Il romanzo della parola esplosa e ricomposta
La poesia di Francesca Canobbio nel panorama della lirica di questi anni, segue un percorso specifico, alquanto composito e diversificato, in cui però si possono cogliere alcune tendenze di fondo, che la raccolta Asfaltorosa compendia nella loro apparente eterogeneità e nella loro unità sostanziale. Un primo elemento che ne connota lo spirito come la lettera è la tendenza a un lusus verbale che pone in essere un sistematico straniamento nel quotidiano, attraverso la ripetuta violazione delle attese lingui-stiche del parlato ordinario. Nello stesso tempo, la parola straniata, distolta dal suo contesto ordinario e fissato da tic linguistici ormai consolidati, viene ridefinita da nuove coordinate semantiche e sintattiche, all’interno di una struttura di frase alquanto articolata, spinta deliberatamente al limite del contorto. Per coglierne tutte le sfumature sarebbe necessario un commentum perpetuum, per cui qui non abbiamo lo spazio e che alla lunga risulterebbe gravoso da seguire. Una campionatura dei testi illustrerà a sufficienza quanto si sta cercando di porre in risalto. Ne è un chiaro esempio il tessuto verbale delle P*rose che inaugurano il libro, con il loro ritmo dissimulato nell’assenza di spazi bianchi e nella compattezza di quelle che sembrano mini-lasse lirico-narrative. Già nei primi tre componimenti (Concerto al minimo, Flight, Primavera nelle creuze) la trama dei significati e dei sensi viene dissolta e ricostituita, in un sistema di riorientamenti e sdoppiamenti. Concerto al minimo è dominata dalla vicissitudine di un “tu” lirico che ha “scavalcato il pianoforte fino alla sua coda”, un pia- noforte che a sua volta si fa correlativo oggettivo di un’armonia delle sfere ormai disarcionata e di un ordine cosmico centrifugo, in cui le corde esistenziali dell’arpa universale appaiono “tese a capestro”, e in cui “tutta la voce – tutte le voci” (dal Logos– Vac-creatore ai cori angelici) sono uno schianto, nel duplice senso che il linguaggio ordinario nel suo uso or-dinario riconosce al termine – così che l’orientazione nel mondo appare dominata da un annientamento tutto-abbracciante, che al contempo è tuono di crea-zione e di bellezza, e sembra quasi di cogliere, nella forma sottile delle immagini evocate, una cusaniana coincidenza d’opposti, un bruniano intersecarsi del minimo con l’immenso e gli innumerabilia. In Flight, un continuo rimpallo di poliptoti figurae etymologicae paronomasie proietta significanti e significati in un punto di librazione semiologico, in cui le forze d’attrazione sprigionate dalla densità dei diversi campi semantici si annullano, trasformando ogni singola parola in un caleidoscopio segnico e forzando il lettore a un’epochè interpretativa, a una sospensione osservativa del giudizio ermeneutico; ancor più marcato, nel contempo, appare l’ordito ritmico, contesto di cripto- endecasillabi, al cui incipit in sordina subito segue l’innesco di echi timbrici, prima allitterativi poi, come si è detto, decisamente paronomasici:
“quando lasciare quell’angolatura / è potere di chi può sospendersi /oltre il sospeso dai piedi di podi soffiati ai soffitti sinfonici e soffici…”
In Primavera nelle creuze lo stesso intreccio metrico-verbale e segnico si innesca a partire da un rutilante endecasillabo al limite della reviviscenza gongoristica e marinistica (“Un bacio ad apparir bocca beata…”): le rime grammaticali interne e il tintinnio sillabico – accentuale forzano inoltre il fruitore del testo a riconoscere – non riconoscere quell’andamento giambico che dell’endecasillabo è caratteristico, marcando con gli slittamenti tonali gli slittamenti di prospettiva, di inquadramento e di percezione del senso. Nei successivi componimenti di questa prima sezione (ad es. in Avevano il capo alla suola nero chinato), i giochi di parole, incastonati nella struttura delle
parisosi e delle responsioni di membri ritmici che abbiamo notato finora, divengono una nota dominante (“… bianco su nero, nero su bianco: D’ama non D’ama. Damina. Pedina…”), fino a sfociare, attraverso il progressivo sminuzzamento della parola, nel calligramma, come accade in Quella risata che parte dalla fine, in cui il sistema di immagini che domina in gran parte il testo è in apparenza centrato sulla mescidanza cromatica, fra ottica e pittura
“Ho cambiato il colore dei miei occhi su una pagina di legno che frutta marciapiedi per i sorrisi mai recapitati alla posta del mio cuore a trampoli… Domani ti regalerò anche qualche nuvola per coprirti come un occhiale, e sarai perfetta al microscopio, come il virus del singhiozzo che mi ha ucciso”;
“La mia cartolina è tutta un cielo di cicogne che portano vita. Colori da spazi en plein air come i pittori e i loro tubetti lasciati a seccare sui davanzali delle giostre panoramiche delle mie finestre che dànno sul vuoto della ragione a favore di un volume altissimo della mia voce…”.
