- di Marta Cutugno
Teatro Antico di Taormina. “A Venezia faccio la Dame aux Camelias che avrà per titolo forse, Traviata. Un sogetto dell’epoca. Un’ altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, per i tempi, e per altri mille goffi scrupoli … Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un’ gobbo da mettere in scena. Ebbene io era felice di scrivere il Rigoletto …”. Con gli auguri felici per il nuovo anno, l’1 Gennaio 1853, Giuseppe Verdi anticipava a Cesare De Sanctis che dal testo teatrale, già romanzo, di Alexander Dumas figlio si sarebbe tratto soggetto ed ispirazione per il nascente melodramma da lui musicato, su libretto di Francesco Maria Piave.
La formula usata ed abusata che, molto spesso, vorrebbe metaforicamente Taormina entro una suggestiva, splendida cornice ha trovato tiepido riscontro nell’impianto scenico de “La traviata” andata in scena il 28 agosto scorso al Teatro Antico. Ultima data del Mythos Opera Festival all’Antico, la rappresentazione del dramma d’Amore e Morte – titolo anelato da Verdi ma al tempo bloccato dalla censura veneziana – si è consumata su una pedana rialzata, con accesso tramite gradini anteriori e laterali. Alle spalle degli artisti, due grandi cornici nere con lavorazioni color dell’oro, sistemate obliquamente e riposizionate per l’atto ultimo. Un drappo rosso, infatti, coprirà sul tragico finale una delle due cornici, ora adagiata sul piano scenico, probabile allusione alla triste fine del personaggio dopo l’eterea illusione. All’assetto di base si aggiungono pochi altri variabili arredi: un canapè che poi sarà arrangiato a letto di morte, una piccola tavola imbandita e qualche sedia quali accenno al salotto di casa Valery, uno scrittoio per il rifugio d’amore in campagna. Le scarne ed anemiche scene curate da Luisa Migliori non sostengono o agevolano le scelte registiche operate da Antoniu Zamfir che, prive di dinamismo, giungono scoordinate all’occhio dello spettatore, specie per quanto concerne lo spostamento delle masse. L’arrivo in extremis del coro al tempo del brindisi – restituito nella sua verdiana prorompenza solo dalla musica e non dal palco – e, subito dopo, la sistemazione dello stesso coro oltre la pedana, con la visione di mezze figure troncate da quel blocco rialzato, ne sono importanti esempi.
Risicata ed eterogenea anche la resa vocale del cast. La Violetta di Renata Vari non si delinea come ruolo maturo e mostra difficoltà in agilità e rigidità nel fraseggio. Le si riconosce temperamento da professionista che con il giusto spirito ha saputo andare oltre a voci di disappunto provenienti dal pubblico. La Vari è apparsa più partecipe al momento del finale e sicuramente più a suo agio nel secondo atto, affiancando Germont padre, reso molto bene da Milo Buson, interprete di classe che possiede una certa pienezza vocale ed una buona presenza scenica. Lo stesso non può dirsi di Carlos Julio Munoz come Alfredo, debole nell’espressione vocale quanto in quella scenica. Altalenante la sua performance appesantita da incertezze sulla linea melodica ed eccessivi ritardi sui tempi. L’ignoto amor e l’eroico ardor, che dovrebbero travolgere la coppia di interpreti ed il pubblico, non erompono sul palco dell’Antico. I volumi fiacchi ed il tiepido trasporto del croce e delizia rendono monocolore l’andamento, scarnificando i contenuti del testo e deviando la sintassi orchestrale. I colori dell’Orchestra Filarmonica della Calabria diretta dal M° Filippo Arlia, che ne cura le nuances con decisione e dettagliata perizia, sono molto buoni. L’esecuzione dei tre atti può dirsi pulita ed espressiva. La gestione dei volumi e dei tempi risulta, tuttavia, complicata nel tentativo di trovare un equilibrio. Difettano così, talvolta, l’intesa e la necessaria complicità tra buca e palcoscenico, prerequisiti questi che, se latitanti, generano inevitabili momenti di scollatura.
Le scene nel salotto sono animate dai buoni interventi di Diego Rossetto (Gastone), Pablo Rossi Rodino (Barone Douphol) e Graziano D’Urso (Marchese D’Obigny) e vedono in campo un’elegante Flora Bervoix interpretata da Sabrina Messina che può vantare ottima partecipazione scenica e buon gusto nella cura vocale del ruolo. In generale, il Coro Lirico Siciliano diretto dal M° Francesco Costa non regala una performance particolarmente brillante ed omogenea. Nel secondo atto, il Coro delle Zingarelle – accompagnato dalle danze di Federica Rosati e Salvatore Nicolosi con la scuola di ballo Elisa Laviano – giunge più pronto rispetto a quello di Mattadori e Piccadori; molto poco efficace ed impreciso è l’intervento esterno del Coro baccanale al terzo atto. Completano il cast, Elita Cistola nei panni di Annina, Adolfo Corrado come dottor Grenvil, Rosario Cristaldi come Giuseppe e Daniele Cannavò, un domestico/commissionario.
foto di Marta Cutugno