InVersi Fotografici: Quello che resta ossia bambole, clown e specchi: Cindy Sherman Vs Umberto Saba

di Cinzia Accetta

L’InVerso fotografico di oggi parte dalla ricerca di se stessi. Lo specchio è ciò in si guarda e l’immagine cambia sempre. Ecco scorgere il clown che ride e piange di ciò che è stato, seguito dalla bambola muta che sorride e non dice nulla. In questo cercare in fondo alla specchio gli artisti, a volte,  trovano se stessi e ne fanno rappresentazioni pre-digerite da porgere alla “prole inetta”, (così viene denominata la prole degli uccellini indifesi che attende il nutrimento dalla mamma alata).

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La poesia di Saba fornisce nutrimento alla schiera di piccoli volatili ancora incapaci di volare. Quello che resta da fare ai poeti è esprimere con sincerità la condizione esistenziale dell’uomo, al fine di rappresentare l’ordinario e non la realtà straordinaria o metafisica. Nella fotografia Cindy Sherman usa l’ironia e se stessa come materiale da dare in pasto al pubblico, per interpretare il ruolo della donna nella società contemporanea: stereotipata, manipolata, resa oggetto commerciabile. Nella poesia Umberto Saba  scandaglia se stesso e porta avanti una costante indagine della coscienza.

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Cindy Sherman (Glen Ridge, 19 gennaio 1954) è una artista, fotografa e regista statunitense ed è conosciuta per i suoi autoritratti concettuali (self-portraits). La Sherman ha definito se stessa non una fotografa, ma piuttosto un’artista performativa, e le sue immagini sono state definite dal critico Verena Lueken “performance congelate”.  Nel suo primo lavoro “Untitled Film Stills”, sono presentate 69 immagini di piccolo formato in bianco e nero, dove appaiono prefigurati la maggior parte dei temi che caratterizzeranno le sue successive creazioni artistiche.

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Le donne di Sherman sono chiaramente tipi e non donne reali, impersonate sempre dall’autrice, così come sono tipiche le ambientazioni da film che le accolgono, ispirate ai “B movie”. La sua interpretazione è parodistica, limitandosi a ripresentare l’ennesima “proiezione dell’inconscio maschile”.  I suoi atteggiamenti rimangono inconsapevoli dell’osservatore, al quale viene dunque proposto un ruolo voyeuristico. Al primo lavoro fa seguito una seconda serie dedicata ancora al cinema ed i suoi finti paesaggi costituiti da retroproiezioni (”Rear Screen Projections”). Per la rivista “Artforum” Sherman crea nel 1981 “Centerfolds or Horizontal”, una delle sue opere più contestate, nella quale indaga i codici visivi delle riviste pornosoft, e dove l’immagine della donna grazie ad inquadrature orizzontali e a riprese dall’alto risulta fragile ed umiliata. Quasi in risposta alle critiche nasce invece “Pink Robes”, gruppo d’immagini con un tema analogo, nelle quali al contrario usa un formato verticale. Stesse modalità adotterà per le foto di moda che le vengono commissionate a più riprese da stilisti e riviste del settore, nelle quali l’accento è posto, oltre che sulla bizzarria delle modelle, su una particolare impressione di artificialità da mascherata.

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L’uso del travestimento ricorre ossessivamente nell’opera di Cindy Sherman, ed è stato interpretato, oltre che come una ricerca all’interno di un discorso sul gender, come una ricostruzione dell’identità personale. Con le successive serie di fotografie, a partire da  “Disasters”, dove presenta immagini ributtanti di quelli che si scoprono esser cibi, ma sembrano i poveri resti di qualche tragedia, e attraverso la macabra serie “Sex Pictures”, dove riassembla modelli anatomici che mimano la pornografia, smitizzandola e denunciandone la natura fredda e asettica, la Sherman approdare infine ad una visione surreale della realtà. In serie recenti, datate 2003, si presenta come clown.

«Quando andavo a scuola cominciava a disgustarmi la considerazione religiosa e sacrale dell’arte, e volevo fare qualcosa … che chiunque per strada potesse apprezzare… Ecco perché volevo imitare qualcosa di appartenente alla cultura, e nel contempo prendermi gioco di quella stessa cultura. Quando non ero al lavoro ero così ossessionata dal cambiare la mia identità che lo facevo anche senza predisporre prima la macchina fotografica, e anche se non c’era nessuno a guardarmi, per andare in giro».

Ma l’autrice, nel miglior stile surrealista, ha sempre rifiutato di essere incasellata intellettualmente, pretendendo, anzi, di essere in realtà del tutto estranea alla cultura istituzionalizzata. Le sue operazioni concettuali sono rivendicate, dunque, come proprie intuizioni personali, anche inscrivendosi perfettamente in un generalizzato clima culturale postmoderno.

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Per Umberto Saba la poesia è uno strumento di auto-chiarificazione, ossia capace di comprendere i traumi interiori, i dissidi che lacerano la personalità umana, e le origini delle proprie nevrosi. Saba presenta la realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: Trieste, le sue strade, la vita nei caffè.  La poesia di Saba è semplice e chiara, nella forma adopera le parole dell’uso quotidiano. Il linguaggio è familiare, la poesia onesta infatti richiede un linguaggio onesto, capace di descrivere la realtà che viene presentata in maniera diretta, senza alcuna fioritura. I temi della sua poetica sono la città natale, il mare come simbolo di fuga e di avventure spirituali, gli affetti personali e familiari, le memorie dell’infanzia, il rapporto con la natura e le riflessioni sull’attualità.

“Amai la verità che giace al fondo,
Quasi un sogno obliato, che il dolore
Ricopre amica. Con paura il cuore
Le si accosta, che più non l’abbandona”.

(Umberto Saba, da Amai, in Canzoniere)

Presento una selezione delle poesie di Saba che meglio descrivono il legame con la fotografia della Sherman in questo InVerso dissonante. Due linguaggi e due epoche differenti che restituiscono i diversi percorsi di una ricerca di verità.

Inverno

È notte, inverno rovinoso.
Un poco sollevi le tendine, e guardi.
Vibrano i tuoi capelli, selvaggi,
la gioia ti dilata improvvisa l’occhio nero;
che quello che hai veduto
– era un’immagine della fine del mondo –
ti conforta l’intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.

*

Fanciulle
 
Maria ti guarda con gli occhi un poco
come Venere loschi.
Cielo par che s’infoschi
quello sguardo, il suo accento è quasi roco.
 
Non è bella, né in donna ha quei gentili
atti, cari agli umani;
belle ha solo le mani,
mani da baci, mani signorili.
 
Dove veste, sue vesti son richiami
per il maschio, un’asprezza
strana di tinte. È mezza
bambina e mezza bestia. Eppure l’ami.
 
Sai ch’è ladra e bugiarda, una nemica
dei tuoi intimi pregi;
ma quanto più la spregi
più la vorresti alle tue voglie amica.

*

Felicità

La giovanezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.
Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi!
Sul tardi l’aria si affina
ed i passi si fanno leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.
Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.

*

La foglia

Io sono come quella foglia – guarda –
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.

Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un’ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s’attarda.

Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.

*

Dopo la tristezza
 
(da Trieste e una donna, 1910-12)

 
Questo pane ha il sapore d’un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov’è più abbandonato e ingombro il porto.
 
E della birra mi godo l’amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
 
L’anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell’antica sera
guarda una pilota con la moglie incinta;
 
e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
 
fanciullesco, che ho fatto or son vent’anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,
 
e tanta beatitudine romita!

 

cindy sherman

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