a cura di
Anna Ruotolo (1985) vive in provincia di Caserta. Si occupa di Diritto. Ha pubblicato Secondi luce (LietoColle, 2009 – seconda edizione 2011) e Dei settantaquattro modi di chiamarti (Raffaelli, 2012). Ha vinto il Premio Turoldo 2009, il Premio Silvia Raimondo 2009, il Premio Città di Ostia 2011, il Premio Subway letteratura 2011, il Premio ClanDestino 2011. È presente in varie antologie poetiche, tra le altre si segnala “La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta” (Ladolfi editore, 2011 – a cura di Matteo Fantuzzi e con una prefazione di Maria Grazia Calandrone). Suoi testi sono apparsi in “Poesia” di Crocetti, “Capoverso”, “Poeti e Poesia”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva”, “La Clessidra”, “UT”, nel quotidiano “Il Tempo” e in blog e magazine online (Absolute Poetry 2.0, Neobar, L’occhio del pavone, Poetry Wave-Dream, Blanc de ta nuque, Imperfetta ellisse, Poetarum Silva, Transiti Poetici…). Un testo tradotto in spagnolo da Jesús Belotto è pubblicato nel num. 4 della rivista internazionale “Poe +”. Collabora, scrivendo recensioni, con le riviste “Poesia”, “Atelier” e con blog letterari. Gestisce il sito personale www.annaruotolo.it e il blog letterario SpazioPoesia.2
(http://spaziopoe.blogspot.com).
Testi
Prodigi
La fontanella che prelude a qualcosa
questo è il segno dei prodigi
di quei prodigi assoluti e chiari
che non t’aspetti,
la fumarola inerpicata tra le gambe
non ti scampa, avvampa alla tua faccia
raduna il presagio dolce dal sangue.
Oltreoceano si conficca la risposta
a volte passa sulle nostre teste
la nevicata improvvisa, la voce
e non siamo mai assieme in quel momento,
aspetti e non aspetti niente.
*
Venire a trovarti
Venire a trovarti sull’incorruttibilità
delle tue mani
un martedì, un mercoledì
il non-giorno della tua libertà
col cappotto ruvido per la neve
del mondo
un olmo per casa alla mia macchina
posteggiata.
Entro come una lama fra le tue cose
una sedia, un caffè ristretto, il libro da iniziare.
C’è l’abbraccio, la cupola che faccio
con le dita appena nate sul dorso delle tue.
*
Autobiografia con piano
(una poesia ispirata da B. Collins e la sua “Lezioni di piano”)
Gentile Signor Collins,
oggi ho avuto un buon momento
libero e silenzioso
ed è così e liberamente e silenziosamente che apro il mio piano;
chi c’era se n’è andato e io non l’ho trattenuto
per restare senza orecchi e senza occhi attorno alle mie mani.
Sappia che sono mani imperfette ma sfilate quanto basta
e forse un po’ piccole e forse biancolatte
e perciò le tingo di rosso, perché si facciano
più grandi e più distinte.
La mia storia musicale è una piccola crisi
familiare, non volli più studiare,
di punto in bianco; un quadro venne giù,
qualche strepito, usai la scusa di un viaggio
dentro le mie cose. Non tornai più indietro.
Il mio maestro mi parlava dell’estro
e di grandi passeggiate
nei grandissimi tramonti delle cinque,
noi chiusi in casa, il resto dei ragazzini
fuori a giocare e intercettare
palloni arancio e neri tra i rami verticali.
Non ascoltavo mai, stellina frettolosa.
Così mi regalò una sonata da finire in due,
a quattro mani. La ricordo, Signor Collins.
La ricordo ancora. Fu un fiore. Per me.
“All’ombra delle rose” si chiamava.
Ma nessuno mi convinse, nemmeno
la stradina dai tasti bianchi e neri per il paradiso
o una festa radiosa su un prato in piena città
o un finale da fuoco d’artificio
o una marcetta per una cerimonia.
Poi, un giorno, sono ritornata dal viaggio dentro me
e la polvere fluttuava al mio passaggio.
Ho aperto con la minuscola
chiave a ventaglio il pesante vano.
Era re-imparare come tornare a contare.
Do, chiave di violino e quattro quarti
bandito – però – ogni foglio, spartito e riga nera.
Pochi hanno ascoltato. Io mi nascondo
come il semitono dissonante nell’accordo.
Dovresti tornare indietro di un passo
per trovarlo ma sei già perdutamente fuori,
col cappotto sulle spalle, hai già addentato
la piccola mela, hai già chiuso un appunto
dentro il libro. E non avrai capito bene.
E pensi, Signor Collins, ora ho tutto uno spartito
sulla convinzione.
Persino un uomo, perché io lo sposi,
dovrebbe convincermi in un modo solo:
innanzitutto sapere che un appartamento
senza piano per poter suonare
non è appetibile, ai miei occhi. Né gradevole.
L’avrebbe detto anche il fantomatico
signore dell’immobiliare.
E poi che sia un piano grande
in uno spazio piccolo.
Avremmo cene, ricatti, summit parentali,
dinastie da ricomporre
ma lui desidererebbe persino lavare i piatti
e mentre riordinasse – lui, non io –
ascolterebbe un accordo che salta
e la terza nota sempre sbagliata
di una canzone ripetuta a orecchio.
Più questo di tutto, capisce?
Una casa piccola e, a un certo punto, vuota
tranne che di me, del piano e di lui
a volte silenzioso, in ascolto.
I capelli scuri nascosti da una colonna
i piedi maschili ma leggeri
e sbucherebbe da un lato e poserebbe
una mano su di me.
Ricapitolando: un appartamento piccolo.
Con piano. Una colonna. Una cucina.
Preferibilmente in periferia.
Musiche nazional-popolari ma eleganti.
Anche se con qualche caduta (mani imperfette,
rammenti!).
Poi un letto. E ovviamente il piano.
E alla finestra, anche se non vista
anche se fosse per una volta sola,
o di passaggio,
l’ombra sottile di una rosa.
***