Tuttavia l’alternarsi sistematico fra immagini cromatiche e immagini legate alla dimensione della voce sembra alludere all’ambiguità terminologica di fondo che fa del “colore” tanto il timbro della tonalità pittorica quanto il timbro tonale della musica e del suono – e in definitiva, della poesia, nella sua capacità di creare un universo di percetti sinestetici, a trompe l’oeil, culminanti nell’ingannevole crux comunicativa finale:
Guarda le macchie dei fiori sul prato e dimmi se non c’è qualcosa di più pulito. Guarda i puntini delle stelle nel cielo e dimmi quale sospensione potrebbero darti questi miei giocattoli bui… Guarda la coda di un cane felice e dimmi quanti denti ha quella risata che parte dalla fine
in
due parole
c
r
o
c
e
Lo sminuzzamento del significante e del significato che ci è parso dominare nelle P*rose è a nostro modo di vedere superato in progress, nelle sezioni successive, dove il verso riprende man mano la sua fisionomia di scrittura-dizione interiore isolata nella pagina,
inscenando una sorta di Bildungsroman della rinascita della parola, dopo la sua morte iniziatica avvenuta in principio. L’organo comunicativo è ricostruito da prima a partire dalla sua unità minima costitutiva, il fonema che fa da tema egemone dell’allitterazione su cui di volta in volta ogni singola lirica di Taut-ologrammi è intonata. Così la /m/, nasale bilabiale dei primordi, di Mai mormorai, modulata a mimare un malsano mito del materno e del femminile, sullo sfondo di una quotidianità nevrotica e nevrotizzante
“La matrigna megera al megafono miagola, mercante di mimiche, misere e menzogne-re e manichini di mota mirando magnifiche mischie menano martelli maldestri… ,
ammutolisce davanti alla /v/, sarcastico morso labiodentale di Venticinque (natale), improntato alla demistificazione della metafisica di mercato da tempio per cui arguti ierofanti figli di un capitalismo minore
“vendono il vagito di un ventre vergine”,
a cui segue il sottile
“sussurrare selvatico
sensuale / sospeso sulla spirale”
in cui il sospiro della /s/ si snoda serpentino sul narghilè di immagini sensorialmente forti, a cui si avvicenda l’esplosiva plosiva bilabiale /b/ di Battito di Brace, impastata di omeoteleuti e di concetti aspri e chiocci, evocatori di una sensualità stavolta violenta e violatrice, da cui si ritorna alla metapoetica, e stavolta sottile
e sillogizzante, /s/ di Sonora,
“sulla scia di sensazioni /al sapore di sale e sapienza”.
In Sonora sussiste però anche un’altra dimensione poetica, della parola che assapora con insistita goloseria sé stessa
“Ruoto silente e sapida / Scalza spicco il salto /scandendo suoni soavi / Sola a stringere schizzi /su spartiti di sensi sazi”
: quasi un edonismo linguistico interfacciato con processi di decostruzione – ricostruzione degni di un Ouvroir de littérature potentielle. Ma a un livello più profondo, e lo notiamo nello sfiatamento labiodentale sordo /f/ che domina il rintocco di settenari giambici (e due occasionali ottonari trocaici determinati da anacrusi) de Il funambolo, il potere del fonema viene impiegato per evocare una dimensione ontologica, quella fragilissima dell’acrobata di
zarathustriana memoria. Sembra allora che al di là del gioco verbale la pura e semplice attitudine articolatoria dei singoli suoni “sola a stringere schizzi su spartiti di sensi sazi” celebri qui davvero il trionfo della voce come tale, come pura presenza creatrice, per citare lo Zumthor de La lettera e la voce – e in un’epoca di strapotere della vulgata deterrima e teterrima delle cartoline postali e delle tracce d’assenza non è poco.
