ICONE. Hayât – nota a In giardino di Viviana Fiorentino

“La primavera è così bella da essere inumana” diceva Fortini: “In giardino” (Controluna, 2019) di Fiorentino sembra aver assunto come vestigio della propria opera proprio questo concetto e – forse – per questo la raccolta si apre con una citazione da “Foglio di via” dello stesso. Al di là della speculazione per cui ci si possa sbilanciare nel dire che un autore abbia abbracciato il messaggio globale di un altro poeta, in questo elemento possiamo trovare un faro di Alessandria a guida nell’esegesi dell’intera opera, se non anche una chiave ermeneutica consegnata al lettore ed un omaggio al passato ed ai suoi maestri.

Questo perché (è bene ricordarlo seppur sinteticamente) proprio come Fortini compose la sua opera imperniando le poesie agli eventi della Seconda guerra mondiale, a noi è concesso recuperare un modus similare nell’autrice; questa similitudine ci concede di poter avvicinare e l’introspezione lirica, e l’elegia amorosa allo scorrere degli eventi. O meglio: sono gli eventi stessi che sostengono il dettato dell’autrice, come ci dimostra la poesia Neige, composta in seguito alla nevicata straordinaria del febbraio 2018 nel campo Jaurés de Paris, o anche l’intera sezione “Siria”, che tocca la tematica sociale.

Grazie a questa capacità di legarsi e fondersi agli accadimenti, la raccolta di Fiorentino si consegna come frutto spontaneo del processo di sintesi degli stessi, attraverso il quale ogni poesia è imbevuta della sensibilità e dell’umanità della poetessa; i componimenti, tanto nel singolo quanto nel globale, si mostrano permeati di una “personalità” – perché di questo ci si pregia di parlare quando ci è dato un io lirico – che coincide con l’occhio di Fiorentino.

“Nessun cammino per discendere”, insegna Fortini nei versi specificati dalla poetessa in apertura; eppure l’autrice ci tende la mano mentre entriamo con lei e con la sua proiezione lirica nell’opera, che risulterà – in ultima analisi – più orientata verso meridione per il colorito e per il sapore dei versi dell’autrice, che non al “nord dove il sole non tocca” citato.

La prima tappa della raccolta si manifesta come luogo concettuale, un “giardino” da intendersi come referente metafisico, insistente in uno spazio speculativo seppur privo di una dimensione temporale, perché “chiedi, qual è il tempo?”, nel quale non si può indicare il nitore cristallino di un prima, e la logica “emersione” della conseguenza di un dopo, per cui “fiorirà in una nebbia di marzo […] una verità / o una ruga sul volto”, “e quel fiore che ora nel vaso si apre”.

In questo luogo di intima riflessione, “di ciò che si crea senza sapere / di quando ci ingombriamo di parole / che dentro mute si fanno quiescenti” la vita – e tutto ciò che è vivo – si manifesta metamorfica nella composizione dell’autrice; quasi come fossimo al cospetto del giardino della maga Circe, l’uomo diviene parte integrante ed inscindibile della natura – così come nell’attrice la figura dell’amato muta in “astero rosso” – compresa in tutta la sua realtà materica; in ciò confuta il messaggio di Fortini, per superarlo.

Infatti – così come “il cielo / è integro tra i rami del susino” – l’integrità della natura così generata e delineata tra i versi, per cui risulta composta di “rocce nude” e “spoglie”, “acqua […] che dilaga e inonda” e “budella di pietra / arcane come il cuore umano”, non può né sottrarsi alla coscienza dell’essere umano come cosmopolita, e pertanto abitante del mondo, né ignorare la coscienza più profonda e radicata del continuo spezzarsi dell’uomo, e di come “tra bocche senza luce / e volti senza nome” la condizione umana si sveli come moltitudine di “creature vinte dal sonno, sfinite […] da sorgenti di nulla”, uomini che “non hanno pace / da questa luce che più non fiorisce”, così l’esistenza e la sua trama si mostrano come sottesi tra “lo sforzo di rifare e tornare” e “ginocchia” che “terra / non hanno per prostrarsi”.

