Vincenzo Frungillo

a cura di Stelvio Di Spigno e Mario Fresa

Vincenzo Frungillo nasce a Napoli nel 1973. Ha vissuto a Freiburg, a Saarbrücken (in Germania) e a Milano dove tutt’ora risiede. Si è addottorato in filosofia con una tesi dal titolo Il rischio di una reificazione del linguaggio. Selbst e perdita di Selbst in Martin Heidegger (2001). In versi ha pubblicato Fanciulli sulla via maestra (con una nota di Milo De Angelis e di Eugenio Mazzarella, Palomar, 2002), Ogni cinque bracciate. Un estratto. (finalista premio Delfini, edizioni Galleria Mazzoli, 2007), Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis, Le Lettere, 2009), Meccanica pesante (XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea a cura di Franco Buffoni, 2012), Terre straniere (in Registro di poesia # 5, finalista Premio Russo-Mazzacurati, edizioni d’If, 2012), Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia (Premio Russo Mazzacurati, edizioni d’If 2013), La disarmata (AA.VV. Cfr edizioni, 2014). Altri suoi testi inediti sono compresi in Hyle. Selve di poesia, (con Dvd video contenente interviste e video, 2013). È presente in diverse antologia di poesia contemporanea, tra le quali Il miele del silenzio (a cura di Giancarlo Pontiggia), Poesia dell’inizio del mondo (a cura di Nanni Balestrini). Dai suoi testi sono stati adattati due recital per la voce di Viviana Nicodemo, entrambi presso la Casa della Poesia di Milano. Per il teatro ha scritto Il cane di Pavlov. Un monologo (Premio di drammaturgia Fersen. Ottava edizione, Editoria & Spettacolo). Suoi testi di narrativa sono apparsi su riviste, altri progetti sono tuttora inediti. Ha scritto interventi saggistici sulla poesia di Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Paul Celan, Biagio Cepollaro ed altri. È redattore di Puntocritico, Absoluteville, Carteggi letterari. Suoi versi sono stati tradotti in tedesco e sono in corso di traduzione in lingua inglese-americano. Sulla sua poesia hanno scritto tra gli altri: Andrea Cortellessa, Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Giancarlo Pontiggia, Giancarlo Alfano, Giorgio Manganelli, Alberto Bertoni, Alberto Sebastiani, Luciano Mazziotta, Francesco Filia.

Testi

da Ogni cinque bracciate
Sequenza V (Canto IV)
La tac totale

La tac totale ha scoperto il segno del tempo,
i tumori invadono la pedana di tuffo;
ingeriscono il veleno del loro fallimento,
è finito l’assedio, s’è concluso,
ora tutto è osceno:
le ghiandole ingrossate oltre il muro,
la trasparenza della pelle sulle dita,
il ricordo dell’ingenuità patita.

[…]

La morte non è più un fatto personale, questo è stabilito,
nelle sedute di chemioterapia,
quando tutto è nausea senza vomito,
quando il centraggio della cellula spia,
il tatuaggio sull’organismo colpito,
indica la parte sana unita a quella in agonia.
La legge immobile della Stasi,
ora si propaga in metastasi.

[…]

Sono pronte al prossimo futuro,
mostro santo in corpo ridotto,
all’innesto d’un frutto maturo,
mostro santo in corpo ridotto,
cisti ovariche formano un grumo,
ciò che resta del feto -ha stimmate in ogni posto-
Le loro gesta, le loro azioni,
ora si propagano in radiazioni.


Da Meccanica pesante

La fine di Lucrezio

Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo.

Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.
La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere,
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione,
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.
Ma adesso cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen.
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.
Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera in una fusione
che non s’avvera. Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.
Adesso sento che cresce la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega del clinamen.
Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.
Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende
(il gallo nasce non dall’uovo,
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie,
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.
Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto,
resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.

Una
è la regola,
ma varia la misura,
tornano i corpi verso la fonte,
poi se ne allontanano per repulsione,
così gli astri, così la luce, così il sole
ripetono la rivoluzione, la regola prima della generazione
e anche se alla fine il vulcano mi darà ragione,
tutto intorno sarà solo cenere e distruzione,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna d’Iperione.
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda, Memmio,
il sole.


Da Terre straniere

VIII.

Ora vivo dove riposano gli elefanti.
Lì, dietro le ciminiere, tra le balle di ferro,
puoi trovare il loro cimitero;
hanno la gabbia toracica ancora gonfia nel fiato.

Ci sono carrelli che salgono piano,
portano carbon fossile al cielo,
dal loro odore si sente quant’è nero.
Un operaio mi viene incontro, mi stringe la mano,

dice che è caduto lavorando-
i fantasmi hanno le dita molli del dubbio
come di chi saluta senza volerlo-

lui di questo posto è il guardiano,
controlla che nessuno tocchi l’avorio,
dice che adesso solo io posso vederlo.


IX

Lasci l’istinto minimale,
le cose poco serie, i refusi sul giornale,
a chi ancora crede in una correzione
e fissi l’orizzonte,

la sua pancia gravida di onde;
resti in piedi nella secca, una sogliola ti fissa,
resta muta la natura, tutt’intorno si ritira
con l’onda di risacca che respira.

«Torna! Torna!»
Grida qualcuno dalla riva,
ma tu sai che la marea arriva,

che è l’ultima tua sfida
ritrovare volume, risalire in superficie,
rivedere la fine.


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