Il passo immediatamente successivo, dopo che la voce come unità minima dell’atto articolatorio si è di nuovo inverata, attraverso l’allitterazione e il gioco, è dunque il riemergere della parola, come dispiegamento di distinzioni originarie, dicotomiche, in
In – v e r s o – U n i v e r s o : “scioglie la notte / il succo amaro / di acidi spicchi di giorno / spremuti”;
o come costruzione aggregativa di spazi metaforico-esistenziali:
“il mare spianato / che macera l’onda / la sponda greve di sale / che leviga pietre / e quella conchiglia / in cui custodimmo / l’anima? / È questo un oceano?”,
che si dilata nell’ampio respiro della topologia compositiva di Siamo sale di un deserto in movimento, in cui l’orientazione del mondo nullificante dell’esordio di P*rose è sostituita da un più umano, anche se fragile, sistema di coordinate e cartelli indicatori calati nel qui e nell’ora, nella presa di coscienza del sé come corpo e come psiche.
Dopo questi passaggi, la poesia si fa allora forma più distesa, come nei lunghi versi liberi che toccano uno dei temi più cari a Francesca Canobbio, la memoria della poetessa Claudia Ruggieri, a cui è dedicata Perché meraviglia ha foce di terra e fonte d’arie. In questa lirica, il gioco verbale si solleva al di sopra di sé stesso e si sublima, rarefatto, in un gioco carezzevole di immagini delicate
T’avrei adorato l’avo-rio con il mio lavorio / fino a che ogni misura d’ogni sfera sferra / la bianca perla che m’appunto agli occhi….
O a volte si muta in (auto-)ironia pseudo-matematizzante, come in Espressione, dove le immagini di algebrica tessitura definiscono ancora una volta l’impossibile necessità che è a fondamento della manifestazione dell’esistere come espressione di una circostanza d’essere, e al tempo stesso l’impossibile necessità che è a fondamento dell’espressione poetica. In questa continua azione sulla parola come mezzo performativo di ricreazione, decostruzione, costruzione e amplificazione del senso si fonda in ultima analisi la poesia come tale: in questo interrogare il potenziale poetico insito nel linguaggio e nel segno in genere dalle esplosioni sillabiche degli esordi alla fuga finale dei versicoli di Scappo, in questo tormentarlo fin nel suo grado minimale di produzione articolatoria, nel gioco verbale che decostruisce ricostruisce azzera moltiplica i sensi come i percetti, le parole come i concetti, in questa autoanalisi e cammino dall’autoanalisi (come auto- dissolvimento) alla catarsi, attraverso l’analisi e la catarsi della lingua, si sostanzia in definitiva il lavorio e l’avorio poetico levigato di Francesca Canobbio.
***
ABITO
Un nudo di donna
per vestire un uomo
PERCHE’ MERAVIGLIA HA FOCE DI TERRA E FONTE D’ARIE
T’avrei adorato l’avorio con il mio lavorio
fino che ogni misura d’ogni sfera sferra
la bianca perla che m’appunto agli occhi
e sfila con le sorelle nei templi irriproducibili
ora un velo che cela il cielo se questo cade
e tutti ne abbiano una dose se vogliono salire.
