Enrico De Lea

a cura di Gianluca D’Andrea

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p style=”text-align:justify;”>Enrico De Lea (1958), messinese, dal 1988 vive nell’altomilanese (Legnano), dove esercita la professione di avvocato tributarista. Originario di quell’area tra Messina e la Valle d’Agrò (in particolare Casalvecchio Siculo), tra Capo Scaletta e Capo Taormina.
 Ha pubblicato le raccolte: Pause (Edizioni del Leone, 1992 ), Ruderi del Tauro (L’Arcolaio Editore, 2009, Finalista al Premio Lorenzo Montano 2010 – Verona), Dall’intramata tessitura (Smasher ed., 2011), nonché, nel 2012, il poemetto – sequenza Da un’urgenza della terra-luce per l’Ass.La Luna, in una collana di poeti ed incisori curata da Eugenio De Signoribus. Nel 2012 suoi testi sono usciti nell’antologia Licenze Poetiche (Vidya Editore). Nel 2011 e 2012 suoi testi sono usciti su Registro di Poesia (D’If editore). Infine un suo testo, nel 2013, è parte dell’antologia-omaggio a Emilio Villa, Parabol(ich)e dell’ultimo giorno. Suoi inediti sono stati premiati al Premio Poesia di Strada 2010 (Macerata – Festival Licenze Poetiche), dove è stato finalista nel 2011.
 
 Nel 2011 è stato, altresì, finalista al Premio Lorenzo Montano 2011, con la raccolta inedita La furia refurtiva. Suoi testi sono apparsi sulle riviste Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier (su cui è stata anticipata Acque reali, poi sezione di Ruderi del Tauro), Caffé Michelangiolo; in rete, suoi testi sono apparsi su vari siti e blog letterari. Il suo blog “da presso e nei dintorni” raccoglie parte della sua produzione.

Testi

(Da: Pause, 1992)

Fuori

Fuori, il sentiero che segni
è non piccola parte del regno
d’un sottile nessuno.
Per questo temi e volentieri
t’abbandoneresti all’antico
tracciato, felice tra il secco
caldo delle foglie di ieri.
Invece non ha luogo qui
alcun fuoco sicuro.
L’esilio è ancora lungo,
definitivo forse.
Ecco, t’è procurato calice d’oblio
da cui già trinchi.


Pause

Amate annichilenti
pause del volere
possa da voi declinare
l’accadere.
All’aria delle strade
curate voi di farci
buoni assenti privi.
Al falso – al passo –
dei puri accenti
assoldati duri vivi.

(Da: Ruderi del Tauro, 2009)

(sequela del padre)

1.
Nella notte del padre si contempla
il pharmakon l’olivo e il raro volto
e presso l’arco di pietra cimino
l’occhio dissecca e albeggia.
A lenimento della scala estesa,
echi dal sonno, unguenti, nello specchio
la barba incolta che vaneggia. Assedia
la casa della silente veste
mattiniera, usi d’acqua, disvela se profila
alterno fiotto oceano al dolore,
picco ad altare d’isola, foresto
al capo roccioso dei padri,
da valle moritura.

2.
Il sole delle tortore
ristora il padre, in ombra ulivo
e pertica attorta.
Fruschi non mali
con la pernice esclusa
e il cacciavento esangue,
salva il seminatore il bel commiato
all’alba, commercia con la tenebra, concima.

3.
Ora, dunque, restaurare,
avverso il risolino
eterno del teschio,
spargere a piene mani per il mondo,
valletta o corte stracca,
ora della scorza e patronimico.

4.
A redenzione della cieca guida,
prono ad escutere i tocchi
della mezza campana dell’arme –
la corsa del cane ringhiarne,
il tinnito del sasso focaio –
s’addice a siffatto tempo
l’assorta sufficienza augurale,
retrocedendo sino
alla sanità dei passeri,
ai massi anzi il proscenio ionico.
Da manca, che l’alba sgomenta,
lucus deserto del padre.

5.
Dato all’ombra di Cesare
il fruscio d’arcolaio, indossa
il magro saio, spoliazione
delle valli antemarine.
Flagellante solerte, si percuote.

6.
Per il libero essere del marmo
intonso
s’è nutricato il dio, falco
appaiando e regio falconiere.
Il ginocchio del pellegrino
interra, in grembo,
genera capretti.
Alla caccia, alla caccia,
l’ultima tenebra
dei valloni coi cavalli
bardati, i padri all’alba
assediano,
ove infame la quiete del tempio…

7.
All’artefatto graffito riconduce
della soppressa soglia familiare,
sappia che a mercatura si riduce
pianto in un padre, che non stagna
tempo della gerbia, malgrado l’animale
sfrontato sibilante regni.

8.
Il corpo della voce trema
alla vista del mare dei padri,
cala l’oblio sull’odio necessario
ed a voi, utenti dell’illuso teatro,
par finalmente sceneggiata pace.

9.
Trema la terra senza il padre, trema,
promessa ostesa,
d’un qualsivoglia frutto del verbo,
ferula cannizzo scanno
palma astuta d’ombra…

10.
Passio omiletica della cava
virtù, porge l’uovo della diruta
casa, passato l’oltre del padre
innervato, nell’asse del ciliegio.
Chiedi pure, soror, al profetante Giovanni,
allo scalzo precorde, al morto luminoso.

11.
Conserva l’olio per la carità dei morti,
per la pelle del silenzio consolante.
Dal nerbo ustorio
l’abito risuona, la contrada
dei legni, la via petrosa al sole.
Siano i veri, i procedenti a un fine,
penombra del muschio paterno,
narrativa del verbo senza carne.

12.
Consiste nella gogna forca vituperio
un arco d’illusione, dopo il padre.

(Da: Dall’intramata tessitura, 2011)

Con cane immaginario e vero

Sanguinava d’amore nel torrente
asciutto, correndo appresso al cane –
gli si riaprono, nel tempo rinveniente,
le ginocchia ferite, rovine sul pietrame.
Nel chiaro che infuriava, quale fame
cardava il sole, fuori da lini e persiane –
quale cane rincorra oscuramente
ora da un assolato di epoche lontane,
eterno dubbio, non certo è il cane dei parenti,
forse è l’animale di un rapace ammodo,
il piano ragionato dei violenti,
il legale disbrigo d’ogni nodo.
Talora l’aria richiama quel latrare:
oltre il verde morente, apriva al mare.


Cimitero di Ciappazzi

Anime pregne, torsi seppelliti
coi corpi al cimitero sul paesaggio,
niente salvezza, esseri sfiniti
dalle sviste di ieri a quelle d’oggi.
Gli occhi qui vagavano smarriti
della prossima fine del coraggio:
poi, accompagnarli tutti, ad uno ad uno –
vinse un paesaggio sull’ansia di ciascuno.

(Da: Da un’urgenza della terra-luce, 2011)

I.
S’accosta, da un’urgenza
della terra-luce, nell’oscuro strappo
della volta, nel tremante
saluto della mano,
sul dorso un rossore
di nerbo, ustione, nutrimento.


II.
Serba memoria d’alba,
camminate tra lo spino
e un rintocco calcareo, salvezza
sconosciuta dalle serpi.
Ritrova una salvezza altra,
di radura, la morte subitanea
dei vigneti, con la finzione
divenuta vita.


III.
Una frase anch’essa
calcarea, al suo spaccarsi
a un fuoco di fornace,
rende una crepa al cielo, troppo
vicino da escludersi.
Colmo di ogni ramo, esausto,
che qui s’innalza, collo
come di bestia antica
incattivita, resta,
sul vetro alle finestre, vapore
di erbe cotte della selva.


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