La benvenuta dismisura. Sulla poesia di Claudia Ruggeri – di Mario Fresa

 di Mario Fresa
 
Sono pochi quelli che scrivendo, se non ricevono risposta, non se ne turbano.
Giuseppe da Copertino
  1. Il poeta non racconta. Ma solo rivela l’eco di una musica alta, percorsa da un’energia diretta, di natura potentemente oggettiva. L’azione della parola, in lui, si muove e splende in senso affatto intransitivo: ché il poeta è parlato dalla lingua; e rifugge dalla ipocrita illusione di essere (o peggio: di avere) un io (che parola sciagurata…), al quale affidare la menzogna della confessione, o l’idiozia di potere, infine, descrivere il rumore insensato dell’esserci, l’angoscia della volontà, lo spettro lamentoso dei propri sentimenti (ecco un’altra parola sciagurata!). Sa bene, il poeta, che nulla può dire, se non l’impossibile il mostruoso l’inconfessabile l’abnorme: e non può mica utilizzare le parole di quelli che si occupano, ogni giorno, di stabilire relazioni o legami: «Io ti comunico ciò, perché tu possa intendere questo; e tu mi rispondi, perché entrambi possiamo allegramente fingere di intenderci; così faremo fruttare la nostra ipocrisia, e ciascuno dei due otterrà qualcosa l’uno dall’altro». Pensate davvero che un poeta possa accettare di usare il linguaggio della comunicazione-da-bottaio? Potrebbe mai discendere in una simile, infame bassezza, e ritenere “utili”, oppure ottimisticamente produttive, le sue parole? Non c’è tornaconto, nella poesia. Né rendiconti. Lasciate l’essere-per-dire (e l’essere-per-avere) ai ragionieri dell’esistenza: a quelli che s’aggrappano alla parola per un calcolo o per l’utile; o per dare o per ricavare qualcosa. E poi: non c’è nulla, in fondo, di cui valga la pena parlare. Bisogna essere musica. Musica alta.
  1. Chi è un poeta? Colui che pubblica un libro? Ovvero chi legge in pubblico i suoi versi? Ma “pubblicare” e comunicare al pubblico (e, in generale, comunicare) è ancora un affare che riguarda l’illusiva, piccola volontà di capire la realtà e, peggio ancóra, di capire gli altri nostri infelici compagni di viaggio; volontà ch’è davvero autolesionistica, allorquando essa esprime l’inaccettabile desiderio di voler essere addirittura compresi o di comprendere sé stessi (Bufalino: «”Conosci te stesso”. Fossi matto!»). La cerimoniosa rettorica del comune linguaggio (cioè il linguaggio del dire-perché-tu-finga-di-intendermi) è un assurdo teatro d’inganni; fitto di mostruosa tartuferìa. Il poeta non può coincidere con chi voglia farsi vivo o compiacente presso il pubblico. Si è poeti soltanto da convitati di pietra: insomma da scomparsi, da inattuali, da assenti, da auto-diseredati. Se tu dai smacco a te stesso, sarai poeta; purché gli altri non lo sappiano; purché tu stesso non lo sappia. Si devono compiere i migliori esercizi per auto-destituirsi, per essere altro da sé stessi; per scomparire e scomparire e scomparire. Per diventare, insomma, la stessa parola da cui si è parlati.
  1. Un nome colpisce e scuote e turba la tranquilla coscienza del lettore che cerca le belle idiozie domenicali del “riposo” di una lettura poetico-vacanziera («Leggo per distrarmi»; «Mi piace, perché mi immedesimo»; «Sembra che l’abbia pensato io!»; «È come una medicina»; e via di questo passo, con altri simili orrori). Il nome al quale alludo è quello di Claudia Ruggeri. Non è una voce poetica da volgo: non è compresa nelle antologie ufficiali (quelle dei poeti “di ruolo”,  onnipresenti e arraffatori di premi o di elogi dispensati dagli amici degli amici); e, anzi, non le è stato intitolato (per sua fortuna) nessun Premio (da assegnare, semmai, al tradizionale poeta italiano contemporaneo: piccolo, confessionale, lagnoso, cripto-cretinesco). Claudia Ruggeri non è un poeta di ruolo: non è ufficiale e non è viva. Scrivendo, ha rifiutato il senso comune dello scrivere; suicidandosi, ha rifiutato il senso comune della vita. Ha compreso che la poesia ha da essere uno strumento stordente: essa non può far altro che tendere all’amplificazione infinita del pensiero, alla sua estrema dilatazione, al suo espandersi mostruoso incontenibile grandioso. Nessun vezzo, nessuno sciocco auto-ripiegamento: nessuno sguardo basso, descrittivo (un poeta non è un narratore! non è succube del mondo che lo circonda; non sa nemmeno di esserci, a volte, in quel mondo così triste; così votato al commercio dei pensieri; così assuefatto alla grevità dell’accettazione, dell’asservimento, dell’accumulo, dell’assoggettamento…). Ruggeri scrive una lingua altra, meravigliosamente in fuga dal piccolo senso facilmente comprensibile o volgarmente digeribile dalla comunità. Nessuna strada facile, in questa lingua: «e quale mai s’invera Canzoniere da questo tanto intentato Io,/ se al grande giro di attorno, di nada, soltanto mento, spio?». Si tratta, certo, di un compito difficile. Un compito, chissà, da riservare ai santi, a coloro che sono superiormente privi di volontà e di intelligenza (sì: l’intelligenza è negativa ed è volgare, perché ha sempre uno scopo; e non è mai disinteressata).