Ma il dettato prosegue per “divenire dell’essere la danza” imitando “l’autunno” e la coreografia delle foglie che si abbandonano in volo dagli alberi per cadere, ed in quell’atto risulta più umano. E forse anche più nostro, perché “cadere era il peso esatto di amare”, ricordandoci di come il “hominem pagina nostra sapit” di Marziale sia più categorico che mai.

È in questo danzare che l’io lirico dell’autrice trova ragion di essere e si perfeziona nell’unicità del soggetto unico, il noi collettivo, “come il nostro amore, / nel corpo sigillato”, e nella poesia di Fiorentino la vita rimane – nonostante “la smorfia della ferita”, nonostante i “bambini sconfitti nei loro giochi” e le “madri rese minime nei grembi”, nonostante “i cecchini” abbiano “lasciato chiusi / padre e figlio nell’auto, / per tre giorni nell’auto / morti” – e continua, come “aria che si rompe in altra aria”, consapevole del fatto che si danzi “attorno agli errori del vivere”.

Alla parola della realtà non può che rispondere la poesia pregna di umanità e coraggio, capace e consapevole di sé – in quanto formulata da uomini, ed agli uomini destinata – e del messaggio per cui ci sia doveroso “L’andare oltre il pianto, / giungere a questa gioia, / unica o muta, / che tenace rimane / e nasce nel colore di ogni cosa” perché, come “la musica non è sulla pagina scritta”, “noi, i vivi, forse gli ultimi / e sempre più ciechi” siamo gli eredi dell’ “enigma del passato”, alla cui risposta possiamo assistere “ancora con questi occhi”, con le nostre “braccia, gambe e mani e secoli”.

                                                                                                                                                           Carlo Ragliani

*       *       *

In giardino

Tra il rosmarino e la menta tu dove
adesso manchi, nitido tornava
quel giorno al mare di tanti anni fa
quando la luce era cornice del volto.
Tra la rosa canina e la lavanda
un cielo viola si apriva in frantumi.
“Forse” promettevi e nel tuo viso
imprimevo il cielo.

*

Venezia

Tra queste pietre che affondano in acqua,
cianofite e patine algali,
in un buio di madre e strade
camminiamo tra budella di pietra
arcane come il cuore umano.

E questo è il sogno tu mi dici
e la pietra che vedi
che dall’acqua ora emerge
sfinita.

E quel che senti non sai
se da verdi escrescenze
marine
o da labbra d’oro e d’oblio
proviene.

O forse è acqua lo specchio in te,
dilaga e inonda,
occulta cupa l’onda immemore
del tuo niente.

*

per Ghuta

E dunque sono questi i fiumi e i mari
le acque dove volevamo salvare
noi, la sorte o forse gli ultimi lumi.

Tu volevi guardare oltre quel mare,
volevi rompere l’orizzonte,
linea di luce taglia cielo.

Tu volevi stringere
i confini, volevi ora annullarli,
le vene non volevi più scaldare,
solo crollare.

Tu volevi in deriva
verso quella linea,
l’ultima, oltre il mare,
rompere la barriera.

Ma io ti dico, noi
saremo sempre in questo mare
senza linea e terra,
solo gemiti e pianti
e poi mani aggrappate ad altre mani.

E noi, i vivi, forse gli ultimi
e sempre più ciechi,
ma ancora con questi occhi.

Noi, indurite voci nel mare perse
oltre la linea noi abbiamo un’ala
sulle labbra o nel cuore.

Dalla finestra o dall’ultima sponda
di granito o riva, abbiamo una vela
ancora aperta dentro di noi
ed è cielo schiarito oltre,
altra latitudine.

*       *       *

 

 

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