Armenia. Ossip Mandelstam – intervista a Giuseppe Caccavale – a cura di Davide Racca

di Davide Racca

 

L’ultimo libro di disegni di Giuseppe Caccavale si intitola “Armenia. Ossip Mandelstam” (edito da Parenthèses, Marsiglia, 2017, 38€). Un libro che consta di cinque album realizzati tra il 2012 e il 2014 e che “traducono” le parole dei versi del ciclo “Armenia” in linguaggio visivo. È dal 2010 che l’arte di Caccavale viaggia negli alfabeti, da quando cioè ha inciso le “Poesia d’amore” di Alfonso Gatto sui muri dell’Istituto Nazionale della Grafica – Calcografia. Da allora, passando per la Biennale di Venezia del 2015, il suo lavoro sul disegno ha aggiunto all’attività di affresco, graffito e incisione su vetro, una sorta di compito ulteriore: quello di trasporre la parola poetica in immagine di parola.

Con lui ci siamo intrattenuti per alcune domande in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro nella Sala Filippo Palizzi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli (dall’11 dicembre fino al 18 gennaio 2019).

Hai disegnato in grafite su cinque album le parole del ciclo di poesie Armenia di OsipMandel’štam. Perché la scelta di Mandel’štam?

Leggo l’opera di Osip Mandel’stam dal 1990, ho scoperto la sua poesia grazie al poeta di lingua tedesca Paul Celan, in quel tempo abitavo a Gand, nelle Fiandre, studiavo il Canto, le Arti Minori e i Primitivi Fiamminghi. Avevo trent’anni e mi accorgevo che ero circondato da un mondo sommerso nella dissolutezza visiva. Sentivo dentro di me la necessità d’altro, di canoni, di regole, di limiti, studio. Volevo raggiungere gli occhi, occhi non più calpestati. Incontrando il testo di Mandel’stam “Viaggio in Armenia”, i miei occhi cadono su un rigo dove è scritto: “gli occhi sono lo strumento del pensiero”, parole scritte intorno al 1932. La mia sensibilità trovò una fonte dove abbeverarsi. Un fiore diventò di nuovo un fiore. Tutto qui. Mandel’stam diventò immediatamente per me il mio Marcel Duchamp. Allontanarsi dalle abitudini del pensare, dalla stanca cristallizzazione dell’abitudine di riconoscere con facilità sempre gli stessi valori fatti scadere dalla realtà in cui viviamo, accorgersi di tutto ciò e prendere le distanze naturalmente, questo è stato per me incontrare un lavoro come quello della scrittura di Mandel’stam. Dopodiché viaggio in groppa alle lingue. “ Il mattino dell’Acmeismo”, scritto da Mandel’stam è una preghiera di attenzione di profonda attualità. Attraverso le sue parole ho messo a caldo le mani. Gli occhi, lo sguardo, lavorando si trovavano di nuovo in condizioni di alfabetizzazione, tutto vedeva daccapo, le cose più semplici si costruivano di nuovo il loro valore naturale. Gli occhi respiravano e io disegnavo. Avevo la sensazione che dalla tristezza espressiva del passato si aprivano davanti alle mani orizzonti calmi di avvenire.

Questi album sono stati presentati alla prima Triennale d’Arte Contemporanea in Armenia, che si è tenuta lo scorso anno. Hai ricontestualizzato (ma mi verrebbe da direrisemantizzo”) questo lavoro nella Sala Filippo Palizzi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Qui i tuoi album sono sembrati colloquiare con le immagini creaturali del Palizzi. Puoi dirci di questa scelta?