Io ti do pace nell’esserti salda come nel volo
piana plana l’ala che t’accolse e si fece di piuma
retta o parabola tornerà dopo aver mosso l’incanto
perchè meraviglia ha la foce di terra e la fonte d’arie
a Claudia Ruggeri
La mano è perfettamente piccola nei suoi rapporti stringe rapporti imperfetti del suo ciclo che accellera corrente fino a cascate e lava, calda, la dinastia di un popolo che l’accerchia, guerrafondaio gioca a nascondino con la lama nel taschino, piegata dalle stirpi angeliche che l’ancorano al suolo ancora per la pace di un comunicarsi oltre tempio che nulla conosce di verbi ma è l’unico che parla di vento in dì venire, chè ricordare di nome, chiamare, investire di un abito o abitare, se bussi ti sarà detto avanti, verde, il verde ricordo e porto avanti, mare non ti frena, sei tu che lo conduci marinaio, la conduci alla tua spiaggia e la fai fresca di una cantina in cui ti chiamò mistero per tua volontà e tu fosti con lei salvo per quel chiamarsi al buio
***
dal libro “Asfaltorosa”, editrice L’Arcolaio
sono quella che vedi
e ti sarò riflesso
oltre il mio sguardo
perché i tuoi occhi
sono il filo d’Arianna
d’ogni pensiero
nei labirinti
di una mente
che lega il flusso
al punto di un filo
con nodi alla tua gola
ad ogni respiro vivo
del coraggio di vivermi
*
Tienimi nel presente
perché per il mio quadro
non c’è alcun futuro
oltre i tuoi colori
Carichiamo il cielo del nostro fiato ed io spero che scoppi in fretta con la nostra malattia terrena questo oltre che non mi concede perturbazioni all’infuori di esso come me mai statico con il tempo di novembre che sembrano tutti poi novembre sulle scale i raggi del sole a dileguata traiettoria fra me e lo sparo della finta luce ormai finita nei neon a farsi bolla di scienza incanalata fra le mille dita dei fili di rame che coprono l’osceno buio eterico e si propagano fra le nostre case che sanno le doppie lingue del dormire e sognare l’altrove fra un attivissimo dormiveglia di attività domestiche mai troppo finiremo di spezzarci la schiena con i vocaboli esterni sotto questo cielo assurdamente in opposizione con la natura umana squisitamente delicata che cerchiamo di riprodurre sotto i tetti durante le pause fra le alluvioni che spremono i nostri fiati inalati dall’altissimo che preciso punisce la bestemmia umana fra una falsa virgola di osceno distacco fra noi e la nostra vita fra il punto di dolore in cui il cielo tutto cede e ci coprono le lacrime scappate agli ombrelli di uno sguardo propiziatorio a qualche nuvola antropomorfa e noi vediamo solo i nostri riflessi nella sfera che ci supera e non abbiamo bisogno e non avremmo bisogno di creare queste inutili rappresentazioni di noi stessi in una architettura che ci comprende senza mai veramente comprenderci se non quando il lampo della morte ci porta via a sollevare il cerchio ed il suo diabolico coperchio d’acqua fino alla secca dei corpi fino alla risacca che sponda in un buio d’altra fattura che finalmente il cielo scoppia e noi siamo terra nella terra ma cielo ci tocca di striscio e potremmo finalmente sputare nella bocca delle nuvole tutto il piscio della terra e il rovescio del meteo fasullo di una app che continuo a seguire finché c’è segnale e segnata dal tempo mi verso in quest’onda in questo flusso bramoso di coperture che mi vestano le parti nude di questo monologo fra me e la parte che continuo a recitare per sollevarmi dal perenne temporale che flagella ineluttabile la grandine scomparsa delle mie lacrime passive
Francesca Canobbio nasce a Genova il 17 febbraio 1978. Suoi testi sono presenti su numerose riviste in rete, fra l’altro sul sito Nazione Indiana a cura di Daniele Ventre, sul blog letterario a cura di Francesco Marotta Rebstein- La dimora del tempo sospeso, e sul blog del professor Gabriele La Porta Notturna – Viaggio in anima. E’ redattrice della rivista online “Capitalismo – organo ufficiale dell’era contemporanea“, cura il blog personale “Asfaltorosa“.
Il suo libro d’esordio edito per i tipi de L’Arcolaio, “Asfaltorosa”, si è aggiudicato la menzione di merito al premio Lorenzo Montano della rivista di ricerca letteraria “Anterem”.
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L’ha ribloggato su natalia castaldi [esilio e desnacimiento].
L’ha ribloggato su asfaltorosa.