tra poco arriva il momento
di andare a dormire.

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