L’ospite indocile, di Lucianna Argentino

di Daniela Pericone

copertina L'ospite indocile

Lucianna Argentino, L’ospite indocile, Passigli, 2012

Quando si incontra la poesia di Lucianna Argentino nel libro L’ospite indocile (Passigli, 2012) si apre una via di consonanze le cui ragioni, al di là del primo istinto, si fortificano a ogni nuovo accostamento. Nell’anfibologia del titolo è già racchiusa una fondamentale allusione di senso, là dove l’accezione del termine ospite si divarica in pari soluzione tra chi compie il gesto dell’accoglienza e chi lo riceve. L’effetto polisemico che ne deriva è frutto auspicato e consapevole, perché per Argentino quello che più conta è la tensione d’apertura verso l’altro, la disposizione allo scambio, senza distinzione di ruoli tra soggetto e oggetto, seppure chi agisca venga connotato come indocile, ossia inclusivo di un portato di ribellione, di un’inquietudine che sottrae a conclusioni pacificanti.

L’intera raccolta è una epifania di scrittura incentrata su un moto di ossimori, come da subito segnala l’immagine delle asole della poesia in copertina, ostensione di un precipuo intendimento poetico:

Dice che non c’è addio nelle asole
e asola allora sia:
poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso
esposto alla parola.

L’asola come contorno di uno spazio immateriale, esile delimitazione dell’aria, tuttavia lo sguardo non è orientato su ciò che è mancanza, sul vuoto e le sue implicazioni negative. In prosecuzione con il tema del titolo l’accento è posto sul valore del gesto, sul moto alterno di chiusura e apertura, l’atto di un comune quotidiano che di continuo slega e trattiene. Perché il disegno di un’asola può anche ricordare la linea di due braccia ora unite ora protese ad avvolgere, a ospitare, a dare un rifugio. Motivo questo così ricorrente nel libro da rendersi temperie ed emblema di una “poesia degli abbracci”:

Gli abbracci vuoti,
da braccia nude,
senza niente in mezzo.
Solo abbraccio.
Solo contrarsi di muscoli e tendini,
solo flettersi della pelle
sulla pelle di ciò che è carnale e basta,
in comunione con l’attimo del concepimento.
Vita sottratta alla morte – questo è nelle parole,
aratro sulla carne a scavare solchi complici
del potenziale elettrico del cuore.

La scrittura è allora il tramite prescelto per dare compiutezza all’essere, quel battere ritmico della parola poetica che parte dalle viscere del dolore, non meno che dalla gioia, e si fa strumento di esplorazione, utensile da manovrare senza remore o reticenze se ciò che si va a inseguire è vita sottratta alla morte.

Dentro questi versi agisce di continuo una interrogazione amorosa, un seguire le tracce di ogni espressione dell’esistente, a comprendere ciò che muove la vita e i suoi richiami, natura ed esseri umani intenti ad affondare radici, produrre frutti e ricordi, fino all’estinguersi delle voci: “[…] scrivo per sapere cosa è natura / e cosa è sostanza e come fa a essere buono / un frutto o un uomo.”.

Sono domande semplici e al contempo complicatissime (sempre inesauste le risposte) quelle che affiorano alle labbra, che la voce misurata di Argentino prova a formulare con delicatezza, in una sorta di riappropriazione dell’innocenza primeva. Nodi interrogativi che non demordono a incalzare le esistenze, che si può provare a tenere sottotraccia nella successione delle adempienze quotidiane, finché non riemergono con veemenza in occasione di eventi più dolorosi, più destabilizzanti di altri. Come alla perdita del padre, cui il libro è dedicato.

Per Argentino scrivere è davvero togliere spazio al male, o almeno tentare di carpire un senso alla vita e alla sua fine, e indagare la sostanza dell’amore, le acuzie del dolore, il tempo e le sue inconcludenze, la natura dei legami tra gli uomini. Laddove, sotteso a ogni dire, scorre e si fa conforto il dialogo discreto, mai esclamativo, con il trascendente.

La poesia di Lucianna Argentino, una prosodia morbida che si nutre di assonanze e anafore, ripetizioni e rime di ogni tipo, è fitta di sequenze di termini in cifra ossimorica, assenze/presenze, silenzio/parole, luce bruna, chiuso esposto, solo per citarne alcune. Ma tale insistenza non intende costringere a una scelta tra due estremi, piuttosto agisce l’acquisizione di una pazienza, l’accettazione che la realtà è compresenza di elementi di segno contrario, tutti ugualmente necessari alla vita. E nella vita stessa si intravede l’azzardo di una soluzione, “il suo difficile che diventa facile / quando cominci ad amare”.

