Per un caso fortuito, ho potuto leggere Fermate di Paolo Maccari, pubblicato da Elliot nel 2017, più o meno nello stesso periodo in cui ho affrontato il più recente Cairn (Einaudi, 2018) di Enrico Testa.
Accostamento, dunque, abbastanza fortunoso, ma anche fortunato, dato che i libri di Maccari e Testa, pur nella diversità stilistica e di percorso autoriale, sembrano avere più d’un aspetto in comune. Se ancora Maccari non si uniforma – pur avvicinandosi, qui, notevolmente – all’orizzonte, che è anche intrinsecamente canonico e canonizzante, disegnato da Testa nella sua nota antologia einaudiana Dopo la lirica (2005), è pur vero che da quell’analisi Maccari sembra trarre indicazioni molto utili all’interno del proprio percorso individuale. Quest’ultimo si va dunque a costruire all’interno di una feconda relazione dialogica con il tipo di scavo nella tradizione poetica italiana post- e neo-lirica suggerito da Testa – negando, talora per sovraesposizione, la categoria di “epigonismo di qualità” o “d’autore”, affibbiatagli talvolta, in passato, con una certa facilità.
Per venire invece più direttamente al confronto tra i due libri, non è difficile notare come, già in entrata, a livello paratestuale, le fermate che danno il titolo all’ultima opera di Maccari svolgano la stessa funzione dei cairn di Testa – luoghi dei morti, certo, ma anche preziosi indicatori spaziali. Nel libro di Maccari, poi, i morti sono una presenza inquietante che resta, più che altro, sullo sfondo, ma non sono di certo assenti, né trattati con superficialità, infestando, anzi, molti dei luoghi attraversati. Si pensi, ad esempio, agli “Ultimi atti” che, in una sorta di paradossale rovesciamento, aprono il libro (p. 14: “Un dio disperato / lo ha salvato come / suo ultimo atto. // E poi si è ammazzato…”), per poi passare a una sezione, “Bar”, nella quale aleggia il fantasma delle dipendenze da alcol e da eroina: le coordinate temporali sono quelle di un mondo nel quale ci si mantiene forse al di qua della morte, ma, al tempo stesso, si sperimenta da subito una condizione estremamente incerta e precaria (p. 19: “Nel bar dove vendono la droga / io e i miei amici ci perdiamo…”).
Coerentemente con questa dimensione architetturale dei due testi, ad accomunare i due libri è anche una certa tensione verso una modalità narrativa che è strenuamente presente, anche a fronte di slogature sintattiche più o meno evidenti. Se in Testa la narratività si presenta secondo le marche testuali già ravvisate nell’opera di Cesare Viviani o Milo De Angelis (deissi pronominali mancanti di referente, ad esempio, e anche una certa fenomenologia negativa dell’io), in Maccari il testo poetico si fa più decisamente “racconto”, come si può apprezzare al massimo grado nelle prose inserite in Fermate, caratterizzate da una piana, pianissima, narrazione che non di rado è lineare nel suo sviluppo e talora è anche pienamente referenziale. La giustificazione meta-poetica appare tuttavia più complessa, oscillando tra una descrizione auto-delegittimante per interposta persona (p. 37: “Sono brevi racconti. Pensieri sceneggiati, schizzi / di romanzi e di versi. Scrive in modo che non si capisce / spesso se siano poesie o invece qualcos’altro…”) e la necessità, esposta, più avanti, “di durare un po’ più a lungo” attraverso le parole, in questo caso, della “novella di tre cani che salvano una lepre” (p. 58) raccontata al figlio.
È in quest’ultimo, straordinario, testo che Maccari dà una delle forse più chiare indicazioni sulla propria poetica: “Mentre mi spavento al dovere di tramandare / radici, di correggere gli errori e il male, / di cantare se non c’è più niente da dire, / succede che lui mi chiami ancora. Gli torno / vicino, ma non parlo e non canto” (p. 58). La poesia di Maccari, in ultima istanza, non parla né canta, mantenendosi complice e al tempo sesso equidistante rispetto al dettato piano e prosastico e a quello più tradizionalmente lirico. In questa dimensione terza della scrittura, sembra emergere – ancora una volta per sottrazione e negazione degli elementi che sono più appariscenti, all’occhio del lettore di poesia (sempre più o meno scansato da Maccari, nella sua idealità di lettore forte e, di conseguenza, nella sua stereotipia elitaria) – chiaramente la dimensione etico-morale, con il “dovere di tramandare”, “di correggere gli errori e il male”, di rispondere a una chiamata che impone l’atto di parola e “cantare [anche] se non c’è più niente da dire” (verso in cui, peraltro, sono riuniti i due poli della scrittura già citati, per poi risultare negati entrambi, nel verso di poco successivo).
Tuttavia, non è soltanto prescrittiva l’etica dispiegata nel libro di Maccari e si completa, come anche nel libro di Testa, con le modalità della denuncia e dell’invettiva, da un lato, e dall’auto-denuncia, dall’altro. Come già scriveva Niccolò Scaffai in merito al precedente Fuoco amico (2009) di Maccari: “Il punto di vista etico muove […] dall’indignazione per l’acquiescenza e la falsità. Il sale polemico diventa così risorsa per un investimento sui caratteri umani…”. All’atto della denuncia, dunque, non viene meno uno sguardo più ampio e spesso incline alla compassione (si veda ad esempio la conclusione della prosa alle pagg. 80-81, che delinea in modo molto preciso la posizione del “narratore” ma anche, più in generale, nel libro, del cosiddetto “io lirico”: “Sono rimasti in pochi. Li conosco e mi conoscono fino al magone, nella notte che piano piano sbianca, come stesse per rimettere. Perciò se le facciano queste ultime due risate: io mi siedo in un angolo e smetto di resistere al sonno”). Per contro, l’autodenuncia è talora contenuta nei limiti di un semplice understatement (p. 109: “Cameriere, due birre per i miei amici e per me… portami una coca zero, con ghiaccio e limone, per favore”), talora diventa un’implacabile auto-esposizione, non di rado associata all’accettazione di quella resa che si era già manifestata, come avevano notato Alex Caselli e Marco Villa, in occasione del precedente Contromosse (2013).
Esiste comunque un’estrema e in ogni caso precaria redenzione: in uno degli ultimi testi di Fermate si legge come “dopo la vergogna” intervenga “la paura / e insieme alla paura la voglia / anche soltanto puerile / di un furto grosso, primaverile, / di sottrarre / all’elemosiniere / della vita qualche moneta / di emozione sconosciuta” – furto che il lettore di Maccari può a sua volta ripetere, con augurio di primavera, tra le pagine del suo ultimo libro.