Stefano D’Arrigo

a cura di Enrico De Lea

Fortunato Stefano D’Arrigo nasce il 15 ottobre 1919 ad Alì Terme (allora Alì Marina), una cittadina costiera della provincia di Messina.
Poco tempo dopo la sua nascita, il padre Giuseppe emigra negli Stati Uniti per cercarvi lavoro e fortuna. Ad Alì Terme D’Arrigo frequenta le scuole elementari e nel 1929 si trasferisce a Milazzo, dove frequenta le medie e le superiori (liceo classico). A Messina frequenta la facoltà di Lettere, laureandosi nel 1942 con una tesi su Hölderlin. Durante gli anni dell’università è chiamato alle armi , svolgendo servizio come sottotenente a Palermo durante la seconda Guerra Mondiale fino allo sbarco alleato.
Dal 1946 D’Arrigo si stabilsce a Roma nel 1946, dove si dedica al giornalismo e alla critica d’arte, collaborando come critico d’arte al «Tempo», al «Giornale d’Italia» e al settimanale «Vie Nuove».
Nel 1948 sposa Jutta Bruto, che gli sarà accanto per tutta la vita e sarà per lo scrittore interlocutrice critica, attenta e severa, alla quale dedicherà l’Horcynus Orca.
E’ del 1950 la decisione di volersi dedicare a un’opera letteraria di ampio respiro, che si chiuderà, venticinque anni dopo, con l’Horcynus Orca: «circoscritta ma disperata, vasta avventura quotidiana di questi pescatori che remano chini e assorti, in un gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetuto di condurre l’imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è mare», come scrive nella chiusa lo stesso autore.
Intorno alla metà degli anni ’50, D’Arrigo pubblica un libro di versi, Codice Siciliano, edito da Scheiwiller nel 1957 (poi ripubblicato da Mondadori, con l’aggiunta di altre poesie, nel 1978), con cui vince l’anno dopo il Premio Crotone (della giuria fanno parte, fra gli altri, Debenedetti, Ungaretti e Gadda): libro di versi che contiene in nuce diversi motivi che poi confluiranno nel grande romanzo.
Nel corso del 1958 D’Arrigo sottopone a una prima revisione il testo narrativo e ne manda un paio di brani al Premio Cino del Duca, che si aggiudica (la premiazione avverrà il 23 aprile 1959). Tra i giurati, Elio Vittorini si dimostra entusiasta del work in progress e chiede a D’Arrigo di pubblicare brani dell’opera sul «Menabò», che egli dirigeva insieme a Italo Calvino, mentre Mondadori gli propone un contratto per la pubblicazione integrale. D’Arrigo accetta entrambe le offerte e si rimette a revisionare ulteriormente il testo, due capitoli del quale (un centinaio di pagine) appaiono l’anno dopo sul terzo numero del «Menabò» col titolo I giorni della fera.
Nel 1985 D’Arrigo pubblica, sempre con Mondadori, il suo secondo (e ultimo) romanzo, Cima delle nobildonne, un’opera profondamente diversa dalla prima, non solo per la lingua, molto più accessibile (anche se ‘alta’ e specialistica), ma soprattutto per le dimensioni (sono ‘solo’ 200 pagine circa). Prendendo spunto dalla connessione iconografica del faraone donna Hatshepsut (il cui nome significa appunto “la più nobile tra le donne”) con la placenta, D’Arrigo immagina che un gruppo di medici, nel preparare un museo della placenta, scopra che la struttura genetica dell’uomo contiene elementi assassini, a riprova che la morte è intrinsecamente legata alla vita sin nelle sue radici ultime (e prime). In tal senso, Cima delle nobildonne è tematicamente speculare a Horcynus Orca, perché mentre il grande romanzo trovava i germi della vita nella morte trionfante (si pensi alla “cicirella” nella ferita dell’Orca), ora è il germe della morte ad essere trovato nella “placenta” della vita.
In quello stesso anno, che vede il suo atteso ritorno alla narrativa, D’Arrigo concede a Stefano Lanuzza una rara intervista, che è anche un’importante dichiarazione di poetica, pubblicata poi in S. Lanuzza, Scill’e cariddi. Luoghi di “Horcynus Orca”, in “Lunarionuovo”, Acireale 1985. Fra l’altro, lo scrittore, con tale dichiarazione di poetica, che coinvogle anche i suoi versi (“incunabolo dell’Horcynus”, come li chiama), afferma: «Ho costantemente cercato di fare coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall’obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi del testo – restino un fondamentale punto d’incontro e filtraggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ogni volta che ho adoperato neologismi o semantiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e ‘mirare’ il vocabolo finché non giudicavo d’avere raggiunto l’espressione completa: fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura ‘parlasse’» (pp. 134-135).
Il 2 maggio 1992 D’Arrigo muore nel sonno nella sua casa di Roma.

Testi

da Codice siciliano, MI, Mondadori, Collana Lo Specchio, 1978

IN UNA LINGUA CHE NON SO PIU’ DIRE

Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.

O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.

O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.

O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.
O in quella sua lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.

O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.

O in una lingua che non so più dire.

***

da PREGRECA[1]

Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi.

***

da SUI PRATI, ORA IN CENERE, D’OMERO

Qui, dove m’assomiglio, in patria,
sui prati, ora in cenere, d’Omero,
io da una gran guerra reduce, e da quante
un gran figlio mi ricorda mia madre,
perduto con lo scudo o sullo scudo,
desidero tornare spalla a spalla
coi miei amici marinai che vanno
sempre più dentro nei versi, nel mare.

***

IN SICILIA, A MEMORIA DEGLI AMICI

Se mia madre è piena di grazie,
se con me, con la sua voce d’agnella,
discorre del sesso degli angeli,
vantandosi del mio come una ladra
che ha le ciglia lunghe, passionali;
se lei quella sua meraviglia a guardia
del mio sonno pone, se a palme aperte
arriccia e smorza sul nascere i coltelli
dell’invidia, se scongiurando fa
fuoco e fiamme, l’inferno nel dialetto,
nella sua bocca zecchino e nerofumo;
se ammansisce tigri e leoni, lusinghe
intorno intorno alla mia snella vita;
se sola intreccia a cometa parole
nel cielo dei suoi capelli a chiocciola,
uno col mio avvenire, col favore
di madre che va negli Inferi e viene,
nessuno in Sicilia lo tradisce,
nemmeno col pensiero, con la luna:
vive conteso al destino, di spalle,
nascosto in una nuvoletta di sale.
In Sicilia, a memoria degli amici,
nei versi oscuri della divozione,
uno simile sovente si cita,
con uno scorpione sul guanciale.

***

QUANDO CON MITE

Quando con mite fragore di tuono
dal mare arriva primavera
e il cuore si fa di cera,
miele di dolce frastuono
di migrazioni di pesci e d’uccelli,
il vostro nome ha rapido suono
di pinne e d’ali e noi fra quelli
vi immaginiamo, perché è vero
che anche la vostra meta è un mistero.

***

TAORMINA, MIA MIGNON

Taormina, mia Mignon, è dove mai
sempre s’arriva, pellegrini
dal cuore di rughe,
in tempo per vivere
«obliti/obliviscendi » [2]
una seconda volta la vita.


[1] In “Pregreca” D’Arrigo allude ad alcuni «riti di seppellimento in uso presso gli antichi abitatori della Sicilia».

[2] dal latino “dimenticati/dimenticando”.

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