I cinque album di traduzione visiva a grafite del ciclo “Armenia” di Mandel’stam vivono un’esperienza poco comune. Sono stati presentati in due città colpite dal terremoto. La prima Gyumri in Armenia, la città fu colpita da un terremoto devastante che fece venticinquemila morti nel 1988. Li sono stati presentati per la prima volta, ma sopratutto una poesia del ciclo “Armenia” è stata cavata dai muri lettera per lettera in una stanza del Museo Merkurov per la prima Triennale Internazionale d’Arte in Armenia, curata da Adelina von Furstemberg. In una città colpita da un terremoto, solo la lingua può venirci in aiuto, solo la voce delle parole può restituire conforto. Le parole di Mandel’stam scritte per il suo “Viaggio in Armenia”, cavate dai muri di Gyumri in lingua armena stringevano la mano alle voci delle persone che erano andate via con la catastrofe del terremoto. Ogni linguaggio costruisce daccapo le emozioni di dolore e di gioia che la vita ci fa stringere stringendoci la mano. Ed eccomi ora per la prima volta a Napoli, città colpita dal terremoto nel 1980. Per la prima volta presento ora una tessera del mosaico di ricerche che mi vedono al lavoro. Presentare i cinque album nella Sala Filippo Palizzi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli è stata una scelta precisa, grazie ora a una Direzione attenta. Questi studi mettono insieme due realtà di delicata responsabilità, la prima l’Armenia. Un fazzoletto di terra che asciuga continuamente le lacrime del dolore dell’uomo contro l’uomo su Terra. La seconda, un poeta russo inviato nella più remota Siberia e scaraventato in una fossa comune per aver scritto una poesia contro Stalin. Un Paese e un uomo che racchiudono in sé esempi della più umana responsabilità, da tenere ben presente nella memoria, perché la memoria va levigata come un aratro argentato dal lavoro e l’identità va disseminata, quando vi è una diaspora da tenere in conto. Quindi solo in un luogo seminale come una scuola questo lavoro poteva essere presentato. Filippo Palizzi fa da tappeto volante a tutto questo, i suoi quadri come tanti sguardi aprono di nuovo gli occhi con la nostra intelligenza. Prendono per mano un Diluvio e un Noè all’ombra del Vesuvio arrivando dall’Ararat.

Per quanto riguarda l’utilizzo della poesia nell’Arte Contemporanea, non possiamo non pensare alle grandi proiezioni luminose della statunitense Jenny Holzen. Nella prassi “calligrafica” del tuo lavoro fai pensare a certe opere – tra biro e ricamo – di Alighiero Boetti. Dove situi questa tua esperienza della parola poetica?

Mi metto di fronte a una poesia come Paul Cezanne si metteva di fronte alla sua montagna SainteVictoire in Provenza, mi metto di fronte a una lettera come Giorgio Morandi si metteva di fronte a un oggetto. Vedo più figura in una parola che in una figura. Ho studiato molto le Arti Minori e questo ha messo naturalmente una felice distanza con le Arti Maggiori. Gli artisti che tu nomini, sono artisti di cui riconosco il valore contenutistico e la loro importanza di cui non discuto. A me è piaciuto andare per sentieri impervi, qualcosa mi ha spinto ad attraversare la parola, bucarla con aghi su spolveri, toglierle il luccichio, renderla nuda come nudo è il tono della voce. Sono uno scriba, traduco come un amanuense a figura le lettere, le parole, le poesie. Ogni lettera una foglia, ogni verso un ramo, ogni poesia un albero. In tutto questo non c’è ripetizione solo un accadere che mi fa indossare la stanchezza fisica. La parola doveva palpitare di nuovo attraverso una compenetrazione fisica. Come stella nel palato dello spazio la parola scintilla suoni agli occhi, esce dalle mani. Raggiunge lo sguardo scivolando nel gesto di un corpo umano. Un terra-terra di cose, di mani che scavano muri, che scavano carta con grafite, che scavano vetri con punte di diamanti. Un susseguirsi di luce e buio, di voci che cambiano tonalità con il trascorrere del giorno. Una parola che nasce dalle labbra delle dita, un voler abbracciare tutti gli alfabeti. Questa è la parola poetica che mi è cascata addosso.

Giuseppe Caccavale in un ritratto di @heloisefaure

Rispondi