  1. Solo un poeta può mostrare i limiti e l’incongruità e gli stessi buchi paradossali della lingua, perché essa rappresenta il male necessario, l’accidente inevitabile di quella assurda (e altrettanto inevitabile, dal momento in cui si nasce) esperienza dell’esistenza. Claudia Ruggeri fugge dalla lingua istituzionalizzata della comunicazione economica (cioè finalistica e ricompositiva). Scappa dal senso, anche, e dalla volontà; e poi dal desiderio di essere-per-ottenere. Fa come Giona: è profeta suo malgrado. È poeta. Sì: perché non sa di esserlo; né vuole, né sa esserlo. Le sue parole bruciano di una sonorità ch’è tutta verticale e disgregante; (e parlo di sonorità non nel senso edonistico: perché Ruggeri sa che l’unico modo per dire poesia è quello di declinare la parola in Musica; e giammai nella sciocca e “bella” musicabilità o cantabilità dei poeti-sarti che vogliono piacere a chi li ascolta). Sicché i suoi testi ricusano i miserabili ragnateli lessicali della contemporaneità (sempre, ahinoi, prodiga nel mortificare le bellezze della lingua, volentieri violentata da infami neologismi vomitati dall’imperialismo capitalistico, tecnologico, burocratico, anglicizzato…); risuonano e si aprono in essi, invece, come echi di un magma-delirio inarginabile, movenze linguistiche o antiche o remote o rare («Li nostri» «Pulcherrima» «Il dimandar parenze» «Quagiuso») o inaudite o sconosciute o lucidamente errate («Il pescatore m’ha sorrisa»… «L’angiola»). Parole sempre alte, astoriche, altre; perché possedute da una lingua sùbito tramutata in un superbo accadere puro: irriducibile e terribile. Frantumazione-esplosione che dice: meglio essere che avere. E che poi dice: meglio non essere che essere.
  1. Nessun riposo in questi versi. Perché leggere poesia (esserne còlti, detti, sorpresi) significa stare in guerra. Significa, anche, rinunciare all’arroganza dell’egoico e trasformarsi in voce plurima, disgregata, moltiplicata. In Claudia Ruggeri l’io, la biografia, la confessione personale si accomiatano. Quando leggiamo un suo verso, siamo ben lontani (sia lodato Arimane!) dalla vacanza della letteratura di evasione: ma siamo, invece, immersi nella trincea del sovvertimento dei dati dei sensi e delle identità; e si resta, infine, solo devoti al Mistero di ciò che non può essere detto altrimenti (nessuna analisi può e deve spiegare un verso). È per questo che non si finge di evadere, nel momento in cui si è attraversati da questa potente musica-poesia: non ci consola, né ci si riappacifica col mondo. Non c’è alcuna riabilitazione né catarsi né sollievo. L’evasione, qui, è autentica, perché diretta a una fuga assoluta dal senso e dai noi stessi. Si precipita e si scompare si scompare si scompare. Insieme con i versi. Insieme con l’autrice stessa: mistico atomo volante, anch’esso visitato (a dispetto della propria volontà!) dall’immane e solo così dicibile emergere-risuonare della parola poetica.
  1. La musica-scrittura di Claudia Ruggeri è chiusa in sé stessa, nella ragna della propria incomprensibilità. Potremmo farle il torto di comprenderla? Vorremmo, per caso, lasciare la carne bruciante delle sue parole alle sconcezze della parafrasi, del commento letterario? Ma si deve accettare una dura durissima verità: in arte non esiste (non può esistere) alcuna forma di democrazia. Si è chiamati; e a nessuno può essere spiegata la luce distruggitrice e rivelatoria che si riceve. Questa rivelazione insegna il buio; e il buio si traduce in suono, in un canto così potente da giungere all’infinitesimale grado di ciò che finalmente è inudibile e incomprensibile. Ecco il dono-naufragio che un poeta può fare a chi rinuncia a intenderlo con gli strumenti dell’accomodante lingua servile della quotidianità. E appunto questo dono noi lo abbiamo ricevuto dalla folle, inconosciuta – ma quanto amata, e quanto benvenuta! – dismisura del meraviglioso dilagare della poesia di Claudia Ruggeri.