*
Sta in quel di più – visione delle madri
lei che parla senza staccare la lingua dal dolore
e continuamente lo rifà presenza
di se stessa e di quel che
del suo motivo le avanza.
*
Qui stanno gli anni, le storie inconcluse,
gli sguardi senza più coraggio,
le assenze dentro i sogni
o le troppe presenze ancora
ancora senza degna sepoltura. Per questo
sarebbe meglio cambiare il pensiero
ora che è cambiato il millennio
e il silenzio si è fatto più fitto
e le parole avvizziscono
così che si diradi questa luce bruna
e la paura sorrida di sé
e sollevi il capo dal risentimento.
*
Lo scarto certo,
la certa fatica
di raccogliere, adunare
e lavorare un canto
che in cupe gallerie risuona
e s’alza a cupole di verde
nei campi alti e negli alti campanili
torna a dirlo nato e presente
in cielo, in terra e in ogni luogo.
*
Sommale le storie, fanne cifre aguzze
come gli anni di quelli vissuti
sulla capocchia di uno spillo;
prendimi il fiato, la rincorsa;
trattienimi dentro silenzi
in ascolto delle radici,
del crescermi dell’anima
mentre scrivo per sapere cosa è natura
e cosa è sostanza e come fa a essere buono
un frutto o un uomo.
*
Non so quale felicità avremmo vissuto,
o quale guancia avremmo offerto all’offesa
se felicità c’è stata, se c’è stata offesa.
Così lo scrivo, ne faccio segno,
per capire come si spiega l’albero la potatura,
il papavero lo strappo
i bambini il tempo e lo spazio:
– dove va la notte quando è giorno?
– mezz’ora è tanto o poco?
O come si spiega il vuoto degli esseri
che ci stanno accanto come un’assenza
o il senso irsuto della vita,
il suo difficile che diventa facile
quando cominci ad amare.
*
Scrivere è togliere spazio al male,
è addomesticare la paura
che torna selvatica a ogni respiro
è tentativo di conoscere
se nella radice dell’albero dimorano
necessità e libertà,
se sul suo tronco è la misura
di altezza e statura,
se nella sua chioma nidificano
verità e verosimiglianza,
adesso che so stare sotto la sua ombra
lo svantaggio umano.
*
Basta additarci, basta l’ingratitudine
l’aspettarci sempre un segno
e non saperlo riconoscere
non saperci segno. Dammi allora almeno
la capacità di dirlo con parole conosciute,
semplici, quotidiane
come quando chiedo il pane
o un bicchiere d’acqua, ma vanno bene
pure parole un po’ sbagliate
come Damiano quando dice «pesa un chilometro».
Dammi allora la capacità
di tracciare piano, giorno dopo giorno,
la mappa del tuo corpo e che sia come quando
l’anima viene alla superficie
e si distende sulla pelle.
*
Prossimi al mio dire
quelli battezzati con la terra,
rivestiti della grazia delle zolle,
braccati nelle selve cittadine,
entro radure di pestilenze umane,
di ossa rotte, di fracassate speranze.
Prossimi al mio dire
quelli senza peso, senza giusta misura
predestinati all’indeterminazione,
cause efficienti della frazione del pane.
*
Non è che l’ombra del silenzio
questa parola che irrompe
e sgorga necessaria come tutto il bene
che in questo momento è compiuto
nel basso della terra
e si misura ad altezza d’uomo.
*
Andava incontro al padre
lo rimetteva al passo,
al presentimento postumo.
Fate presto, fu ciò che in ultimo
udì da lui – vero di voce.
Voce rimasta a vibrare
in qualche punto indeterminato,
catturata dove la memoria
non è questione di sinapsi e neuroni
piuttosto del moto armonico semplice dell’amore
che tiene alto il coefficiente di correlazione
tra i vivi e i morti.

                      a Sergio Pistolesi
Le voci, chiede, avranno
un paradiso tutto loro?
un luogo dove, riposti gli strumenti,
tutte si raccolgono?
Le voci, dice, sai non le parole
che non sarà muto quell’altrove
ricamato di speranza
con fili logori e terreni.
Ma la voce, sai, quel suono
che non ce n’è uno uguale a un altro
dov’è che va?
*
Scrivo di nascosto da Dio
che nella bocca voglio parole mie
e niente niente
nel passaggio dalla fronte
alle dita alla punta della penna
al suo muoversi sul foglio
per mio sentire altro
per meditato silenzio e pulsare di tempie
per il mio stare accovacciata
presso lo scavo con l’angelo geometra
e la sua corda a misurare
quanta benedizione c’è sulla terra.
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Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Dai primi anni novanta si occupa attivamente di poesia come organizzatrice di rassegne, letture pubbliche, presentazioni di libri e con collaborazioni a diverse riviste del settore. Sue poesie sono presenti in numerose antologie e blog. Fa parte della redazione del blog letterario collettivo “viadellebelledonne”. Ha pubblicato i libri di poesia: Gli argini del tempo (ed. Totem, 1991); Biografia a margine (Fermenti Editrice, 1994) con  prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci; Mutamento (Fermenti Editrice, 1999) con prefazione di Mariella Bettarini; Verso Penuel (Edizioni dell’Oleandro, 2003), con prefazione di Dante Maffia; Diario inverso (Manni editori, 2006), con prefazione di Marco Guzzi; L’ospite indocile” (Passigli, 2012) con una nota di Anna Maria Farabbi. Il suo lavoro La vita in dissolvenza (quattro poemetti-monologhi) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e dal marzo 2011 presentato in vari teatri e associazioni culturali.

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