Biciclette alle falde di Mongibello per L’ELISIR D’AMORE al Bellini di Catania con la regia di Calenda

 

di Marta Cutugno

Sì lo vedo, o bricconcella,

ne sai più dell’arte mia:
questa bocca così bella
è d’amor la spezieria:
hai lambicco ed hai fornello
caldo più d’un Mongibello,
per filtrar l’amor che vuoi,
per bruciare e incenerir.
Ah! vorrei cambiar coi tuoi
i miei vasi d’elisir.

Catania. Al Teatro Massimo Bellini è in scena “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti per la regia di Antonio Calenda. Nell’allestimento catanese, l’opera trova ambientazione nel dopoguerra del Sud Italia. Prendendo spunto, infatti, da un verso del libretto affidato al ciarlatano Dulcamara che fa riferimento al Mongibello, altro nome dell’Etna. Calenda porta in una piazza di Catania il capolavoro comico del compositore bergamasco. E sottolinea: “L’opera, lieve e complessa ad un tempo, ha una leggiadria bucolico pastorale che intendo garbatamente sovvertire, immergendola nel Novecento italiano, preindustriale, in quella civiltà agricola ancora pura e incorrotta che ovunque, ma soprattutto in Sicilia, dominava”. Ed è nell’Italia che riaffiorava dalle macerie della guerra che trova i suoi sviluppi la vicenda di due innamorati e di un magico vasello, con le scene e i costumi di Manuel Giliberti.

L’elisir d’amore è un dramma giocoso in due atti la cui genesi risale al marzo del 1832. Donizetti è ancora a Milano ma sta per rientrare a Napoli quando viene bloccato da Alessandro Lanari, il “Napoleone degli impresari” che in quel momento aveva in appalto il Teatro alla Canobbiana. Si trattava dell’attuale Teatro Lirico, una sorta di Scala in piccolo, uno spazio teatrale per borghesi in cui andavano in scena opere divertenti e più leggere. Piantato in asso da un altro compositore all’ultimo minuto, Lanari chiese al Donizetti di prendere l’incarico e così l’opera fu composta in tredici giorni. Donizetti tirò fuori dai cassetti tutta una serie di schizzi melodici e armonici che aveva messo da parte e, dal canto suo, Felice Romani scrisse il libretto in soli sette giorni, attingendo da un libretto francese, Le philtre che aveva ispirato Eugène Scribe per l’opera di Daniel Auber rappresentata a Parigi nel 1831. Soltanto un anno dopo, l’Elisir andò in scena per la prima volta a Milano il 12 maggio del 1832. Il pubblico lo accolse con calore ed applausi ed anche la critica fu benevola. Donizetti viveva il periodo di maggiore successo dell’intera sua carriera.

Nell’allestimento catanese con la regia di Antonio Calenda, le scene di Giliberto sono minimali. Le proiezioni delle immagini sul fondo presentano Idda, a Muntagna, il Mongibello fumante, e sul palcoscenico, altri pochi elementi: un’officina a vista in cui lavora Nemorino qui impegnato a fare il biciclettaio, una tavola imbandita al momento del banchetto, una base di appoggio per bicchieri e cestini da picnic, due tavoli e poche sedie, strutture che nella loro visione d’insieme non sempre suggeriscono un disegno organico. Elemento scenico per eccellenza è la bicicletta. Ombre di uomini e donne su bicicletta avvolgono lo sguardo dello spettatore non appena si apre il sipario. Le bici invadono la scena in ogni dove e in ogni momento. Un’idea delicata che rievoca il lirismo e la nostalgia di un tempo lontano in cui la vita era certamente vissuta in modo più lento. Calenda afferma: “Ho pensato al mezzo di locomozione per eccellenza – per andare al lavoro, per divertirsi, per vivere – simbolo di un momento storico cruciale: la bicicletta.” Non mancano i riferimenti alla cinematografia, dalla pellicola di De Sica “Ladri di biciclette” e alle suggestioni di “Pane, amore e fantasia” di Comencini , un ritratto brillante e grottesco della società del tempo. Ed è in questa cornice che L’elisir di sì perfetta di sì rara qualità diventa protagonista assoluto di un intreccio amoroso a lieto fine. Nemorino si affida ai consigli di Dulcamara e ai poteri di conquista del suo specifico, in realtà del semplice vino. A berlo con la speranza di rapire finalmente il cuore dell’amata è il tenore Mario Rojas, che sulla scena restituisce un Nemorino credibile ma talvolta vocalmente troppo tiepido e poco incisivo. Adina che è difficile a conquistar trova espressione in Irina Dubrovskaya che è stata interprete dai suoni intensi e limpidi e dalle agilità di cristallo. Il soprano siberiano ha sfoggiato la sua notevole grazia scenica unita a grandi doti tecniche ed espressive. Rivale in amore di Nemorino è Belcore, interpretato dall’ottimo Clemente Antonio Daliotti che in questo allestimento è un bersagliere con i suoi commilitoni sempre in corsa. Giannetta è ben interpretata da Paola Francesca Natale. Quel gran medico dottore enciclopedico di Dulcamara è Francesco Vultaggio che ne veste perfettamente i panni con la sua ottima vocalità, per una impeccabile interpretazione. Menzione speciale va a Giancarlo Latina, mimo nel ruolo dell’assistente di Dulcamara. Brillante, vivace, magnetico, Latina ha fatto sue e nostre centinaia di parole pur senza dirne nemmeno una, facendo esclusivamente appello all’eleganza del gesto e alla sua straordinaria espressività. Assistente alla regia è Manola Plafoni, alle scene Giovanni Ragusa, aiuto costumista Giovanna Giorgianni, responsabile dei movimenti scenici Jaqueline Bulnés. L’intesa tra buca e palcoscenico è ottima. Sul podio il M° Tiziano Severini, dirige con grande trasporto l’orchestra del Teatro Bellini di Catania in forma smagliante, per una rilettura luminosa a supporto delle emotività della partitura donizettiana. Puntualissimo il Coro del Teatro Bellini diretto dal M° Luigi Petrozziello che corona con la nota qualità dei suoi interventi una messa in scena estremamente gradevole.

ph: Giacomo Orlando 

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